La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 30 novembre 2015

Ciò che resta della democrazia

di Gian Paolo Faella
Il testo di Preterossi è un’eccellente disamina di quello che appare essere il destino delle democrazie oggi, con particolare riferimento al caso italiano e, sullo sfondo, al contesto europeo. Il metodo dell’autore consiste nell’approfondimento filologico-esegetico di autori ‘classici’ della storia del pensiero, e nell’interpretazione della politica contemporanea come la risultante di tali interpretazioni. Dal punto di vista del metodo storico-filosofico si tratta, in particolare, non tanto di restituire i contesti storici di riferimento di quegli autori, quanto di riconoscere come certi filoni storico-filosofici che siano funzionali alla determinazione di problemi specifici, e tra i quali il più importante appare essere quello Hobbes-Hegel-Schmitt, nella misura in cui è proprio su questo asse che si può rinvenire una fondazione del problema del rapporto tra potere e diritti.
Ciò che è in gioco, nel primo capitolo, è soprattutto il rapporto tra sovranità popolare e principi costituzionali, visti come una dualità di direzioni di marcia dello sviluppo democratico, e come due ‘logiche’ politiche almeno in parte rivali.
Tale coesistenza rappresenta naturalmente un punto molto importante del diritto costituzionale segnalato dall’autore. Quest’ultimo sembra favorevole a un’interpretazione della giuridicità costituzionale tale per cui la costituzione sia letta in senso ‘forte’, come un dispositivo atto a riempire di contenuti la stessa vita interna dei partiti in quella che lui stesso definisce una democrazia costituzionale.
L’autore, nel secondo capitolo, si schiera inoltre a favore di una ripoliticizzazione delle soggettività intermedie, piuttosto che di un riconoscimento delle nuove possibilità aperte per l’esercizio di una democrazia diretta dalla rivoluzione tecnologica.
Il capitolo contiene inoltre una ricostruzione storica degli elementi fondanti del cosiddetto ‘trentennio glorioso’, basata su tre elementi, accompagnata dalla presa d’atto che questi tre elementi sarebbero sostanzialmente svaniti irrimediabilmente:
L’esistenza di un nemico esterno ed interno agli Stati-nazione (il movimento operaio e l’URSS).
Nesso tra legittimazione democratica e stato-nazione, messo in crisi dalla caduta dello stato del benessere.
La memoria viva della guerra mondiale, e quindi la capacità di quella memoria di dare corpo prospettico a politiche costituzionali che tendevano a debellare la paura sociale, insicurezza sociale, ingovernabilità degli interessi, poiché quelle condizioni avevano portato ai fascismi.
Preterossi si concentra nei capitoli successivi sull’interpretazione di diversi autori. In particolare nel terzo capitolo egli indugia sul ruolo dell’elemento religioso nell’ultimo Habermas, e specificamente sulla possibilità che lo spazio della ragione pubblica (per riprendere la nota espressione di Rawls), possa venire riempito da una funzione religiosa-simbolica.
Habermas alluderebbe pertanto a una genealogia prerazionale dell’etico. La sua teoria del discorso, da questo punto di vista, si sceglierebbe i suoi ‘miti’, tra quelli più compatibili con la discorsività illuminista, all’insegna della ricerca di un principio cooperativo per lo stabilirsi delle comunità, e non perciò di una riflessione sul potere e sulla sua tragicità.
Nel quarto capitolo l’autore si dedica poi a una disanima della filosofia di Carl Schmitt. Secondo l’autore, ogni epoca ha la sua teologia politica, tanto che anche a proposito del liberalismo stesso potrebbe usarsi quest’espressione.
Secondo Schmitt il fondamento della politica sta in qualcosa che la eccede: l’eccezione. A giudizio dell’autore, per altro, saremmo attualmente in presenza di una metamorfosi categoriale dello stato di eccezione che contraddistingue il passaggio della sovranità da condizione politica a condizione tecnocratica. Ciò, tuttavia, non segnerebbe una eliminazione del potere dall’orizzonte del politico, proprio perché gli stessi processi di spoliticizzazione, proprio come voleva Schmitt, sono in realtà il frutto di attività politiche. L’autore fa capo in particolare a una distinzione, ancora una volta schmittiana, tra spoliticizzazione, e cioè riconduzione all’astrattezza dei conflitti, e neutralizzazione, e quindi annullamento dei nemici interni ed esterni. Tuttavia, il baricentro di tale distinzione andrebbe mutando nelle varie fasi del Moderno, fino alla prevalenza dell’economico che porterebbe a una religione della tecnica.
A dispetto di Schmitt, tuttavia, l’autore sottolinea come la neutralizzazione stessa sarebbe un fenomeno che incorpora fin da subito elementi di una forma di governo dei conflitti, e non solo cioè una prassi decisionistica, e che la difficoltà di portarla avanti nell’epoca contemporanea sarebbe perciò la conseguenza in particolare della complessificazione dei conflitti sociali di cui la neutralizzazione stessa si occuperebbe.
L’autore, in tal modo, si riconosce in una sorta di filosofia della storia del bilanciamento tra spoliticizzazione e neutralizzazione, che si attaglia forse soprattutto alle società europee. Il Preterossi, in ogni caso, propone di sostituire l’espressione ‘stato di eccezione’ con l’espressione ‘stato di necessità’, a segnalare come quest’ultimo sia lo stato caratteristico delle sovranità contemporanee, e cioè a rendere evidente come l’eccezione che istituisce l’atto politico sia di fatto una statuizione dell’impossibilità di fuoriuscire da soluzioni tecniche o tecnicistiche.
Nel quinto capitolo l’autore si dedica a un’analisi della filosofia di Hegel, mettendo in campo l’ipotesi che la decostruzione del soggetto non sia l’unica possibilità in capo al Moderno, ma che sia invece possibile percorrere un’altra strada per sviscerare il nesso tra politica e soggettività. Di fatto, egli legge Hegel in maniera piuttosto idiosincratica, e cioè alla luce di Rousseau, Hobbes, e Schmitt, attribuendo un peso fondamentale alla nozione di volontà in Hegel stesso, volontà che sarebbe all’origine sia dell’autorità statuale che della libertà individuale. Una delle differenze fondamentali tra Antico e Moderno, sostiene l’Autore sulla scorta di Hegel, è che nel Moderno su ciò che va deciso la decisione deve essere enunciata esplicitamente dall’uomo stesso con un ‘io voglio’; il discrimine tra Antico e Moderno sarebbe perciò nel volontarismo, e dunque nella presa d’atto dell’impossibilità di rivolgersi a forze che esprimendo una sostanza inconscia esonerano l’autocoscienza dalla propria responsabilità.
Cosa fa di una moltitudine un popolo? Questa è la domanda attorno alla quale l’autore costruisce il sesto capitolo. Si pone allora il problema dell’autotrascendenza, o di una verticalità laica (qui, ancora una volta, l’autore legge Hobbes alla luce di Hegel e Hegel alla luce di Hobbes) che sia in grado di fondare l’unificazione simbolica della pluralità nell’unità.
L’autore mette qui in luce una interessante, ancorché nota, differenziazione tra il De Cive e il Leviathan di Hobbes. Nel De Cive, come ricorda l’autore, mancherebbe ancora la persona-sovrano, e quindi l’atto di unificazione della moltitudine in popolo si troverebbe ancora orfano del suo principio d’ordine e cioè in particolare della dualità rappresentazione/rappresentanza. Ciò che è importante, qui è che il paradigma del contratto autorizzante è tale da giustificare ex post varie differenti forme di regime, e che in particolare giustifica sia lo stato per istituzione che quello per acquisizione, alludendo in tal modo alla scaturigine in ogni caso violenta dell’atto di appropriazione che il rappresentante fa nel momento di rapportarsi con il rappresentato e di assumerlo sotto la propria ala protettrice. Da questo punto di vista, l’atto di creazione della sovranità agirebbe addirittura con la misura del ‘terrore’, ci ricorda l’autore citando Hobbes, il quale dà forma alle diverse volontà individuali facendole convergere verso l’ordine; in tal modo l’autore si pone in netto contrasto con quelle interpretazioni di Hobbes di stampo liberale che ne farebbero l’origine di un pensiero della libera volontà individuale, e apre pure a mio modo di vedere a una determinata legittimazione della sovranità che tende in ultima analisi a giustificare la sostanza filosofica della Rivoluzione Francese.
L’autore pone poi un problema relativo alla teoria del populismo di Laclau. La questione è: data la separazione concettuale tra costruzione popolare come edificazione dello stato, in quanto cornice dell’agonismo politico, e costruzione popolare intesa come strutturazione del partito in quanto pars operante all’interno del sistema di regole definito dallo stato stesso, può una nuova politica populista instaurarsi nel momento di massima crisi dello stato, senza diventare rivoluzionaria in un senso conservatrice e quindi senza pretendere di instaurare un ordine nuovo in radicale antinomia rispetto al sistema e quindi per questo incapace di progresso? L’autore si muove, pertanto, nell’ambito della critica di Zizek secondo la quale la costruzione di Laclau sarebbe esposta al rischio di social-fascismo, nella misura in cui costruisce un’alterità tra popolo e nemico esterno del tutto diversa da quella proposta dal modello marxista della lotta di classe.
Contro Zizek, inoltre, Laclau non riconosce alcuna valenza alla nozione di mistificazione ideologica e di falsa coscienza, finendo per far coincidere il concetto di egemonia con quello di populismo.
La differenziazione tra Zizek e Laclau sarebbe allora nel fatto che nel primo la politica sarebbe una battaglia per il contenuto, e un destino, mentre per il secondo essa sarebbe in un certo senso piuttosto l’autoaffermazione di una solidarietà mistica tra contenuto e forma, e l’omogeneizzazione retorica dei contenuti emergenti dai bisogni sociali.
Le ragioni per cui la politica finisce necessariamente per diventare populista nella presente epoca sono secondo Laclau tre: la dispersione delle domande sociali nell’epoca del capitalismo globalizzato (e dunque la mancanza di un soggetto storico protagonista del cambiamento, come la borghesia o successivamente il proletariato); la necessità di mettere insieme domande eterogenee; il fatto che questa unificazione possa avvenire soltanto retoricamante, attraverso un soggetto politico “vuoto”, ma “significante”.
Mancherebbe, pertanto, in Laclau, un’attenzione alle dinamiche dell’istituzionalizzazione dei conflitti e delle leaderships. Secondo l’autore, inoltre, mancherebbe in Laclau una problematizzazione del rapporto tra potere e diritto, ragion per cui egli rifuggerebbe nella proposizione di una nuova modalità di esercitare l’egemonia quasi per incapacità di interpretare il rapporto prettamente istituzionale tra norma e diritti. Essere egemoni, nella prospettiva di Laclau, vorrebbe dire identificare le forze libidiche che sono all’origine di quelle pulsioni sociali che rimarrebbero altrimenti inespresse o frammentate. Una filosofia politica, dunque, scarsamente attaccata al tema della ragione e dunque anche a quello della dialettica.
Il discorso dell’autore è nel sesto capitolo di fatto un posizionamento anti-giusnaturalista almeno nel senso dell’opposizione tra giusnaturalismo e giuspositivismo. Sarebbe impossibile, in altre parole, riconoscere l’oggettività di un impianto valoriale naturale da imporre all’attenzione dei pubblici poteri indipendentemente dalle soggettività che esprimono una mobilitazione verso la statuizione di diritti concepiti invece artificialmente come forme di riconoscimento di forme di coscienza collettiva.
Nelle conclusioni infine l’autore respinge l’idea della relativa infondatezza della democrazia moderna, poiché sostiene invece che essa sia garantita da una forma di legittimazione permanente, che necessita però di un “ambiente democratico” per essere pienamente espressa.
Sarebbe illusorio in questo contesto tentare di riempire il vuoto determinato dalle dinamiche neoliberiste, e soprattutto il vuoto dei corpi intermedi, con una democrazia fluida, che porterebbe solo a deleghe generiche verso un capo-seduttore, all’isolamento e al rifiuto della mediazione.
L’autore riconosce un’ipertrofia della soggettività, e cioè un’apertura a un indefinito individualismo, come controparte della perdita delle soggettività politiche. Propone pertanto un ripensamento del concetto di libertà, effettiva e non soltanto formale, che non può non basarsi sulla giustizia sociale. Inoltre suggerisce, dal punto di vista della capacità del sistema politico italiano di reagire alle istanze provenienti da quella che lui chiama una politica della soggettività, che si ricominci da capo nel lavoro di tessitura di nuove organizzazioni, poiché correttivi che fossero semplicemente parziali sarebbero insufficienti.
Afferma inoltre che dopo il tentativo di Moro e Berlinguer la democrazia politica italiana non è stata in grado di elaborare un progetto politico di lungo periodo né una riflessione critica collettiva sulla collocazione geopolitica italiana. Paventa, inoltre, una situazione nella quale si avrà un’ulteriore semplificazione verticale del campo politico, e perciò una drastica riduzione del coinvolgimento dei cittadini e della loro sovranità.

Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica 

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