di Ignazio Visco
Per gli economisti, i dirigenti, i governatori della Banca d’Italia poter discutere con Marcello de Cecco è stato sempre un privilegio oltre che un grande piacere. Lo abbiamo fatto molto spesso dagli anni Sessanta fino alla scorsa settimana, quando ci ha lasciati. La sua battuta tagliente, il tono a volte ironico e paradossale erano al servizio di un pensiero forte, originale, ben radicato nella conoscenza della teoria e della storia. Discutendo con lui, si guadagnava sempre una comprensione migliore dei problemi, anche se da punti di partenza, o di vista, differenti. La sua prematura scomparsa priva tutti noi di un amico da ascoltare con ammirazione, di un interlocutore da cui ricevere stimoli e riflessioni essenziali, spesso unici. Era di Lanciano, in Abruzzo. I suoi studi si compirono in Inghilterra, a Cambridge, e negli Stati Uniti, a Chicago.
Fin dall’inizio della sua carriera accademica, gli interessi teorici e politici lo hanno portato ad amare ampi orizzonti. Il suo tema prediletto, quello sul quale si affermò come studioso, sono state le relazioni economiche e finanziarie internazionali, di cui divenne maestro indiscusso già nei primi anni Settanta, con il suo Moneta e impero, più volte poi ristampato e tradotto. Gli interessava soprattutto l’intreccio fra economia e politica, fra istituzioni ed economia. Un sistema monetario internazionale era, per de Cecco, non tanto il frutto spontaneo di processi di ottimizzazione economica, quanto il risultato di politiche attive, di rapporti di forza: senza la sottomissione dell’India, per esempio, il Regno Unito non avrebbe potuto rimanere il cuore del sistema monetario internazionale durante il venticinquennio che precedette la prima guerra mondiale. Usava lo stesso metodo per l’analisi dei problemi incontrati dal processo di integrazione europeo, in particolare dopo l’adozione dell’euro: nei suoi contributi era sempre presente lo studio degli interessi dei vari attori coinvolti, in primo luogo la Germania. Anche se i suoi giudizi apparivano a volte audaci o eccessivi, la loro profonda originalità e l’onestà intellettuale da cui muovevano li rendeva preziosi punti di riferimento non solo nel dibattito economico ma anche nel momento laborioso che precede l’elaborazione di decisioni di politica economica e finanziaria. Come Federico Caffè, diffidava della superiore razionalità del mercato, pur considerandolo essenziale strumento per il progresso economico. E come Caffè, parafrasando Manzoni, osservava che le forze del mercato hanno “nome, cognome e soprannome”, e come tali devono essere conosciute e comprese. La Banca d’Italia lo chiamò a collaborare alla realizzazione della Collana storica, una vasta impresa editoriale che iniziò alla fine degli anni Ottanta, quando ci si preparò, sotto la guida di Carlo Azeglio Ciampi, a celebrare il centenario dell’Istituto, che sarebbe caduto nel 1993.
Fin dall’inizio della sua carriera accademica, gli interessi teorici e politici lo hanno portato ad amare ampi orizzonti. Il suo tema prediletto, quello sul quale si affermò come studioso, sono state le relazioni economiche e finanziarie internazionali, di cui divenne maestro indiscusso già nei primi anni Settanta, con il suo Moneta e impero, più volte poi ristampato e tradotto. Gli interessava soprattutto l’intreccio fra economia e politica, fra istituzioni ed economia. Un sistema monetario internazionale era, per de Cecco, non tanto il frutto spontaneo di processi di ottimizzazione economica, quanto il risultato di politiche attive, di rapporti di forza: senza la sottomissione dell’India, per esempio, il Regno Unito non avrebbe potuto rimanere il cuore del sistema monetario internazionale durante il venticinquennio che precedette la prima guerra mondiale. Usava lo stesso metodo per l’analisi dei problemi incontrati dal processo di integrazione europeo, in particolare dopo l’adozione dell’euro: nei suoi contributi era sempre presente lo studio degli interessi dei vari attori coinvolti, in primo luogo la Germania. Anche se i suoi giudizi apparivano a volte audaci o eccessivi, la loro profonda originalità e l’onestà intellettuale da cui muovevano li rendeva preziosi punti di riferimento non solo nel dibattito economico ma anche nel momento laborioso che precede l’elaborazione di decisioni di politica economica e finanziaria. Come Federico Caffè, diffidava della superiore razionalità del mercato, pur considerandolo essenziale strumento per il progresso economico. E come Caffè, parafrasando Manzoni, osservava che le forze del mercato hanno “nome, cognome e soprannome”, e come tali devono essere conosciute e comprese. La Banca d’Italia lo chiamò a collaborare alla realizzazione della Collana storica, una vasta impresa editoriale che iniziò alla fine degli anni Ottanta, quando ci si preparò, sotto la guida di Carlo Azeglio Ciampi, a celebrare il centenario dell’Istituto, che sarebbe caduto nel 1993.
Per la Collana storica de Cecco curò due volumi, ciascuno di oltre mille pagine: tanto era necessario per pubblicare e commentare i documenti, tratti da archivi di tutto il mondo, che mostravano le spinte e i vincoli che avevano tracciato la rotta dell’Italia, della sua moneta, nel sistema governato dalle grandi potenze. Il primo volume, L’Italia e il sistema finanziario internazionale 1861-1914 seguiva la parte gloriosa della nostra vicenda nazionale, che ci portò dall’essere una nazione fragile e incompiuta, dipendente dall’estero, fino al riacquisto della sovranità finanziaria, segnalato simbolicamente dalla conversione della rendita attuata nel 1906. Il secondo volume, L’Italia e il sistema finanziario internazionale 1919-1936 era centrato sugli anni fra le due guerre, quando si tentò faticosamente, ma senza successo, di creare un surrogato del sistema affondato con il primo conflitto europeo. Marcello De Cecco fu con noi anche quando, nell’ambito delle iniziative progettate per i 150 anni dell’Unità nazionale, organizzammo nel 2011 un convegno internazionale di storia economica coordinato da Gianni Toniolo. In quell’occasione de Cecco scrisse L’economia italiana vista dall’estero, un breve saggio che spiega con maestria come il nostro paese è stato analizzato dagli economisti stranieri e perché, a tratti, temi “italiani” sono diventati di moda. Ma i suoi interessi non si limitavano all’economia internazionale. In più occasioni con economisti della Banca d’Italia lavorò sull’evoluzione e le trasformazioni del sistema bancario italiano, a partire dalla riforma bancaria del 1936.
Negli ultimi anni, con Pierluigi Ciocca curò una collana di economisti abruzzesi (sui quali non era meno ferrato che su quelli di Cambridge o di Chicago). L’ultimo volume, del 2014, fu Pagine di economia politica, di Federico Caffè. Nella loro introduzione trovo questa frase, che illustra benissimo il suo modo di pensare: “in nessuno degli autori che ripubblichiamo si esprime l’ossequio pedissequo per le verità rivelate e il rifiuto del dubbio come ispirazione profonda della ricerca intellettuale”.
Fonte: La Repubblica
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