di Silvano Cacciari
Il lungo filo rosso della storia dei poteri deflattivi – delle tecnologie, nel governo e dei dispositivi disciplinari diffusi - ci mostra la storia di un potere sia autonomo che intrecciato con l’andamento della deflazione nel movimento dei prezzi e dei cambi. Naturalmente nei periodi dove l’inflazione è alta questo potere è limitato o, addirittura, impercettibile. Ma, come molti poteri impercettibili, è destinato a tornare. Si tratta di un potere che si legittima con le dinamiche economiche, finanziarie – di negoziazione di beni e di servizi - ma si sostanzia nelle evoluzioni tecnologiche, della forma stato, dell’amministrazione, del regime fiscale, dell’organizzazione dell’impresa e, naturalmente, nel potere disciplinare microfisico diffuso. Per fare un esempio, l’attuale tendenza, non certo solo italiana, all’accorpamento delle amministrazioni locali, e il tentativo del governo centrale di regolarle tramite un bilancio di gruppo tra amministrazioni e partecipate, è un potere deflattivo.
Tende a prescrivere, in questo caso normativamente, un aumento della produttività amministrativa, dell’immissione di tecnologie nel governo delle risorse e dei servizi, un contenimento dei costi compreso, ovviamente, quello del lavoro. Entrando, oltretutto, in un intreccio continuo con altri poteri deflattivi: le tecnologie di risparmio del lavoro e di centralizzazione della spesa a detrimento del Pil. In società, come quelle dell’UE e dell’Eurozona, dove l’obiettivo della Banca centrale europea è mantenere l’inflazione al due per cento, la presenza di un potere deflattivo è quindi significativa. Il potere deflattivo come tale deriva la propria forza, e anche la legittimità, dai processi economici deflazionari. Ma non è un processo strettamente di mercato: amministrazione, tecnologia, norme, organizzazione sono dispositivi di potere che non fissano direttamente prezzi per quanto ne influenzino le dinamiche. Ma, allo stesso tempo, si tratta di dispositivi che perdono potere una volta che la dinamica deflazionaria, quella strettamente economica, tende a indebolirsi.
La presenza di un potere deflattivo concepibile come tale è rilevabile dalla Rivoluzione Industriale con significativi precedenti. Si tratta di processi, andando oltre i dibattiti strettamente economici, che permettono di definire le nostre, quelle delle prime decadi del XXI secolo, come società della deflazione. Ovvero società nella quali il potere della evoluzione tecnologica, dell’ottimizzazione dell’amministrazione e del costo del lavoro, dell’esternazionalizzazione dei servizi sociali e produttivi convergono per costituire la forma sociale dominante. Forma sociale che si intreccia con le dinamiche economiche, con una miriade di indicatori economici e finanziari che la percepiscono, invece, in termini di valore.
Potere deflattivo
Il potere deflattivo, qualcosa che va quindi ben oltre la sua cruda anima economica, non è da confondere con l’ordoliberalismo, che comunque è una specifica tecnologia di governo che di questo potere si serve. Tanto che la Silicon Valley – che con l’ordoliberalismo e la sua filiazione, la governance europea multilivello non ha nulla a che vedere – è un potere deflattivo quanto lo è, da molto prima del pc, ogni genere di macchina. Il potere deflattivo riduce il numero delle componenti produttive che si trovano nel suo perimetro di azione, aumentandone, nel contempo, la produttività. Dal lavoro, all’amministrazione, al governo microfisico della società. È un potere verticale, per le reti di relazioni che governano questo processo.
Si tratta di un potere che converge economicamente con la tendenza alla decrescita del prezzo dei beni, delle materie prime e del lavoro dovuta all’evoluzione dei sistemi di trasporto, comunicazione e allocazione tecnologica dei processi lavorativi. Ma anche, come ha dimostrato la BIS (Banca dei regolamenti internazionali), con l’evoluzione delle piattaforme tecnologiche in materia di operazioni finanziarie che ha contribuito, più della leva geopolitica, alla decrescita del prezzo del petrolio (BIS, 2015). Il potere deflattivo è sia concentrazionario che diffuso: è un potere verticale, perché deve ottimizzare per produrre, ma nella società si trova come infrastruttura sistemica (o nelle società economicamente indebolite, in ordine sparso) in dispositivi di potere diversi, dalla tecnologia alla finanza, all’amministrazione, alla logistica, alla mentalità. La sua materialità si definisce attraverso questi, ed altri, campi di forza. La sua materialità scompare e riappare nei processi storici.
Nell’economia globale questo tipo di potere ha manifestato la propria presenza nel periodo della grande deflazione (Landes D.S., 2000), tra gli anni ’70 e gli anni ’90 del XIX secolo, quando il passaggio dalle economie agricole a quelle industriali, allora significativo a livello planetario, fu accompagnato da un salto di qualità, e di paradigma, nella produttività delle tecnologie. Fu il momento in cui a livello planetario, in sincronia globale, fu conosciuta la deflazione economica. Ma già Marx aveva anticipato i caratteri di paradigma, oltre il crudo aspetto di mercato, come potere deflattivo nel Frammento sulle macchine (Marx, K., 1964). Marx parlava infatti di processo produttivo come “sistema automatico di macchine” (Marx, K., 1964, p. 293).
Analizzando il vero salto epistemologico, e della organizzazione delle tecnologie, avvenuto tra la produzione tramite macchine governate dall’uomo e quella dove le macchine sono governate da altre macchine (Marx, K., 1964, p. 293). Il frammento indicato è considerato, giustamente, come un classico dell’analisi del ruolo diretto della scienza nella produzione. Marx è però anche altro. Quando indica l’emergere della scienza come potere che ha capacità di fare sistema nella produzione riconosce quei tratti originari di un dispositivo di potere, di un sistema di sapere ad alta complessità tecnologica che si struttura attorno alle esigenza produttive. La scienza, organizzata in quel modo inedito per l’epoca, sarà riconosciuta poi quel potere sistemico che si manifesterà, a livello globale e deflattivo, un quindicennio dopo il Frammento. Ma questo dispositivo di potere non si fermerà affatto alla sfera della produzione. Il sistema della scienza ottocentesca, infatti, finirà per trasferire le proprie competenze produttive, come potere deflattivo, all’amministrazione. Tanto che già prima del ‘900 negli Stati Uniti, sotto l’onda del ruolo sistemico della scienza nel ventennio deflattivo precedente, si definisce una matura scienza dell’amministrazione come risposta combinata, sistemica “agli effetti della produzione, dell’urbanizzazione e della crescita della popolazione” (Raadschelders J.S.C.; 2015 p. 25). Quando questa scienza dell’amministrazione, mutata, arriverà in Europa, dopo il secondo dopoguerra (Raadschelders J.S.C.; 2015 p. 26), della sua origine legata al potere deflattivo della scienza tout court, a sua volta innestata nella produzione, si erano però perse le tracce. Anche perché il nesso che, allora, passava tra produzione, scienza e amministrazione se cominciava ad avere un timore da circoscrivere, ed analizzare, era quello dell’inflazione. E se c’era all’epoca uno schema teorico legato all’intreccio tra scienza, produzione e innovazione tecnologico era quella, celeberrima, di Capitalismo, socialismo e democrazia (Schumpeter J.A., 2001): un breve periodo di disoccupazione tecnologica, nella quale il potere deflattivo faceva capolino, poi la mutazione produttiva avrebbe prodotto un numero di posti di lavoro e una quantità di ricchezza superiore alla distruzione originata. Rimaneva un timore lontano. Quello rappresentato nel dipinto di Ford Madox Brown, parte dei Manchester Murals dedicati all’evoluzione della produzione nell’Inghilterra di metà ‘700. Nel quadro si raffigura l’inventore di una macchina tessile, John Kay, strappato da persone pietose dalle braccia della moglie per farlo sfuggire dagli artigiani che lo volevano linciare.
Gli stessi che avevano perso il lavoro a causa di questa invenzione. La brutalità del potere deflattivo, e i rischi della società della deflazione, sembravano una lontana, vaga curiosità storica. Soprattutto in una società fordista dove, invece, l’inflazione era il convitato di pietra di ogni politica economica e dove il nesso tra innovazione e produttività sembrava, una volta dispiegato, soprattutto generare occupazione e alienazione. Non, come oggi, disoccupazione e ça va sans dire alienazione. Insomma, il potere deflattivo, e le società della deflazione, vivono un andamento ciclico nelle società capitalistiche. Una volta dimenticate, come in qualche antica leggenda cinese, si manifestano nella loro piena presenza. Oggi l’ospite che è tornato, con la sua inquietante presenza che prelude alle mutazioni, è il potere deflattivo.
Potere che cambia la materialità delle nostre società fino a farle definire “società della deflazione”. Eppure ci sono state società dove le reazioni alla immissione di tecnologie dell’epoca, agli effetti deflazionari sul lavoro hanno portato a esecuzioni di massa degli innovatori, come avvenuto in Francia del quindicesimo secolo (Heilbroner L., 1953 p.32). Ci sono stati poteri sovrani che hanno resistito al potere deflattivo, e alla sua portata destituente. La storia della tecnologia e dell’economia convergono sulla vicenda della bocciatura da parte di Elisabetta I dell’adozione di un nuovo telaio che avrebbe anticipato la rivoluzione industriale [Millington J. e CHAPMAN S., 1989]. Il potere deflattivo, contenuto nelle tecnologie, nella scienza, nelle reti sociali, nell’amministrazione, nella deliberazione politica, nei saperi è quindi sia destituente, come per il governo sovrano di Elisabetta I, che costituente, come nel caso dell’ordoliberalismo che lo usa e che cerca di ordinarlo normandolo. Il potere deflattivo agisce su ottimizzazione, riorganizzazione, esternalizzazione, innovazione, rotture di paradigma. Trova rivolte come consensi. La sua presenza è silenziosa come fragorosa. In una società deflattiva è il potere egemone.
Ma quali sono le ipotesi teoriche che si servono oggi del potere deflattivo, configurando una società deflattiva? C’è un conflitto interessante che non possiamo non notare: quello tra la concezione del potere deflattivo nella globalizzazione e nella deglobalizzazione. Entrambe investono le loro carte teoriche sulla contrazione del lavoro, tramite l’innovazione tecnologica, entrambe riportano all’ordine del giorno la questione del reddito di cittadinanza.
Tecnologia e potere deflattivo tra globalizzazione e deglobalizzazione
Il potere deflattivo, figuriamoci la materialità che genera, è ambito, conteso, progettato, desiderato. Specie quando, come in un cerchio magico che si autoesalta, incontra il favore dei profondi processi economici dai quali deriva e che contribuisce a formare. Rende dominante chi, e cosa, lo esercita, sul tipo di morfologia sociale governata oppure sull’intera superficie della società amministrata. Se andiamo a vedere il dibattito americano (tra big government e stakeholder, poteri centrali e governamentalità diffusa) intorno al grande potere tecnologico e deflattivo come l’Internet of Things (Department of Commerce, 2017) vediamo come questo potere deflattivo non solo sia riconosciuto ma anche politicamente incoraggiato. Infatti i “benefici della IoT” tutti deflattivi (Department of Commerce, 2017, p. 8) devono toccare una nuova generazione di innovazioni in logistica, tra sporti, comunicazioni, porti, aeroporti e organizzazione amministrativa (Department of Commerce, 2017, p. 8), ma anche arrivare al piano della produzione diretta di soggettività ovvero educazione e formazione (Department of Commerce, Usa, 2017, p. 49). Il potere deflattivo prevede quindi di rinnovarsi, come fa sempre, su nuove piattaforme tecnologiche: dalla produttività all’educazione anche se in termini molto diversi dall’epoca delle società disciplinari.
Ma quando un potere è egemone? Quando viene conteso da paradigmi concorrenti per intercettarlo e, in questo modo, intrecciarsi con la sua produzione di egemonia. In questo caso i paradigmi concorrenti, che cercano di intercettare il potere deflattivo, sono due: quello della globalizzazione e quello della deglobalizzazione. Entrambi accusano il proprio dirimpettaio di essere fuori dal mondo, entrambi possono anche ibridarsi. È nella natura, e nella storia, dei conflitti scientifici, tecnologici, economici, politici, di paradigma.
Il paradigma della globalizzazione – campo di forza teorico che si vuole elemento regolatore del politico, dell’amministrazione, dell’economia, delle tecnologie sul piano globale – è ampiamente conosciuto. È il paradigma dominante, nel mondo contemporaneo, dagli anni ’90, esercita egemonia anche verso i propri avversari che ne riconoscono l’importanza. Ha sempre legittimato, a sua volta, il potere de flattivo alla maniera classica, schumpeteriana: qui il potere deflattivo è sempre stato spiegato come la precondizione di una espansione della ricchezza globale che poi, inevitabilmente, sarebbe finita a cascata ovunque la si sarebbe saputa intercettare. Le criticità semmai qui sono spostate sul piano della capacità, inevitabilmente innovativa, di saper intercettare questa ricchezza. In questo caso le istituzioni globali prescrittive di questi comportamenti innovativi, come il Fmi e la Bce o la Ue, si sono legittimate in virtù della forza materiale e della legittimità scientifica, prima ancora che formale, di questo paradigma globale.
Il paradigma della globalizzazione è di fronte ad una crisi di legittimità che, come spesso accade, non è solo politica ma anche scientifica. La globalizzazione, intesa come capacità di intrecciarsi con il potere deflattivo in quanto potere diffuso, sembra in crisi materiale. Non solo per quanto riguarda la decrescita dell’incidenza degli scambi globali sul PIL mondiale ma anche per una possibile deglobalizzazione dei sistemi bancari che, fino ad oggi, sono stati la cifra materiale di un mondo globalmente connesso (Bank Governance Leadership Network, 2014). Senza parlare della crisi di legittimazione politica della globalizzazione che si manifesta, in modo multiforme, ad ogni tornata elettorale o referendaria nei paesi ritenuti più avanzati. Ecco che appaiono le ipotesi teoriche di compensazione degli effetti della globalizzazione, e qui il reddito di cittadinanza trova una sua legittimazione. In modo da rilegittimare, ed intercettare, il potere deflattivo grazie a politiche di compensazione, redistributive (e qui non sono nemmeno infrequenti concezione storiografiche della tecnologica come compensatrice, in ultima istanza, degli squilibri lavorativi che provoca).
Ma entro le stesse strategie della compensazione, che intendono rilegittimare la globalizzazione indirizzandola verso politiche redistributive, ci sono significative differenze e rischi di aporie. Lo segnala un report di Brueghel.org (Merlers S., 2017): si passa dal reddito universale, alle politiche di incentivo alla migrazione lavorativa, all’idea che il potere deflattivo della robotica vada comunque contrastato con politiche a sostegno di nuova occupazione. Per arrivare a autori che evidenziano considerazioni sull’inefficacia di un reddito universale, che per alcuni non ridurrebbe la forbice sociale, o sull’anomia sociale come rischio di un reddito di cittadinanza che disincentiverebbe l’innovazione piuttosto che favorirla (Merlers S., 2017).
Sono posizioni comunque note che però portano, sempre più, la novità del loro inserimento in contesti sovranazionali e, anche questo dettaglio non banale, con insistenza lucidamente maggiore sulla evoluzione della robotica. Deflazione, dimensione globale, robotica: il potere deflattivo, per quanto sia un potere che si territorializza, viene quindi capito su un piano globale oltre che quello tecnologico. E va riportato, secondo queste analisi, sul piano della territorializzazione nazionale delle politiche per legittimare l’assetto globale dell’economia. Di, qui come evidenziato da Merler, le difficoltà di inquadrare una concezione del reddito di cittadinanza che sia compatibile con queste dimensioni.
L’altra novità, sul piano teorico, sta invece nel tentativo di intreccio tra potere deflattivo e paradigma della deglobalizzazione. Troppo spesso la deglobalizzazione è stata paragonata alle teorie della decrescita o come materia per soggetti legittimati da quella parte di società impoverita, culturalmente arretrata e frustrata dalla mobilità sociale verso il basso. La questione si fa differente quando intervengono ben altri tipi di considerazioni.
La scorsa estate, ben prima della vittoria elettorale di Trump, Thomas Hammes, della National Defense University (appartenente al dipartimento della difesa americano) pone un problema che rappresenta il classico salto epistemologico: quello di un corpo di analisi che passa da una disciplina all’altra. Il salto è quello dal terreno della strategia militare a quello dell’evoluzione del mondo del lavoro e il tema non è certo di quelli superficiali: Will Technological Convergence Reverse Globalization? (Hammes T.X., 2016). Hammes – che è uno studioso di processi insurrezionali, di scenari di conflitto e di strategia militare – compie la classica operazione che avviene quando un corpo di concetti, collegato ad una serie di fatti ritenuti verificati, si ritiene maturo: passa dal proprio campo, in questo caso gli studi strategici, ad un altro, ovvero l’intreccio tra evoluzione tecnologica e mutazioni dell’organizzazione del lavoro. Hammes è molto chiaro nella rappresentazione delle proprie analisi e, per legittimare e fondare il proprio ragionamento, si basa, a sua volta, su analisi della banca mondiale, del McKinsey Global Institute, della General Electric Global Research e su riviste specializzate nel rapporto tra robotica e lavoro come la MIT Technology Review. Non esattamente istituti tecnofobi e localisti o riviste di incerta collocazione, insomma. Ma Hammes è anche incline a piegare queste analisi con le considerazioni di Forbes e delle riviste specializzate in logistica che trattano argomenti con un tema piuttosto esplicito: Why it’s Time to Bring Manufacturing Back in US o Made in America, again (Hammes T.X., 2016 p. 16). A dimostrazione che il dibattito sulla riterritorializzazione dell’industria americana non ha investito, o investe, la sola propaganda elettorale. Ma che poggia, comunque vada a finire, su un corpo di concetti che si sono fatti, di volta in volta, paradigma del tentativo di intercettare il potere deflattivo entro le mutazioni tecnologiche. Per Hammes, che pone il problema sia dal punto di vista della strategia militare che economica, perché considera l’economia come la forza militare in ultima istanza, siamo dimfronte a un’epoca di “grande, nuovo trinceramento” (Hammes T.X., 2016 p. 1). Dove dominano, quindi, i processi di reversibilità della globalizzazione sul piano produttivo. Specie in presenza di una significativa contrazione della presenza di scambi di beni e di servizi finanziari nel Pil globale (Hammes T.X., 2016 p. 1). Hammes prende questa contrazione non come un dato contingente ma come una tendenza di lungo periodo. E invoca proprio il potere deflattivo della tecnologia come elemento in grado di legittimare, e di spiegare, non la tendenza alla globalizzazione ma quella alla deglobalizzazione delle società dei prossimi anni. Infatti Hammes è lapidario: “le tendenze nella produzione energetica, in agricoltura, in politica, e nelle comunicazioni globali accelereranno i cambiamenti, ritardando, se non invertendo, la globalizzazione” (Hammes T.X., 2016 p. 1).
La deglobalizzazione non è quindi la decrescita che, comunque la si veda, è pensata come un processo irreversibile. Ma la si vede come un processo light, di rallentamento delle tendenze della globalizzazione, oppure hard, di vero e proprio rovesciamento di quanto accaduto dopo il 1989. In qualsiasi versione sia, la deglobalizzazione, ha un punto di forza: non certo il rifiuto delle tecnologie ma “la combinazione di robotica, intelligenza artificiale” (Hammes T.X., 2016 p. 2) e l’evoluzione delle stampanti 3D a livello industriale, di economie di scala. Insomma, l’intreccio tecnologico, potere deflattivo classico (a livello di innovazione tecnologica, logistica, compressione dei salari e risparmio, quando non completa sostituzione, di forza lavoro) che non viene però inserito nel paradigma della globalizzazione ma in quello della deglobalizzazione. Per Hammes infatti, seguendo il dibattito su tecnologia e industria in Usa degli ultimi anni, è possibile prefigurare una organizzazione della produzione tale da ridurre, e di molto, la necessità dell’organizzazione produttiva tramite globalizzazione. Per Hammes, essendo ormai compressi i salari, ci sono le condizioni tecnologiche perché molto sia prodotto in Usa, facendo rientrare capitali nella produzione americana. Le conseguenze, nel paper indicato, sono molto forti per la sicurezza nazionale americana. Perché Hammes non vende deglobalizzazione ma la considera un processo in corso che ha effetti sulla difesa nazionale americana. Non interessa qui capire quanto possa imporsi come vincente questo paradigma. Anche perché, nell’epistemologia contemporanea, le concezioni chiave di un campo teorico possono passare anche nell’altro. Interessa, considerato il campo di analisi, che le mutazioni della produzione in rapporto alle evoluzioni di robotica e intelligenza artificiale, sono già serie nella concezione del rapporto tra innovazione, potere deflattivo ed economia. E che qui, nella deglobalizzazione, il target da colpire, grazie al nuovo intreccio tra robotica e intelligenza artificiale, è l’industria della globalizzazione per eccellenza: lo shipping che è in crisi non solo a causa delle bolle finanziarie del mare (si vedano gli esiti del fallimento Hanjin) ma a causa una dimensione dei trasporti vista come gigantesca, costosa, estremamente complessa, difficile da governare. In quest’ottica, diversamente dal passato, l’industria dello shipping viene vista al contrario di un potere deflattivo.
Sarà interessante capire quale paradigma teorico, e in che modo, sarà in grado di prevalere sull’altro come strumento di governo degli eventi. Se quello della globalizzazione, non solo per gli elementi compensatori che contiene ma anche nella concezione per la quale l’essenziale traffico di materie prime sostiene solo un’economia fortemente globalizzata, o quello della globalizzazione. Sarà anche interessante inquadrare il ruolo della globalizzazione finanziaria in entrambi i paradigmi, funzione molto più complessa di quanto si immagini in prima battuta. Ma ci sono due questioni sulle quali entrambi i paradigmi convergono. La prima è quella della necessità di agganciarsi al potere deflattivo, come infrastruttura essenziale delle loro politiche sia a livello tecnologico che di potere microfisico diffuso. La seconda è la convinzione che le tecnologie distruggano più posti di lavoro di quante ne producono (anche in Hammes, cit. p. 16 vi è una eloquente rassegna bibliografica su questo tema). Quest’ultima comunanza, proprio perché rilevata in paradigmi conflittuali, legittima come pochi l’emergenza politica di un reddito di cittadinanza (anche in paesi dove una forma universalistica di sussidio è scambiata per reddito di cittadinanza). La questione del reddito di cittadinanza emerge quindi, nel predominio del potere deflattivo e nelle società della deflazione, a prescindere dalla capacità di un paradigma o di unmaltro di porsi come capace di governare l’intreccio tra tecnologia e mutazioni del lavoro. Tutti sono d’accordo con l’esistenza del jobkilling tecnologico. La differenza sta nelle politiche, una volta agganciato il potere deflattivo: di compensazione, per il paradigma della globalizzazione, di rinazionalizzazione della produzione, per concentrare la produzione di posti di lavoro nella corporate America e consigliare gli altri paesi di fare altrettanto, da parte del paradigma della deglobalizzazione.
Curiosamente, ma non troppo, anche Amazon sta all’interno degli oggetti contesi dal paradigma della globalizzazione e da quello della deglobalizzazione. Robotica, intelligenza artificiale sono viste a sostegno di una rete logistica strategica globale in un caso oppure di un nuovo approccio, economicamente rinazionalizzato, nell’altro. Del resto, Amazon è un grande potere logistico, deflattivo e smaterializzante (fino a far scomparire l’idea stessa di negozio per molti prodotti). Saperlo interpretare è importante per i paradigmi che si contendono la regolazione dell’economia contemporanea.
Del resto il mondo dove si integrano robotica e intelligenza artificiale, ha già un nome. Si chiama Robotistan (Sutherland C., 2013) si tratta solo di capire chi scriverà la Costituzione di questo nuovo territorio. Secondo una teoria politica della globalizzazione rinnovata o della deglobalizzazione incipiente.
E anche quando la borsa americana guarda con favore ai poteri inflattivi come lo sgravio fiscale, tiene bene in considerazione la forza del potere deflattivo delle tecnologie del lavoro Si tratta però di capire anche che nome ha, politicamente parlando, il reddito di cittadinanza. E quale natura riveste in società che mutano continuamente nel profondo.
Reddito di Cittadinanza, potere deflattivo e Regime Change
Di una cosa bisogna essere grati a Paul Mason: di aver costruito Postcapitalismo come un testo agile, sul crinale di processi epocali, senza aver insistito ossessivamente sul concetto di crisi. Anzi, uno degli elementi di interesse di Mason sta proprio nella capacità di legare potere deflattivo e innovazione [Mason P., 2014, ed. ita. 2016]. Evidenziando l’importanza delle miriadi di innovazioni tecnologiche in atto, guardando non solo all’aspetto, e al potere, deflattivo che contengono ma anche agli elementi di innovazione sociale possibile nel fenomeno del jobkilling tecnologico [Mason P., 2014, ed. ita. 2016]. Mentre spesso la lettura del rapporto tra crisi e tecnologia tende ad essere entropica per cui ogni innovazione è vista solo come un segno dell’accelerazione di una più generale crisi. Postcapitalismo, riprendendo i temi di Second Machine Age [Brynjolffson e McAffe, 2014 ed. ita, 2016] si mette dalla parte di chi pone un problema ineludibile alle nostre società: la velocità della sostituzione tecnologica dei posti di lavoro è maggiore rispetto alla velocità della loro creazione [Mason P., 2014, ed. ita. 2016]. Un vero e proprio poderoso potere deflattivo in atto: innovare, ottimizzare, aumentare capacità produttiva dal lato della potenza tecnologica che comprime i salari. Questo scenario di dominio del potere deflattivo per Mason pone, oltre che le consuete, serie, questioni sociali nella crisi, tre certezze: la scienza e la tecnologia come principali forze produttive; il net-worked individualism come base sociale della trasformazione; la conseguente esistenza della condizioni materiali di transizione, verso il postcapitalismo, per il governo dei processi di trasformazione [Mason P., 2014, ed. ita. 2016]. E qui se il testo è complessivamente utile per capire uno scenario risulta, invece, molto gracile rispetto agli stessi problemi che solleva. Certo, lo stesso Newton dei Principia Mathematica si spaventò di fronte alla vastità dei problemi ai quali stava dando accesso. Non è così per il suo connazionale, e nostro contemporaneo, Mason che con un eccesso di disinvoltura pone dei principi di transizione, da una società all’altra, che sembrano tratti dalle slide sulle policy aziendali piuttosto che da un qualsiasi indirizzo politico che si vuole epocale. Mason si sforza molto, nell’analisi dei processi di crisi e di innovazione, di dimostrare l’ineluttabilità del postcapitalismo. Non è poco, preso sul serio significa che esiste di nuovo un processo storico, innestato dal capitalismo visto inevitabilmente destinato a superarlo [Mason P., 2014, ed. Ita. 2016 ]. Ma già nel ‘900 il socialismo, dato per ineluttabile, anche in Schumpeter e i “conservatori disfattisti” (l’espressione pare proprio essere di Menger), non si è compiuto in occidente nonostante le diagnosi di inevitabilità anche quando accompagnate da una teoria sociale a sostegno della innovazione tecnologica. Non esistono regimi imposti dal destino tecnologico, non a caso nella storia esistono le catastrofi, come insegna Paul Virilio in un legame stretto tra evoluzione tecnologica, anche della tecnologia sociale, e catastrofe [Virilio P.; 2002 ]. Oltretutto un regime, sia politico che di produttività tecnologica, si afferma solo a causa di profonde, convulse scosse. Come avviene per il potere deflattivo, ci sono poteri globali che declinano, nuovi poteri che si affermano e non accade mai che la transizione, specie in una società tecnologica e per questo socialmente esplosiva, sia eventualmente senza scosse [Virilio P.; 2002 ]. Solo impadronendosi del governo di queste scosse, sapendo anche governare le convulsioni, è possibile traghettare le società da un regime all’altro. Figuriamoci se si è di fronte alle continue implosioni delle finanza, che, nonostante le sue crisi sortisce il paradosso di regolare la società anche in Mason. Dimensione finanziaria che fa presa sul pianeta in modo tecnologico, forte quanto inedito nella sua vastità. E si tratta di una vastità che testi, anche se scritti in ottica di ottimismo della regolazione come Global Financial Governance Confronts the Rising Power [Henning R. e Walter A.; 2016] fanno ben intuire. E qui Mason manca di una propria, originale presa della Bastiglia, di fronte al regime finanziario, senza mai riuscire a dimostrare che, nel nostro mondo, i regimi politici cambiano senza aver bisogno di un 14 luglio 1789 nei confronti della finanza. Il punto è chiedersi se si ha una concezione della società, delle tecnologie, dei punti di crisi della finanza all’altezza degli scenari che viviamo. Altrimenti la presa di posizione a favore del reddito di cittadinanza rischia di essere etica, legittimata dall’idea che l’economia sia una sorta di gioco del prigioniero dove il prigioniero (la società) finisce per prendere la decisione giusta (il reddito di cittadinanza, appunto).
Il punto è che il reddito di cittadinanza, in ogni società contemporanea, non è solo una misura sociale da finanziare, ma anche una politica di profondo impatto, e con forti effetti collaterali, su politiche del lavoro, amministrazione, finanza e persino sul funzionamento delle piazze borsistiche (dove le leggi sul lavoro e le mutazioni della produttività in ogni paese vengono prezzate, con effetti globali, assieme alla composizione del debito pubblico).
Il reddito di cittadinanza non è quindi solo una misura di stabilizzazione sociale, da regolare amministrativamente: nel ventunesimo secolo se messo in atto è un Regime Change, nella Costituzione materiale che conta, ovvero il rapporto tra produzione di valore, lavoro, stato, debito pubblico e flussi finanziari. Un cambiamento che deve formalizzare il mutamento di Costituzione materiale che comporta per tradursi in assetto politico che governa quei profondi effetti collaterali che genera.
Intendiamoci, non che il reddito di cittadinanza, ci mancherebbe, non sia necessario e legittimo. Anzi, Mason, come altri, ne pone l’ineluttabilità partendo dalla stessa evoluzione del rapporto tra tecnologia ed economia. Intuendo le conseguenze, sulla morfologia sociale, del potere deflattivo. E intuendo le potenzialità del potere deflattivo, che si alimenta di innovazioni tecnologiche e riduce il peso del lavoro, in materia di cambiamento di regime. Solo che non pare avere chiaro il fatto che il passaggio da capitalismo a postcapitalismo, registrato con l’introduzione del reddito di cittadinanza, sarebbe norma che non regola solo il non-lavoro ma anche il lavoro. Generando effetti collaterali, dal mercato del lavoro alla finanza, che vanno politicamente governati con un Regime Change, economico e politico. Infatti, preso solo come misura di riforma sociale, il reddito di cittadinanza rischia di trovarsi nella condizione di una nuova abolizione delle leggi di Speenhamland. Ovvero la misura massificata a sostegno, qui semplifichiamo, del reddito presa in Inghilterra sotto la spinta dei feroci morsi della rivoluzione industriale [Kings S. e Jones P.; 2013]. All’epoca capitalismo e regime della protezione del lavoratore, come misura sociale, non potevano però starassieme se non per un periodo: nel 1834 le leggi di Speenhamland furono abolite e il lavoro immesso in una più feroce dinamica della domanda e dell’offerta. Una discesa agli inferi del popolo inglese (con rivolte testimoniate dallo stesso Marx) che, seguendo la partizione di Edward Thompson, accompagnò la nascita del potere operaio organizzato (la cui gestazione finisce in The Making of Working Class, a inizio anni ‘30 del XIX secolo). Nelle società contemporanee il reddito di cittadinanza massificato sganciato dal lavoro non può convivere più di tanto con una finanza egemonizzata dal venture capitalism e dai fondi pensione: in questo regime banchieri centrali finanziano le bolle, i sistemi di pagamento interbancari, gli asset privati strategici, forme di speculazione di una complessità impressionante come gli ABS, i bond, non il reddito di cittadinanza. Ma non perché non hanno intravisto il potere deflattivo che genera disoccupazione tecnologica. Anzi, se si vanno a vedere i Working Papers della BCE già nella prima decade degli anni 2000 il potere deflattivo dell’innovazione tecnologica lo provano a domare tenendo assieme equilibrio sociale e compatibilità strutturali delle politiche monetarie [Trigari A.; 2004]. La BCE ha bisogno di dominare il lavoro e sgonfiare la spesa sociale per non esplodere di inflazione e non logorare quindi il capitale finanziario. Ha bisogno di agenzie di rating che certifichino positivamente l’aumento di produttività, gli avanzi primari di bilancio non il reddito di cittadinanza. Si pongono così le condizioni materiali per la schiavitù, di un lavoro a basso prezzo, sommata ad alta produttività, che genera disoccupazione di massa, per fare in modo che la moneta in cui questa materialità economica si esprime sia competitiva nelle guerre valutarie. Qui non è all’orizzonte un patto sociale dove ad una larga parte di società si concede la libertà dal lavoro. Diventa quindi concettualmente sconnesso, e privo di una visione reale dell’economia che dovrebbe finanziarlo, usare Mason per invocare la vigilia di un reddito di cittadinanza nel capitalismo delle banche centrali. Le quali, tra l’altro, sono esposte verso attività di rischio tali da farle assomigliare a hedge fund piuttosto che a istituzioni di regolazione. E gli hedge fund non erogano reddito di cittadinanza.
Questo per dire che se avviene il reddito di cittadinanza, una volta imposto, non si tratta di una misura sociale, ma politica. Non solo una misura di regolazione ma di esplosione di conflitti tra istituzioni e istituti di governance. Non si prefigurano qui patti o equilibri ma un doppio cambiamento: di regime politico e di paradigma economico. Altrimenti, il reddito di cittadinanza è una testa di ponte che non tiene. Come Speenhamland a suo tempo, si disintegrerebbe sotto una grande, impressionante spinta del mercato del potere deflattivo. In questo Mason, nonostante diverse semplificazioni concettuali, lega indissolubilmente, e consapevolmente, potere deflattivo, reddito di cittadinanza a postcapitalismo. Inteso come Regime Change, nonostante le semplificazioni operate. Perché nelle società di mercato oggi non c’è spazio per un reddito di massa sganciato dal lavoro. Infatti, l’imposizione del reddito di cittadinanza tiene, economicamente e socialmente parlando, in Mason nel momento in cui ha già determinato la società come un qualcosa che è uscito dalle società di mercato, Postcapitalism appunto.
Il potere deflattivo, protagonista della microfisica del potere contemporaneo; infrastruttura di potere delle politiche istituzionali e di governance; filiazione di potere e di pratiche dei processi economici di deflazione; elemento in grado di strutturarsi in una società deflazionaria tende, quindi, ad essere contestato da paradigmi teorici molto diversi tra loro. Ad esempio, come abbiamo visto, nel conflitto tra teorie della globalizzazione e della deglobalizzazione, in un concetto di Postcapitalismo che è già Regime Change. E’ un chiaro segno della sua presenza, della sua attuale egemonia su pratiche e ordini discorsivi in grado di fare presa sulla morfologia sociale. In ogni caso il potere deflattivo oggi suggerisce la presenza di un reddito di cittadinanza: come compensazione degli effetti della globalizzazione, come elemento accessorio di ingegneria sociale nel paradigma della deglobalizzazione, come elemento di Regime Change in un paradigma postcapalista. Tutti questi schemi di analisi riconoscono però l’importanza del potere deflattivo, la sua sovranità microfisica. Si tratta di agganciare, come abbiamo visto, in modo diverso tra loro questa sovranità microfisica, diffusa, tecnologica, organizzativa, amministrativa in dispositivo di governo. Sia questo nel caso di una rinnovata globalizzazione, di una inedita deglobalizzazione, oppure di un Regime Change capace di intrecciare il potere deflattivo, specie quello tecnologicamente innervato, in una uscita dalle società capitalistiche così come le abbiamo conosciute fino ad adesso. Certo qualsiasi paradigma risulti vincente, sul piano teorico e su quello delle politiche, dovrà scrivere la costituzione di una società che è già molto diversa da quella di fine secolo e di un Robotistan che si allarga a dismisura.
Fonte: bin-italia.org
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