di Maurizio Zuccari
È tornata una calma apparente a Ben Gardane, dopo un giorno di fuoco e una notte di coprifuoco che hanno lasciato più di cinquanta morti sul terreno. La quiete dopo la tempesta, anche se la bufera è di là da venire, in Tunisia. Col confine libico a un passo, indifeso da una barriera di filo spinato e sabbia. Ben Gardane (o Guerdane, alla francese), 80mila abitanti e 15mila dromedari, a più di 500 chilometri dalla capitale, Tunisi, e meno della metà da Tripoli, era nota fino a ieri per il festival dei dromedari, appunto, che si tiene a giugno. Unico monumento degno di nota, una bizzarra rotonda a blocchetti con quattro colonnacce dei tempi di Treboniano Gallo che nella vicina Gerba – l’omerica isola dei Lotofagi – venne fatto imperatore e un lanternone rosso con la mezzaluna e la stella su fondo bianco in cima. L’emblema della bandiera nazionale che le raccogliticce forze di sicurezza sventolavano dopo aver ripreso il controllo della città ai jiadhisti che l’hanno attaccata.
In quella che è a un tempo la prima puntata offensiva dell’Isis in Tunisia e il tentativo di estendere il conflitto oltre il confine libico. O, come ha detto il premier tunisino Habib Essid, di creare un emirato jiadhista nell’area di confine, modello califfato in Siria. Anche per questo il capo dello stato Beij Caid Essebsi, già prima del summit al palazzo presidenziale di Cartagine, ordinava di “sterminare come ratti” gli attaccanti, senza requie. E i suoi gli hanno dato retta, postando sui social le foto della riconquistata città contesa. Niente d’ufficiale, visto che il governo ha invitato i media a tenersi alla larga dalla città sfuggita, per ora, alla longa manus del califfato in terra d’Africa. Bilancio ufficiale degli scontri, secondo l’emittente qatariota Al jazeera: 55 morti, di cui 36 terroristi (altri 7 sarebbero stati catturati) e 19 tra governativi e civili, compresa una bambina di 12 anni. Oltre alla chiusura del resort internazionale di Djierba, a scopo precauzionale.
In quella che è a un tempo la prima puntata offensiva dell’Isis in Tunisia e il tentativo di estendere il conflitto oltre il confine libico. O, come ha detto il premier tunisino Habib Essid, di creare un emirato jiadhista nell’area di confine, modello califfato in Siria. Anche per questo il capo dello stato Beij Caid Essebsi, già prima del summit al palazzo presidenziale di Cartagine, ordinava di “sterminare come ratti” gli attaccanti, senza requie. E i suoi gli hanno dato retta, postando sui social le foto della riconquistata città contesa. Niente d’ufficiale, visto che il governo ha invitato i media a tenersi alla larga dalla città sfuggita, per ora, alla longa manus del califfato in terra d’Africa. Bilancio ufficiale degli scontri, secondo l’emittente qatariota Al jazeera: 55 morti, di cui 36 terroristi (altri 7 sarebbero stati catturati) e 19 tra governativi e civili, compresa una bambina di 12 anni. Oltre alla chiusura del resort internazionale di Djierba, a scopo precauzionale.
Morti e precauzioni a parte, il raid tunisino non casca dal pero. Quello che i metereologi delle primavere arabe definiscono il solo esperimento di successo uscito da quella stagione, è in realtà una polveriera a tempo in cui l’Isis cerca il varco per accendere la miccia. Complice la crisi economica e le frustrazioni postrivoluzionarie, la Tunisia è il primo paese esportatore di jihadisti nei vari fronti aperti dal Califfato: Iraq, Siria e Libia. Qui, nel ginepraio libico dove l’Italia sta bellamente infilandosi, tra le 150 fazioni dei tre governi l’un contro l’altro armati, operano circa 1.500 degli oltre 5.000 giovani tunisini in armi sotto le insegne nere del califfo. Non è un caso che già la scorsa settimana un raid delle forze di sicurezza libiche ha ucciso un manipolo di sedicenti terroristi nella stessa città, in un’operazione costata la vita anche a un civile e a un ufficiale di polizia. Proprio nei campi libici si sono addestrati gli attentatori al museo del Bardo di Tunisi e sulla spiaggia di Sousse, l’anno scorso. E tunisini erano Noureddine Chouchane, obiettivo del raid Usa a Sabratha del 19 febbraio che ha innescato la vicenda degli ostaggi italiani, come la maggior parte degli uccisi del blitz che proveniva proprio da Ben Gardane, a una trentina di chilometri appena. Nuovo fronte di guerra di una guerra infinita dove si è consumata la prima battaglia.
Ma le prove generali dell’espansione jihadista nel Maghreb meritano una ulteriore riflessione. Basta sfogliare il Foglio – scusate il gioco di parole – per capire che l’evento si presta a un’altra lettura. A mostrare come il focolaio libico sia prossimo a incendiare l’intero Nordafrica, quindi si faccia in fretta a rimettere piede in Libia. Nell’edizione dell’8 marzo si dà conto di come il bombardamento Usa su Sabratha abbia in realtà sventato un imminente attacco oltre confine, come ammesso da un jihadista lì catturato, la cui confessione è stata debitamente messa online alla vigilia dell’attacco nella città tunisina. Questo è avvenuto comunque, ma senza la forza d’urto delle minacciate autobombe e battaglioni suicidi. Più modestamente, «I combattenti hanno bussato alle porte delle case annunciando: “Siamo lo Stato islamico”, in qualche caso hanno chiesto acqua, sono andati alla casa del capo dell’ufficio antiterrorismo e l’hanno ucciso», recita il Foglio. Che puntualizza: «Questo assalto non aveva come traguardo finale la conquista della città, ma era inteso come una dimostrazione di forza».
Una dimostrazione condotta da una sessantina di elementi, due terzi dei quali catturati e uccisi, provenienti da unità d’elite (il sedicente battaglione al Battar, nome d’una delle spade del Profeta, secondo la tradizione ebraica, e già qui…) che bussano a chiedere acqua, come migranti scampati al deserto. Fenomenale. Quel che conta è che sia stato un fallimento completo, grazie ai bravi bombardieri a stelle e strisce, si compiace il Foglio. Ma il meglio è nel seguente capoverso, che merita d’essere ripreso per intero: «L’attacco di Ben Guerdane è un esempio di come può funzionare l’intervento internazionale in Libia. Lo Stato islamico usa il paese come piattaforma di lancio per operazioni anche all’esterno e attende nelle sue basi di essere abbastanza forte. Gli attori esterni, in questo caso l’America, impiegano aerei e intelligence per interrompere questa fase di guerra latente. Le operazioni a terra sono lasciate alle forze locali, Sabratha e militari tunisini, perché conoscono il terreno e il paesaggio umano, e anche perché la loro presenza non eccita la propaganda jihadista come invece fanno i grandi numeri di soldati occidentali».
Più chiaro di così. Renzi la smetta coi suoi tentennamenti e dia fiato alle trombe, come chiede, buon ultimo, l’ambasciatore Usa a Roma, John Phillips. Spiace solo che il giornale di Ferrara, solitamente beninformato sui retrobottega d’America grazie ai trascorsi del suo direttore, dimentichi di spiegare cosa farebbero in Libia i cinquemila italiani sollecitati da Obama, se a bombardare ci pensano loro. A meno di non scambiare il corpo di spedizione italico nell’inferno libico – reso tale grazie ai maneggi dell’amministrazione Obama, in primis della signora Clinton che ora corre per la presidenza – per sacrificabili ascari italioti semper fidelis. Ma questa è un’altra tappa della guerra infinita. Purtroppo prossima.
Fonte: sito dell'Autore
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