La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 4 febbraio 2016

«Lavoro agile», ma la legge delega era così necessaria?

di Roberta Turi e Eliana Como
Il 28 gennaio il Consiglio dei ministri ha approvato la legge delega sul “lavoro agile”, il cosiddetto smart working. L’obiettivo sarebbe quello di favorire le forme flessibili del “lavoro agile” allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Ma qual è la differenza tra il telelavoro e il “lavoro agile”? Perché c’era bisogno di una legge di questo tipo? Si è detto che il principale motivo sia stato lo scarso utilizzo del telelavoro. Ma è veramente così?
A noi non risulta. La disciplina del telelavoro è normata dall’accordo interconfederale del 9 giugno 2004, con cui varie associazioni datoriali, dell’industria e dei servizi, tra cui Confindustria, e Cgil Cisl e Uil, avevano recepito in Italia l’accordo quadro europeo del 16 luglio 2002. Dal 2004 a oggi c’è stata una crescita costante dell’utilizzo del telelavoro, anche saltuario, che è stato normato da aziende e sindacato in numerosi accordi collettivi aziendali. Tra le aziende metalmeccaniche il primo accordo è stato sottoscritto nel 2003 in Ibm.
Da allora gli accordi di telelavoro si sono diffusi in molte altre realtà lavorative, soprattutto nel settore dell’Ict: Almaviva, Hp Es, Lottomatica, Alcatel Lucent, tra le altre. In tutte queste aziende, grazie ad accordi sindacali, si è diffuso l'utilizzo del telelavoro che viene svolto in modalità anche flessibili. Ma sempre garantendo tutele e diritti alle lavoratrici e ai lavoratori. Se andiamo a vedere, punto per punto, quali sono le eventuali differenze sostanziali tra l’accordo del 2004 e la delega attuale, ci accorgiamo che il “lavoro agile” ha un unico obiettivo: liberare le aziende dai “lacci e lacciuoli” del telelavoro, svuotandolo di diritti e tutele. Qualche esempio?
Protezione dei dati, diritto alla riservatezza, potere di controllo 
Nell’accordo del 2004 si prevedeva che il datore di lavoro mettesse in campo misure appropriate per garantire la sicurezza dei dati utilizzati dal telelavoratore per fini professionali e informasse di tutte le norme di legge e regole aziendali relative alla protezione dei dati. Rispetto al diritto alla riservatezza, il datore di lavoro se ne faceva carico e per l’utilizzo di strumenti di controllo doveva rispettare la legge. Nella delega sul “lavoro agile” compare una novità, il capitolo sul potere di controllo e disciplinare: il datore di lavoro ha diritto di controllare la prestazione resa dal lavoratore nei limiti indicati dall’accordo individuale e nel rispetto della legge in merito ai controlli a distanza.
Nell’accordo individuale si fornisce la possibilità di inserire eventuali comportamenti disciplinarmente rilevanti ulteriori rispetto a quelli contenuti nel codice disciplinare applicato dal datore di lavoro, ovvero quello previsto dal ccnl, specificandone le relative sanzioni nel rispetto del principio di proporzionalità. Questo punto della delega introduce un principio molto grave, e cioè che l’accordo tra lavoratore e datore di lavoro può peggiorare i ccnl per quanto riguarda i provvedimenti disciplinari. Non solo. Mentre per il datore di lavoro c’è un diritto al controllo, non c'è più per il lavoratore un diritto alla riservatezza.
Salute e sicurezza 
Nel “lavoro agile” il datore di lavoro viene, di fatto, deresponsabilizzato, mentre il lavoratore viene caricato totalmente della responsabilità di tutelare la propria salute e sicurezza nella prestazione lavorativa, a differenza di quanto previsto per i lavoratori che svolgono la prestazione lavorativa in azienda, di cui il datore di lavoro è totalmente responsabile.
Organizzazione e condizioni di lavoro 
In base all’accordo del 2004 sul telelavoro, rispetto all’organizzazione del lavoro i carichi di lavoro e i livelli di prestazione del telelavoratore devono essere equivalenti a quelli dei lavoratori che svolgono attività nei locali dell’impresa. Nella legge delega sul “lavoro agile” sui carichi di lavoro non c’è nulla: li potrà quindi decidere l’azienda.
Formazione 
Nell’accordo del 2004 viene previsto che i telelavoratori fruiscano delle medesime opportunità di accesso alla formazione e allo sviluppo della carriera dei lavoratori comparabili che svolgono attività nei locali dell’impresa, oltre che il diritto di ricevere una formazione specifica mirata sugli strumenti tecnici di lavoro di cui gli stessi telelavoratori dispongono e sulle caratteristiche di tale forma di organizzazione del lavoro. Nella delega sul “lavoro agile” non si fa menzione di formazione.
Diritti collettivi
Nell’accordo del 2004 si prevede che i telelavoratori abbiano gli stessi diritti collettivi dei lavoratori che operano all’interno dell’azienda. Non deve essere ostacolata la comunicazione con i rappresentanti dei lavoratori. Il datore di lavoro garantisce l’adozione di misure dirette a prevenire l’isolamento del telelavoratore rispetto agli altri lavoratori dell’azienda, come l’opportunità di incontrarsi regolarmente con i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda. Nella delega non si parla di diritti collettivi. Sono invece menzionati i contratti collettivi che potranno integrare la disciplina sul “lavoro agile”.
Conclusioni
Come si può facilmente vedere, il “lavoro agile” attiene in larga misura a un rapporto individuale tra lavoratore e azienda: a esso non si applicano le norme e i contratti collettivi relativi al telelavoro, che sarebbero la causa stessa del suo scarso sviluppo in questi anni. Il disegno di legge garantisce, è vero, la possibilità di recesso e l’obbligo alla definizione di un contratto scritto tra le parti. Ma le parti sono, appunto, il singolo lavoratore contro l’azienda. E se il lavoratore non si chiama Mark Zuckerberg, qualche problema rischia di averlo.
Nel disegno di legge, infatti, niente lascia intuire che questa modalità di lavoro sia destinata esclusivamente a dirigenti e professionalità così elevate e con un così alto livello di autonomia da potersi garantire da soli un rapporto più o meno equo con l’azienda. Cosa vieta di proporre lo smart working a un impiegato addetto all’inserimento dati? Niente. Il “lavoro agile” rischia quindi di diventare la riproposizione del vecchio lavoro a domicilio: un lavoro di bassa qualifica svolto tra le mura domestiche, soprattutto da donne e giovani precari.
Alla luce di tutto ciò, appare forse più chiaro perché il “lavoro agile” rischia di essere l’ennesimo cavallo di Troia per destrutturare, in nome dell'innovazione tecnologica e organizzativa, la prestazione di lavoro. Se non esiste una sede fissa di lavoro, cosa resta del concetto di orario normale? Cosa ne è dei diritti relativi alla reperibilità, allo straordinario, al lavoro notturno, al riposo compensativo? Se le aziende non sono nemmeno obbligate a predisporre gli strumenti di lavoro, su chi pensiamo che ricadranno tutte le altre spese, quelle di luce, riscaldamento, connessione, pasti e via dicendo, comunque necessarie allo svolgimento della prestazione di lavoro?
Ma ancora più grave: se non si sa qual è il posto di lavoro, cosa ne è del rispetto delle norme di sicurezza e della responsabilità dell’azienda nei confronti dell’ambiente di lavoro? Come si fa il documento di valutazione dei rischi? Non crediamo sia sufficiente, come si legge nella legge delega, che le aziende informino i lavoratori una volta all’anno sui possibili rischi che corrono nello svolgimento del proprio lavoro. E chi può pensare che l’Inail riconosca un eventuale infortunio sul lavoro ovunque esso capiti, visto che la sede di lavoro non è definita? Basti vedere le difficoltà che ci sono oggi – nella normale prestazione di lavoro con sede fissa – a farsi a riconoscere gli infortuni in itinere.
Perché tutto questo dovrebbe essere considerato un’opportunità per le lavoratrici e per i lavoratori? Le considerazioni più comuni sono che si risparmierebbero ore di traffico per andare in ufficio, si concilierebbe più facilmente tempo di vita e tempo di lavoro, ci si potrebbe concentrare di più e meglio nella propria attività, favorendo persino le proprie capacità creative. Sia ben chiaro, nessuno pensa che gli uffici siano sempre luoghi positivi di socializzazione e scambio. Ma siamo sicuri che nello svolgere la propria attività di lavoro più o meno sempre da soli, come pure nel telelavoro, non si corra il rischio di finire isolati dal proprio contesto lavorativo, dalle relazioni sociali che vi si creano, dalle possibilità di percorsi professionali e, perché no, dai normali processi di partecipazione collettiva e di sindacalizzazione?
Di più. Siamo sicuri che lavorare dove si vuole, ma senza diritti, sia un modo di conciliare meglio tempo di vita e tempo di lavoro? E, infine, siamo così convinti che la stessa creatività non sia una condizione che necessita dello scambio con altre persone e non sia quindi favorita piuttosto che ostacolata anche dalla normale interazione in un luogo di lavoro? Insomma, se nel “lavoro agile” il normale rapporto di subordinazione non viene meno, non ci sono storie: lo smart working non è una possibilità, ma un rischio. E uno strumento utile solo alle aziende, non soltanto per superare i vincoli faticosamente contrattati in questi anni con il telelevoro, ma più in generale per destrutturare definitivamente la prestazione di lavoro e cancellare diritti.
A partire dai prossimi giorni dovremo quindi impegnarci affinché il “lavoro agile” non diventi una possibilità, per le imprese, di ridurre ulteriormente i diritti di chi lavora. Questo andrà fatto cominciando a pensare a come modificare una legge che oggi è tutta a favore delle imprese, ma anche agendo con la contrattazione collettiva, nazionale e aziendale.

Fonte: Rassegna Sindacale 

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