La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 2 dicembre 2015

Stato d’eccezione contro il terrorismo? Intervista a François Saint-Bonnet

Intervista a François Saint-Bonnet di Florent Guenard
Per quale motivo si ricorre oggi a una legislazione speciale?
F. S-B.: "Per molto tempo, di fronte a un pericolo serio per la comunità politica, si è fatto ricorso al concetto di necessità evidente per travalicare i limiti imposti al potere dei governi. Salus populi suprema lex est, oppure necessitas legem non habent: queste formule hanno spesso giustificato il passaggio da uno stato normale, in cui il potere è limitato, a uno stato d’eccezione, dove non ci sono limiti. Con la Rivoluzione francese si è affermato il principio secondo il quale le leggi che limitano i poteri (che altro non sono, poi, che le leggi che garantiscono le libertà individuali) non dovevano essere sospese per nessun motivo. Ma questo assunto ha avuto vita breve, perché anche in seguito è capitato spesso che si decidesse di mettere tra parentesi le leggi, quando non anche la costituzione, sotto il Terrore specialmente, ma anche in seguito, nel corso del XIX secolo.
Sotto la Repubblica si è dichiarato lo stato di assedio nei territori dei monarchici, per esempio, e vice versa durante la Restaurazione, e lo stesso si è fatto per le roccaforti dei bonapartisti sotto la Monarchia di luglio. La sospensione delle libertà civili veniva ogni volta operata in maniera brutale ed era funzionale a debellare un avversario politico che veniva considerato nemico belligerante del regime vigente, e cui perciò non era data legittimità di ricorso alla protezione giuridica.
Fu per questo motivo che la Costituente del 1848 volle dare un inquadramento giuridico allo stato d’assedio. Si trattava di stabilire una via di mezzo tra la legalità «normale» e il regno dell’arbitrario: una legalità ancora “eccezionale”, certo, ma comunque una forma legalità. Su questa logica si fonda la legge del 9 agosto 1849, ancora in vigore attraverso l’articolo 36 della Costituzione francese, che può essere applicata in due casi opposti: nel caso di un consenso nazionale («un pericolo imminente risultante da una guerra straniera»), oppure in quello di un dissenso nazionale (una «insurrezione armata» di una parte della popolazione). Questa legge consiste nel conferimento dell’essenziale dei poteri delle autorità civili ai militari in tutte le zone dichiarate in stato di assedio.
Tale misura è stata applicata durante la guerra del 1870 in una ventina di dipartimenti francesi, poi durante i primi quattro anni di guerra mondiale su tutto il territorio nazionale e, in seguito, nel settembre 1939.
Ma lo stato di assedio non è stato dichiarato durante la guerra di Algeria, per esempio, perché era fondamentale allora che, nella loro lotta, i membri dell’FLN non apparissero né come dei combattenti nemici, né come degli insurrezionali. Bisognava presentarli come semplici delinquenti (assassini e autori di attentati), i cui atti, poiché perpetrati durante un processo di decolonizzazione, non poteva essere giustificato da alcun principio politico. Ecco perché in quell’occasione è entrata in vigore la legge del 3 aprile 1955 sullo stato di urgenza, che, contro ogni evidenza, cerca con cura di evitare ogni accostamento con la categoria della guerra di indipendenza, evocando in modo abbastanza evasivo un «pericolo imminente risultante da gravi attentati all’ordine pubblico». Non solo: per distogliere ancora di più l’attenzione da considerazioni di ordine politico, questa legge stabilisce che lo stato di urgenza possa essere decretato anche in caso di «calamità pubblica», come una catastrofe naturale. Quanto a quest’ultimo aspetto bisogna tenere tuttavia conto del fatto che, solo qualche mese prima dell’entrata in vigore della legge, nel settembre del 1954, un terremoto era stato seguito da incresciose scene di saccheggio. La legge del 3 aprile 1955, comunque, prevede un rafforzamento dei poteri civili, ma non il loro conferimento ai militari.
Esiste inoltre l’articolo 16 della Costituzione francese del 1958, che, anche dopo la riforma del 2008, assegna un potere assolutamente discrezionale del Presidente della Repubblica in questi casi. Essa diventa applicabile quando «il funzionamento regolare dei poteri pubblici costituzionali» è interrotto, ovvero quando, a causa di una minaccia molto grave, le istituzioni politiche dello Stato non riescono più ad assolvere ai loro compiti. La misura è stata applicata soltanto una volta, il 23 aprile 1961 in occasione del putsch dei generali di Algeri, e fu mantenuta in vigore dal generale De Gaulle per circa sei mesi.
Troviamo dunque nel codice francese tre diverse legislazioni d’eccezione (stato di assedio, stato di urgenza e articolo 16), frutto di storie peculiari ma con in comune il fatto di mirare a facilitare la risoluzione di crisi intense e divisive ma brevi, come le insurrezioni, o di quelle un po’ meno brevi ma con l’effetto di serrare i ranghi dell’unità nazionale, come le guerre in cui vengono invase porzioni di territorio. Il terrorismo jihadista, che conosciamo ormai da una quindicina d’anni e che non accenna a finire, non rientra in nessuno di questi due casi. Per fronteggiare questa minaccia non si potrà ricorrere per sempre a una legislazione d’eccezione: la risposta è altrove."
L’applicazione dello stato d’urgenza costituisce una minaccia per i nostri principi democratici?
F.S-B.: "La nozione di principi democratici è composta di tre pilastri. Per prima cosa il rispetto della volontà popolare, in secondo luogo il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e, infine, l’esercizio controllo sui tre poteri dello Stato. Le leggi speciali tendono a erodere tutti e tre questi fondamenti.
In primo luogo, quando si applicano tali disposizioni, i processi elettorali vengono spesso interrotti o sospesi. Fu così durante la prima guerra mondiale. Si ritiene, infatti, che la competizione elettorale, in quanto tendente a sottolineare le differenze, sia nociva per la necessaria unità nazionale; unità che presuppone, dunque, una certa idea di unanimità. Ora, sembra che a nessuno in Francia oggi sia saltato in mente di posticipare le elezioni regionali del 6 e 13 dicembre prossimo. Dopo qualche ora di unanimità nazionale la discussione politica ha ripreso la sua strada consueta, nonostante lo stato di urgenza. Ma la proroga e la modifica della legge del 1955, proposte il 19 e 20 novembre 2015, non hanno praticamente suscitato alcun dibattito e il voto è stato quasi unanime.
In secondo luogo, questo tipo di leggi ingenera un’atrofia delle libertà e una dilatazione del potere politica e amministrativa. Lo stato di urgenza erode tanto le libertà individuali che quelle del territorio, dei gruppi e dei flussi di persone. Alcuni individui si vedono privati del rispetto dovuto alla loro vita privata: residenza obbligatoria (la cui facoltà è stabilita nella legge 21 novembre 2015), minaccia alla vita privata per effetto della sorveglianza speciale applicata all’insaputa dei cittadini, zone rosse, perquisizioni ordinate dai prefetti (e non dal giudice) anche di notte. Gli spazi possono essere recintati, con restrizioni alla circolazione o addirittura con la misura del coprifuoco. Diventa possibile vietare le riunioni di gruppi di persone, spettacoli teatrali e proiezioni cinematografiche (quest’ultimo divieto è stato abrogato nel novembre 2015) o addirittura, ed è una novità del 2015, si introduce il divieto di associazione informale tra persone che hanno legami stabili e frequenti, e un minimo di organizzazione, ma che non hanno dichiarato nulla alle autorità. Ancora, diventa possibile bloccare alcuni flussi d’informazione e comunicativi: controllo dei giornali o delle radio (ma anche questa disposizione è stata esclusa dalla legge speciale del 2015), e le comunicazioni orali o scritte possono essere impedite con misure relative agli individui.
In terzo luogo, le legislazioni d’eccezione riducono gli strumenti di limitazione del potere (i cosiddetti contro-poteri). Per esempio riducono il potere del Parlamento: anche se obbligato a consultarlo, infatti, il Presidente può decidere in autonomia dell’applicazione dell’articolo 16. In compenso, lo stato di assedio o quello di urgenza non può essere prorogato per più di dodici giorni se non dalle Camere riunite, che di fatto hanno la facoltà di ribaltare il governo, pur essendo improbabile che lo facciano. Il potere della magistratura è in egual misura limitato, in quanto le garanzie procedurali si vedono ridotte in due modi: con il trasferimento delle competenze delle autorità civili ai militari (come nel caso dello stato di assedio), oppure con il trasferimento delle prerogative della magistratura ai prefetti, come nel caso della «misura amministrativa» dell’obbligo di dimora. In linea di principio, qualunque limitazione alla libertà (come per esempio quella di spostarsi al di fuori di un determinato perimetro) non può avere carattere preventivo e può essere ordinata soltanto da un giudice, guardiano delle libertà individuali, non da un prefetto.
Lo stato di urgenza decretato la sera stessa degli attentati del 13 novembre limita la libertà. E pertanto sembra poggiare su un consenso reale: il 18 novembre l’84% dei francesi intervistati in un sondaggio IFOP erano pronti ad «accettare ulteriori misure di controllo e un certo grado di limitazione della [propria] libertà». Si assiste dunque a una curiosa forma di accettazione democratica della restrizione della libertà democratica. Ma questo consenso si incrina in almeno tre punti.
Primo elemento di debolezza: il consenso alle misure restrittive della libertà è dato sullo slancio dell’emotività. Lo sconforto generato dall’orrore degli attacchi jihadisti tende ad alterare le percezioni. Questo non significa che lo stato di urgenza sia ingiustificato, se dura qualche giorno o qualche settimana, ma è cruciale contrastare il più possibile la nostra emotività e riportare un’analisi fredda e razionale della realtà della situazione. In simili frangenti il potere cede spesso alla tentazione di parlare alla pancia dei cittadini per riuscire ad approvare misure che, in un periodo di calma, risulterebbero inaccettabili. Georges Bush è stato il campione dell’abuso di questo meccanismo.
Una seconda debolezza deriva dalla confusione del principio di salvaguardia dello Stato o della società di fronte al pericolo con una questione di ordine pubblico. Il ricorso a leggi speciali è giustificato dall’urgenza, dall’assoluta necessità di agire con velocità, da quel riflesso istintivo che è la legittima difesa. È così che si salva quello che si deve salvare, certo. Ma queste leggi non hanno alcuna possibilità di costituire una risposta durevole a una minaccia che non è da meno. Passato il momento di estremo pericolo, bisogna tornare alla legalità “normale”, a costo di adottare misure inedite per affrontare efficacemente una minaccia molto precisa, e a costo di modificare, in piena coscienza, l’attuale equilibrio tra sicurezza e libertà.
Terza debolezza, l’accettazione perniciosa dell’imperativo del controllo. Più il potere erode le libertà, più i cittadini devono essere vigili, per contrastare le minacce come anche per difendere i propri spazi di libertà. Questa tendenza a dare al potere una delega in bianco è stata molto forte nel 1961 in Francia, quando Charles De Gaulle venne accolto come un «salvatore», ma oggi sembra essere meno incisiva. Lo si vede anche dal fatto che della legge del 1955 riportata in auge in questi giorni si è stralciata la parte relativa al controllo delle radio e dei giornali."
La legislazione d’eccezione ha una qualche legittimità di applicazione in stato di urgenza?
F. S-B.: "Il Presidente della Repubblica ha fatto appello a due cose: sul momento ha invocato la proroga dello stato d’urgenza per tre mesi e la “ripulitura” di questa legge, e ha poi chiesto una revisione della costituzione in tempi rapidi, che permettesse di agire «in conformità allo stato di diritto, contro il terrorismo e la guerra». La proroga di tre mesi non significa che lo stato di urgenza sarà mantenuto tanto a lungo, anzi resta sempre possibile per il Presidente porre fine a questa misura. Addirittura è anche possibile che sia un giudice a imporre la fine allo stato di urgenza, qualora ravvisasse che le condizioni per la sua dichiarazione non sussistessero più e il Presidente non accennasse a voler sopprimere la misura (secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato del 2005). La ripulitura della legge del 1955 è un’altra cosa: non è mai molto saggio legiferare sull’urgenza in stato di urgenza. Era proprio assolutamente necessario alleggerire le zavorre alle misure di obbligo di dimora e alle perquisizioni con tanta rapidità e senza un sereno dibattito sull’argomento? Era davvero imperativo, come è successo, offrire in cambio di questa accelerazione la rinuncia al controllo pubblico sui media? Sarebbe bastato non applicare questa disposizione e poi toglierla dalla legge in un secondo momento."
Come può il diritto assumersi il compito di risolvere la questione del terrorismo senza passare per leggi speciali?
F. S.-B.: "Bisogna fare lo sforzo di identificare i caratteri specifici del terrorismo jihadista. Questi soggetti non son né delinquenti né “classici” combattenti armati. Non sono delinquenti perché non temono la morte, anzi addirittura la cercano in quanto fonte di gloria presso i loro fratelli. Invece il delinquente tradizionale teme eccome la morte: il ladro vuole godere del bene che ha rubato, il violentatore intende continuare violentare. Questi sono i crimini che la società combatte, e ritiene di poter eliminare attraverso la minaccia della pena di morte o l’ergastolo per i crimini più gravi. L’intero sistema penale della modernità riposa sulla logica secondo la quale la pena di morte senza eccessiva crudeltà costituisce il summum della repressione. Quando si ha però a che fare con persone che non temono la morte, e che addirittura se la procurano con cinture esplosive, è allora tutto il sistema repressivo moderno ad andare in crisi, e il diritto penale con esso. Ecco perché sembra necessario portare il trattamento giuridico del terrorismo oltre il diritto penale e resistere alla tentazione di costituire una sorta di super diritto penale, che Günther Jacobs ha chiamato diritto penale del nemico.
D’altra parte i terroristi jihadisti non sono neanche dei combattenti classici. Quest’ultima categoria rimanda alle convenzioni internazionali sul diritto di guerra che, pur riconoscendo ad alcuni soggetti il diritto di uccidere limitatamente ad alcune circostanze, sottomettono comunque tali soggetti a condizioni che si potrebbero riassumere con un principio di lealtà: non prendersela con persone disarmate, ricorrere all’uso della forza in maniera proporzionata, fare prigionieri piuttosto che eliminarli, e trattarli degnamente… In poche parole si tratta di riconoscere nel combattente dell’altra fazione un «nemico giusto», un alter ego. In questa logica, lo scontro conserva una certa dose di ritualizzazione. Certo, la realtà non corrisponde mai a questo ideale, ma resta il fatto che esiste un’idea regolativa dello scontro. Il terrorista jihadista non appartiene a questo universo logico, dal momento che spara sulla gente disarmata, che giustizia persone in ginocchio mentre supplicano e che, infine, si fa vigliaccamente esplodere quando arriva il momento dello scontro in campo aperto. Inutile quindi provare a usare il modello del combattente per capire il terrorismo jihadista, come fa chi ricorre alla categoria di «combattente illegale» inventata dai vari Patriot Act del 2001. In poche parole, non serve a niente destabilizzare quelle categorie di diritto penale (con la sua gabbia fatta diritti e di libertà) o di diritto di guerra (anch’esso limitato da norme molto precise) che la modernità ha lentamente cesellato e che sono motivo di vanto per le democrazie contemporanee.
Piuttosto, la strada da percorrere sarebbe quella della costruzione ex nihilo di una tipologia specifica di diritto applicabile ai terroristi jihadisti, senza però che in questo modo si inquinino il diritto penale da una parte e quello internazionale dall’altra. Ciò presuppone tuttavia la necessità di identificare con i criteri il più precisi possibile quei jihadisti che nutrono odio per la modernità, in modo da non rischiare di stendere una rete troppo grande, catturando anche persone che nulla hanno a che fare con il terrorismo, com’è capitato negli Stati Uniti dopo il 2001. Questo sforzo di precisione deve passare necessariamente per misure di sorveglianza alquanto intrusive, è vero, e per questo la politica dovrà sorvegliare in maniera molto attenta. Se si aumenta il potere dello Stato sugli individui bisogna compensare con meccanismi rafforzati di controllo di questo stesso potere: una vigilanza da parte della magistratura sulle amministrazioni e una società civile attenta, attraverso la stampa, le associazioni di difesa dei diritti fondamentali, sindacati dei magistrati e degli avvocati e così via.
Ma allora, una volta identificati tali criteri, di quale “libertà dei moderni” potranno essere privati coloro che odiano la modernità?
Probabilmente non di quelle libertà relative all’espressione e alla comunicazione. Per sconfiggere un’idea non funziona mai il trucco di far finta che non esista, anche quando è odiosa e criminale. Ecco perché la chiusura dei siti internet jihadisti o la penalizzazione della consultazione degli stessi (legge del 13 aprile 2014) non è per forza una buona soluzione. È preferibile educare e informare sulla realtà ideologica dello jihadismo e svelare le tecniche di propaganda di cui si serve. Del resto, la forza della democrazia sta nella capacità di affrontare anche queste idee. E poi è fondamentale non offrire al nemico la possibilità di atteggiarsi a vittima o martire della libertà di espressione.
Ai terroristi non si potranno vietare nemmeno quelle libertà che riguardano le garanzie procedurali per i processi e i gradi di giudizio. Più si mettono tra parentesi le libertà fondamentali, infatti, e maggiore controllo è necessario. In materia di diritto delle libertà si ha l’abitudine di dire che è meglio un colpevole in libertà piuttosto che un innocente in prigione: anche se è difficile, dobbiamo continuare a pensarla così.
Non si potranno limitare neanche le libertà legate alla nazionalità. Privare un individuo del suo passaporto francese non avrà alcun impatto su una persona che odia già la Francia e che non si considera cittadino francese. Perché adottare la prospettiva dei «buoni» e dei «cattivi» francesi? È una scappatoia miope che si priva della possibilità di trasformare, in seguito, il proprio nemico in un amico e in un futuro modello, attraverso i programmi di «deradicalizzazione».
In compenso è importante porre la questione cruciale dell’habeas corpus, cioè dell’impossibilità di trattenere o rinchiudere un individuo se questi non ha commesso un reato. E con essa va posta di nuovo la questione della privacy, ovvero della possibilità di sorvegliare un individuo a sua insaputa per capire se esso rientri nella categoria sensibile stabilita.
Dal 1945 il livello di protezione delle nostre libertà non ha mai smesso di crescere, mentre le minacce diminuivano sempre di più, soprattutto a seguito della caduta del Muro di Berlino. A un certo punto si era arrivati a pensare che questo grado di protezione sarebbe rimasto immutato, e qualcuno ha perfino sostenuto che la protezione giuridica delle libertà non potesse far altro che progredire con il tempo, senza mai regredire. Non è più così. Le libertà hanno un prezzo, e i partigiani e resistenti degli anni ’40 lo hanno pagato caro. Il sistema giuridico dei moderni si fonda sull’uscita dallo stato di natura, descritto come condizione in cui l’insicurezza è insopportabile, e sull’affidamento allo Stato del compito di garantire la sicurezza degli individui che, contestualmente al patto, rinunciano all’uso arbitrario della forza. È questa la condizione di possibilità dei diritti fondamentali. L’equilibrio tra sicurezza e libertà è necessariamente oscillante, e necessita di una costante attualizzazione. Perciò è legittimo riconsiderare pesi e misure con metodo democratico, purché si eviti tanto il ricorso all’emotività che gli appelli all’autorità, rinnovando invece quelli alla razionalità."

François Saint-Bonnet è Professore di Storia del diritto all’Università Panthéon-Assas (Paris II). Specialista del diritto dei periodi di crisi, lavora anche sulla storia delle libertà pubbliche e dei diritti fondamentali. È autore di L’état d’exception (PUF, «Léviathan», 2001) e di Histoire des institutions avant 1789(LGDJ, 5e éd. 2015).

Articolo tratto  da “la vie des idées.fr”
Traduzione dal francese di Riccardo Antoniucci
Fonte: MicroMega online - Il Rasoio di Occam 

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