Intervista a Giuseppe Civati di Alessandro Gilioli
«Con tutto il rispetto, noi lo dicevamo da parecchio tempo: la scissione del Pd non sarebbe arrivata in modo tradizionale, con un pezzo di partito che da un giorno all'altro se ne va per fare un'altra cosa, ma sarebbe avvenuta alla spicciolata: cioè con un progressivo allontanamento di persone anche diverse tra loro per opinioni e visione politica. Che a poco a poco, infatti, si rendono conto che nel Pd c'è ormai un problema gigantesco di tipo politico e culturale. Qualcosa di molto diverso da una semplice questione di maggioranza e di minoranza».
Pippo Civati sta guardando da fuori il suo ex partito alle prese con primarie flop (Roma) o avvelenate (Napoli). E con i fondatori che a uno a uno, in ordine sparso, si allontanano silenziosamente (Prodi e Veltroni) o criticano pesantemente (Bassolino e oggi, durissimo, D'Alema). Mentre altri ex esponenti democratici di primo piano (come Fassina, Bray, Marino, lo stesso Bassolino) si preparano a dare vita a liste alternative.
Civati, ha letto la battuta di Bersani? “Io che c'entro con la sinistra, io sono del Pd”...
«Folgorante e anche autoironica, l'ho apprezzata molto. Quando ancora stavo nel partito, con Bersani discutevamo spesso di questo slittamento, di questa degenerazione. Adesso la consapevolezza di quello che è successo si sta estendendo a molti. A me è stato chiaro fin da quando Renzi è andato al governo. Un processo di cui ora vediamo le conseguenze in modo chiaro: basta pensare a quello che è successo a Napoli».
Che cosa è successo secondo lei a Napoli?
«La stessa cosa che era avvenuta alle primarie in Liguria, quelle tra Paita e Cofferati. Lì non erano emersi i video di Fanpage, ma c'erano dati elettorali incredibili in alcune zone della regione. Specie nel savonese, dove il principale sostenitore della Paita era tale Garibaldi, poi candidato come capolista di Forza Italia. Noi allora chiedemmo al partito un chiarimento, una revoca delle primarie e soprattutto una riflessione politica forte su quello che stava succedendo al nostro partito. Ma anche per la Liguria, proprio come avvenuto adesso per Napoli, la dirigenza nazionale dichiarò il vincitore prima ancora di sapere l'esito delle valutazioni del comitato di garanzia. È questa la degenerazione del partito di cui parlo, di cui noi ci siamo resi conto allora e che adesso si sta chiarendo a molti. Ora anche a Napoli succederà quello che è accaduto altrove (cioè liste alternative, ndr) ed evidentemente non su indicazione di Civati o di Cofferati o di Bassolino, ma perché le persone si stufano e pensano che quello non sia più il loro partito».
Anche a Roma si va verso una lista di sinistra alternativa a Giachetti, ma non si è capito chi sarà il candidato sindaco tra Fassina, Marino e Bray.
«Sì, anche a Roma si inizia a capire che c'è un grande spazio, che c'è l'opportunità di costruire qualcosa di buono. L'obiettivo è arrivare a candidare uno solo dei tre, naturalmente, possibilmente il più efficace e autorevole. Spero che si acceleri verso un processo di condensazione su uno di questi nomi».
Voi vorreste Bray, giusto?
«La cosa più importante è che si arrivi a un solo candidato: questa è un'occasione per fare l'unità della sinistra di cui spesso si parla. Poi è vero che con Bray ci siamo parlati, così come vedo dai sondaggi che lui avrebbe già il 12 per cento senza essersi nemmeno ancora candidato. Ah, per favore: bisognerebbe che voi giornalisti la smetteste di scrivere che Bray è un'espressione di D'Alema, perché non è vero. È una persona libera, indipendente e non è per niente “mandato” da D'Alema. Tra l'altro, piace proprio a quel pezzo di sinistra meno inserito nei giochi di partito, nelle contrapposizioni di ceto politico».
Ma perché a Roma non si prova a fare le primarie della sinistra?
«È una possibilità, ma è difficile farle in così poco tempo (mancano due mesi alle elezioni) e senza un partito di riferimento, con il rischio che vengano inquinate e che la partecipazione sia scarsa. Credo che sia meglio un confronto aperto e limpido tra chi è disponibile a candidarsi per poi arrivare a una candidatura unica».
Poi c'è Milano, dove invece la sinistra latita. Una parte ha accettato di giocare per Sala, un'altra sta cercando un suo candidato ma anche Gherardo Colombo ha detto di no...
«A Milano c'è un grande problema. La posizione di Pisapia, delle persone intorno a lui e di buona parte di Sel ha impedito che si manifestassero subito le contraddizioni dell'ex centrosinistra che poi sono emerse. Ma il problema c'era da un anno, da quando Pisapia aveva annunciato il ritiro, e allora si doveva capire che non c'erano più i margini politici per riproporre l'alleanza che nel 2011 aveva portato alla cosiddetta primavera arancione, perché nel frattempo è tutto cambiato e il Pd è diventato il partito della nazione. La sinistra a Milano invece ha voluto provarci lo stesso e così è arrivata non solo a Sala candidato, ma anche a non avere una lista di sinistra che lo condizioni. E Sala è esattamente quello che aveva detto Letizia Moratti, cioè “un ottimo candidato del centrodestra”. Noi di sinistra a Milano avremmo dovuto iniziare un anno fa a costruire insieme un percorso civico e libero, con una proposta diversa e autonoma dal Pd. Si è voluto fare il contrario e adesso se qualcuno si candidasse a sinistra avrebbe tra i suoi primi avversari quelli che nel Pd vogliono vincere anche rinunciando a se stessi, con un candidato appunto di centrodestra».
Già, c'è questa questione del voto utile che viene tirata continuamente fuori...
«È l'unico argomento rimasto al Pd. Non dice che bisogna votare i suoi candidati perché sono bravi ma perché sennò perdono. Il che mi sembra un'argomentazione non solo tautologica, ma anche superficiale e politicamente poverissima. Ed è la dimostrazione del fatto che il Pd non solo non ha più un'anima, come ha scritto Ezio Mauro, ma non ha nemmeno più una consapevolezza di sé. Dire “se Bassolino fa la sua lista perde il Pd” è solo un modo scaramantico per evitare di chiedersi come mai le persone dal Pd se ne vanno. Che poi è curioso come a quelli che se ne vanno prima dicono che non contano niente, che sono pochi e insignificanti, poi però li accusano di farli perdere. Un mix di tautologie e contraddizioni, insomma».
È vero però che anche a sinistra del Pd non è che sia tutta una meraviglia, anzi. Mille diversi partitini, contrapposizioni, vecchi schemi mentali. Come se ne esce?
«Sono convinto che per emanciparsi dagli scazzi politicisti e dall'autoreferenzialità dobbiamo fare come la sinistra negli Stati Uniti: tornare alle “real issues”, alle questioni fondamentali. Sulle quali bisogna essere coraggiosi e decisi, anche tornando su una conflittualità ideale che in questo momento viene messa in secondo piano. E basta passare il proprio tempo a discutere di alleanze sì alleanze no: i punti focali sono l'uguaglianza e la costruzione di un welfare adatto al nostro secolo, a partire dal reddito minimo, dal diritto allo studio e alla casa. La sinistra dev'essere una vitamina, non una burocrazia. Deve parlare in modo inequivocabile di diritti sociali e civili: non di se stessa. E la parola sinistra non dev'essere un intercalare nei nostri discorsi, dev'essere una pratica. Ad esempio: esiste che in Italia si tolgono le tasse a chi ha una casa invece di dare una casa a chi non ce l'ha? Queste sono le “real issues” che deve imporre la sinistra».
Però anche voi con Possibile avete fatto l'ennesimo partitino di sinistra...
«Mi rendo conto che per adesso può sembrare così, ma il nostro è un progetto di lungo periodo e non finalizzato a se stesso. Cerchiamo di fare e di dire una cosa molto semplice ma poco praticata: cioè che la sinistra non deve chiudersi in un angolo identitario ma parlare alla società italiana di cose vere, di quelle che riguardano la vita delle persone. “Real issues”, appunto. Non è un passaggio culturale semplice né immediato: i cascami del secolo scorso sono ancora molto diffusi, anche a sinistra. Ma è l'unico percorso possibile».
Fonte: L'Espresso online
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