di Norbert Trenkle
I. Quando più di 25 anni fa il cosiddetto socialismo reale colò a picco, il pubblico liberal-democratico si convinse che il «sistema sociale» basato sull’economia di mercato e sulla democrazia si fosse aggiudicato una storica vittoria nel «conflitto tra i sistemi». Francis Fukuyamadecretò la sua celebre sentenza circa la «fine della storia», che fece rapidamente il giro del mondo, mentre alla sinistra tradizionale venne a mancare il terreno sotto i piedi.
In questo clima euforico furono ben poche le voci dissenzienti. Qualcuno suggerì spiritosamente che in realtà l’Occidente non aveva vinto, che sarebbe stato solo l’ultimo degli sconfitti. Lungi dal promuovere il benessere generale il capitalismo scatenato, senza più neppure l’opposizione di un sistema antagonista, dispiegò la sua forza distruttiva con una dinamica ancor più incontenibile. Dalla prospettiva della critica del valore, come era stata formulata nell’ambito del gruppo Krisis, la questione si poneva in termini assai differenti.
Secondo la nostra analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale, con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi Stahlmann 1990; Kurz 1991). Questa diagnosi fu criticata sotto molti punti di vista e, per un certo periodo, apparentemente contraddetta, e in termini eclatanti, dallo sviluppo reale della società. Ma adesso, finalmente, anche se con un ritardo temporale di un quarto di secolo, il sistema mondiale capitalistico ha iniziato a sfasciarsi con impressionante rapidità. Ma per comprendere le cause e il carattere di questa dinamica sfrenata è necessario, prima di tutto, gettare uno sguardo retrospettivo sugli sviluppi degli ultimi 25 anni.
Secondo la nostra analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale, con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi Stahlmann 1990; Kurz 1991). Questa diagnosi fu criticata sotto molti punti di vista e, per un certo periodo, apparentemente contraddetta, e in termini eclatanti, dallo sviluppo reale della società. Ma adesso, finalmente, anche se con un ritardo temporale di un quarto di secolo, il sistema mondiale capitalistico ha iniziato a sfasciarsi con impressionante rapidità. Ma per comprendere le cause e il carattere di questa dinamica sfrenata è necessario, prima di tutto, gettare uno sguardo retrospettivo sugli sviluppi degli ultimi 25 anni.
2. Poco dopo la cesura storica del 1989 l’ottimismo euforico iniziò già a raffreddarsi. L’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein fece traballare l’architettura geopolitica del Vicino e Medio Oriente e così la questione di un «nuovo ordine mondiale», dopo la fine del confronto tra i blocchi, tornò di nuovo all’ordine del giorno; la risposta fu l’intervento dell’Occidente, sotto la direzione degli USA, che ebbe come unico effetto una stabilizzazione quanto mai precaria e temporanea. Più tardi, con la sanguinosa disintegrazione della Jugoslavia, la guerra bussò direttamente alle porte dell’Unione Europea, mentre nazionalismi e separatismi iniziarono a prosperare anche in altri paesi dell’Europa e del mondo. Anche sul piano economico la prima metà degli anni Novanta non fu affatto un periodo promettente. L’ex-blocco orientale versava in condizioni disastrose, i paesi del Terzo Mondo gemevano sotto il fardello di un indebitamento spaventoso e sotto le politiche di aggiustamento neoliberali imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale mentre nei centri capitalistici la disoccupazione strutturale di massa aumentava incessantemente. Allo stesso tempo i nuovi focolai di conflitto e di guerra civile, associati allo sfacelo economico dei paesi dell’ex-blocco orientale, causarono imponenti flussi migratori, cui l’Europa reagì con un atteggiamento istericamente difensivo, e che prepararono la strada a una brutale politica di isolamento sotto la regia tedesca. Più di un politico liberale, dopo avere smaltito la sbornia per il trionfo dell’Occidente, si ritrovò improvvisamente ad auspicare la ricostruzione del muro (vedi Trenkle 1993).
3. Se nei tardi anni Novanta e nel primo decennio del Duemila la situazione economica potè essere nuovamente stabilizzata fu soprattutto grazie a un gigantesco boom dell’economia mondiale, che fu determinato dall’ipertrofia dei mercati finanziari, cioè dall’accumulazione massiccia di capitale fittizio. Questo boom sembrò smentire nel modo più assoluto tutti i pronostici di un «collasso della modernizzazione» come crisi fondamentale del sistema mondiale capitalistico. Anche perché questa crescita economica non rimase circoscritta alle tradizionali metropoli capitalistiche ma favorì anche molti dei cosiddetti paesi emergenti. Soprattutto la Cina, il Brasile e l’India, come anche alcuni paesi del Sud-Est asiatico, che avevano già incassato il naufragio dei loro programmi di sviluppo, varati negli anni Sessanta e Settanta, sperimentarono un boom senza precedenti, sotto l’insegna nuova di zecca dell’«accumulazione trainata dalla finanza», trasformandosi in colossi economici. Perfino un certo numero di Stati africani e latino-americani, che alla fine degli anni Novanta venivano considerati i grandi perdenti della globalizzazione, riuscirono a saltare, dopo la svolta del secolo, sul carro di questa congiuntura economica, grazie alla vendita delle loro materie prime e dei loro prodotti agricoli, la cui domanda sul mercato mondiale era aumentata vertiginosamente. In virtù delll’esportazione delle sue materie prime, anche la Russia poté rialzare la testa, sia sul piano economico che su quello politico, e, sotto il regime dittatoriale di Putin, riprese di nuovo a influenzare con decisione gli eventi geopolitici.
4. Questa ripresa dell’economia mondiale riposava però su di una base completamente diversa da quella del boom fordista del dopoguerra. Se il fordismo si fondava su una valorizzazione del capitale mediata dallo sfruttamento su vasta scala della forza-lavoro nella produzione industriale di massa, cioè sull’appropriazione di valore frutto di lavoro passato, la nuova dinamica economica viene alimentata dal ricorso massiccio a valore futuro, cioè dal dispendio futuro di forza-lavoro. Per questo cambiamento di base esistevano ragioni strutturali. Quando il modello di accumulazione fordista, negli anni Settanta e Ottanta, entrò in crisi, perché l’applicazione della scienza alla produzione, sulla scia della Terza rivoluzione industriale, divenne la forza produttiva principale, anche il meccanismo classico della valorizzazione del capitale si scontrò con i suoi limiti storici. Di fronte all’espulsione massiccia e assoluta di forza-lavoro dalla produzione immediata, il valore creato nella produzione era di gran lunga insufficiente a tenere in vita il processo autotelico dell’accrescimento permanente del denaro. Ma in questo modo il meccanismo funzionale di base del modo di produzione capitalistico era ormai compromesso (vedi Lohoff/Trenkle 2012).
5. Una via di uscita provvisoria da questa crisi venne trovata solo grazie all’accumulazione su grande scala di capitale fittizio. Si verifica sempre una produzione di capitale fittizio quando titoli di proprietà, come obbligazioni o azioni, vengono messi in circolazione o quando salgono i prezzi dei titoli già in circolazione. Questi titoli sono promesse di pagamento negoziabili e costituiscono un genere particolare di merci, sono cioè merci del secondo ordine (vedi Lohoff/Trenkle 2012), dalle caratteristiche del tutto peculiari. Mediante la loro vendita è possibile incrementare il capitale investito senza ricorrere all’impiego di forza-lavoro e senza «deviare» attraverso la produzione di merci sul mercato dei beni.
Come è possibile? Con l’acquisto di promesse di pagamento negoziabili il denaro non passa semplicemente dalle mani dell’acquirente in quelle del venditore. Questo passaggio di denaro da chi concede il credito a chi si assume il debito, da chi acquista le azioni a chi le ha emesse etc. si accompagna a un temporaneo raddoppiamento della somma di denaro in questione. Accanto al capitale iniziale, giunto nelle mani del beneficiario del credito o dell’emittente delle azioni, entra in scena, nella forma del titolo di proprietà, una sua immagine speculare autonomizzata, che rappresenta valore futuro. Fino a quando il titolo di proprietà è valido, cioè per tutta la sua durata, si verifica così unaaccumulazione di capitale senza valorizzazione di capitale (vedi Lohoff 2014).
Lungi dall’essere una novità assoluta questo singolare meccanismo di raddoppiamento è sempre stato un elemento della logica di funzionamento basale del capitalismo, che però nella crisi fondamentale della valorizzazione, determinata dall’espulsione, in termini assoluti, di forza-lavoro in seguito alla terza rivoluzione industriale, ha assunto una funzione del tutto nuova, che funge da base per tutto il sistema: si è trasformato nel motore della dinamica dell’economia globale. Sono ormai molti anni che l’opinione pubblica si straccia le vesti al cospetto della spaventosa crescita del capitale finanziario, che viene giudicato come uno «sviluppo erroneo», responsabile di tutti i fenomeni della crisi. Ma senza l’accumulazione di capitale autonomizzata sui mercati finanziari, il sistema mondiale della merce starebbe agonizzando già da almeno trent’anni. Se non ci fosse stata questa «produzione» di capitale fittizio, in Cina, India, Brasile etc. non ci sarebbe stato nessun boom industriale, gli ex-Stati del socialismo reale non si sarebbero mai ripresi dal tracollo e la terza rivoluzione industriale sarebbe stata strangolata dalla sua stessa produttività, che rendendo superflua su grande scala la forza-lavoro, distrugge i fondamenti della valorizzazione del capitale.
6. Per giunta questa dinamica fondata sul capitale fittizio presenta alcune differenze sostanziali rispetto al boom fordista del dopoguerra. La più importante consiste nel fatto che l’accumulazione di capitale non dipende più, in primo luogo, dallo sfruttamento di forza-lavoro, perché l’accrescimento del denaro si verifica in gran parte direttamente sui mercati finanziari. Per questa ragione, i venditori della merce forza-lavoro hanno perso gran parte del loro potere contrattuale, che si basava finora sulla dipendenza del capitale dalla forza-lavoro per la sua accumulazione. Su un piano strutturale la posizione dei lavoratori era sempre stata più debole rispetto a quella del capitale, perché i salariati sono costretti a vendere senza sosta la loro forza-lavoro, per garantirsi la sopravvivenza. Tuttavia questa situazione poteva essere alleviata, soprattutto nei periodi in cui la domanda di forza-lavoro era considerevole, grazie all’organizzazione sindacale e politica. Ma nell’era del capitale fittizio, in cui l’accumulazione del capitale si fonda soprattutto sulla vendita di promesse di pagamento negoziabili, cioè di merci del secondo ordine, il sistema dei rapporti di forza nella società si è modificato a tutto vantaggio del capitale. La ragione sta nel fatto che adesso il capitale si trova nell’invidiabile posizione di chi può «produrre» autonomamente le merci di base per l’accumulazione sui mercati finanziari, mentre la merce forza-lavoro, misurata sul suo contributo all’incremento del capitale, ha solo un’importanza subordinata (vedi Trenkle 2015b).
Inoltre la drastica razionalizzazione applicata nei settori-chiave della produzione per il mercato mondiale e la globalizzazione hanno indebolito in maniera decisiva il potere contrattuale dei lavoratori salariati, che adesso possono essere rimpiazzati in qualsiasi momento da sistemi automatici o da lavoratori a bassi salari da qualche parte nel mondo. Precarizzazione, pressione sui salari e una sempre più ossessiva pretesa efficientistica ne furono le logiche conseguenze.
Allo stesso tempo la produzione di beni per il mercato, che durante il fordismo era la principale forza motrice per il processo autotelico di accrescimento del denaro, ha mutato la sua funzione all’interno del sistema. Un tempo, il fattore decisivo per la valorizzazione del capitale era il dispendio di forza-lavoro nella produzione di automobili, frigoriferi, macchine utensili etc., mentre la creazione di capitale fittizio restava sostanzialmente vincolata alla dinamica della valorizzazione. Di conseguenza, poterono essere finanziati in via preliminare mediante prestiti o azioni, ad esempio, grandi investimenti in fabbriche e infrastrutture, dove il ricorso a valore futuro veniva coperto grazie allo sfruttamento di forza-lavoro nella produzione di beni per il mercato. Nell’era del capitale fittizio questo rapporto si è capovolto. Adesso la cosiddetta economia reale non è più il motore della moltiplicazione del denaro perché anch’essa dipende al massimo grado dal proseguimento dell’accumulazione di titoli di proprietà sui mercati finanziari. Se questa si inceppa come nel 2008, si inaridiscono immediatamente anche i flussi di denaro destinati agli investimenti o all’acquisto di beni di consumo e l’economia reale precipita in una crisi da cui è possibile uscire solo se la «produzione» di capitale fittizio viene rimessa ancora una volta in funzione. La produzione di beni di mercato è funzionale per il sistema solo in quanto offre punti di riferimento per le aspettative di utile, verso cui si orientano i compratori di titoli di proprietà; essa offre cioè in un certo senso la materia per la «fantasia sui mercati», senza cui il ricorso al valore futuro non si verifica (vedi Lohoff/Trenkle 2012).
7. In questo modo l’indifferenza nei confronti del contenuto della produzione, che è uno dei contrassegni fondamentali del modo di produzione capitalistico, raggiunge il suo stadio estremo. Se ne ebbe la più limpida dimostrazione durante la grande crisi dei mercati finanziari, quando i governi e le banche centrali misero a disposizione migliaia di miliardi per salvare il settore finanziario e creditizio, ritenuto (in un certo senso per nulla a torto) di «importanza sistemica, per poi tagliare allo stremo le risorse del settore sociale e sanitario. Ma anche gli incredibili aumenti di prezzo degli immobili, che in molte zone hanno reso le abitazioni un bene di lusso, vanno ricondotte alla dinamica del capitale fittizio, che ha capitalizzato fin da ora le aspettative di valore futuro; lo stesso vale per la valorizzazione di materie prime, risorse naturali e terreni agricoli (Lohoff 2015). Non è un caso quindi che, negli ultimi anni, molte lotte sociali siano state innescate dall’espulsione degli uomini dai loro quartieri, dall’economicizzazione dello spazio pubblico, dallo sgombero di abitazioni e case in seguito alla crisi immobiliare e dall’appropriazione di terreni e di risorse naturali da parte delle compagnie che operano sul mercato mondiale.
L’era del capitale fittizio ha plasmato la società, non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale e politico. Essa fu inaugurata dallo smantellamento delle strutture dello Stato sociale e della regolazione dell’era fordista, dal rimodellamento neoliberale della società a misura delle coercizioni sempre più energiche sul mondo del lavoro flessibilizzato e dalla totale economicizzazione di tutte le relazioni sociali. La conseguenza facilmente prevedibile fu l’inasprimento della concorrenza generale e una progressiva atomizzazione del contesto sociale. Non a caso tutto questo andò di ari passo con una rivitalizzazione generale del nazionalismo, che sembrava in grado di soddisfare il desiderio regressivo di appartenenza a una collettività apparentemente in grado di fornire protezione, che si associava a ideologie razziste e socialdarwiniste basate sull’esclusione o imperversava come ottuso separatismo regionalistico sia in una forma bellicosa e sanguinaria, che sul piano dell’azione politica. Per ragioni del tutto analoghe il fondamentalismo religioso prosperò un po’ dappertutto nel mondo nelle forme più disparate – non solo in quella dell’islamismo, anche se quest’ultima, a causa della specificità del fallimento della modernizzazione di recupero nel Vicino e Medio Oriente ha sviluppato un potenziale particolarmente aggressivo e brutale (vedi Trenkle 2015a).
8. Contemporaneamente, nacque una nuova forza di sinistra, nella forma del movimento anti-globalizzazione, che si differenziava dalla sinistra tradizionale soprattutto sotto due riguardi. Da un lato le sue strutture reticolari transnazionali, non-gerarchiche, che rispecchiavano la forma mutata del mondo, rappresentavano indubbiamente un progresso nei confronti del defunto «internazionalismo», che era pur sempre legato al mondo delle nazioni. Dall’altro però, la critica e gli obiettivi del movimento anti-globalizzazione, o quantomeno della sua corrente principale, restarono pur sempre imprigionati nel sistema di riferimento della logica capitalistica. La critica venne diretta, in prima linea, contro il neoliberalismo e il dominio del capitale finanziario, che vennero incolpati per le crisi e gli sconquassi socio-economici; di conseguenza l’alternativa venne identificata nel ritorno immaginifico ad un capitalismo regolato dallo Stato sociale, in cui l’«economia reale» tornava ad occupare la posizione centrale.
Nonostante questa critica riduttiva il movimento anti-globalizzazione contribuì al cambiamento del clima sociale: l’egemonia del discorso neoliberale venne messa sempre più in discussione e fu addirittura possibile interrompere, almeno in parte, lo smantellamento dello Stato sociale e le privatizzazioni o ottenere la revoca di alcune misure. In molti paesi dell’America Latina, nella prima decade del Duemila, i partiti della sinistra riuscirono perfino ad arrivare al governo e grazie allo spazio di manovra aperto dal boom del capitale fittizio, misero a punto politiche redistributive, imponendo tutta una serie di riforme sociali, giuridiche e politiche volte a migliorare la condizione di interi settori della popolazione fino a quel momento marginalizzati e privati di ogni diritto.
9. Ma con la crisi finanziaria del 2008 fu possibile toccare con mano i limiti dell’era del capitale fittizio. Il mega-crollo del sistema finanziario internazionale (e quindi dell’economia mondiale di cui rappresenta è la sola base) fu scongiurato solo grazie a una pletora di programmi statali di salvataggio in favore del settore bancario e finanziario e al gigantesco foraggiamento dei mercati mediante crediti concessi dalle banche centrali a un tasso di interesse praticamente nullo. Fu in questa circostanza che la sinistra anti-globalizzazione palesò tutta la sua impotenza. Indubbiamente, in seguito alla crisi, le richieste di maggiori controlli sui mercati finanziari e di un rafforzamento dell’economia reale trovarono improvvisamente ascolto nel mainstream dell’ufficialità mediatica e vennero recepite dai governi; parallelamente si registrò un cambiamento del clima sociale: il neoliberalismo si mise sulla difensiva e perse la sua posizione egemonica a vantaggio di un keynesismo di tipo nuovo. Di fatto però si trattò solo della musica di accompagnamento ideologica per i programmi di salvataggio statali in tutto il mondo, che avevano per obiettivo, innanzitutto, il risanamento delle banche e la ripresa dell’accumulazione di capitale fittizio ad ogni costo.
E così le idee politiche della sinistra anti-globalizzazione si dimostrarono completamente illusorie. Nessun argine venne posto al capitale finanziario né vi fu alcun fantasmagorico «ritorno all’economia reale», anche se, nel frattempo, questo ritorno veniva invocato come un mantra in maniera trasversale da tutto lo spettro politico. La ragione non era certo la mancanza di volontà politica: semplicemente per questo ritorno non c’erano più le basi economiche. A causa del livello esorbitante della produttività, che a sua volta è un risultato della dinamica contraddittoria del capitalismo, il processo autotelico del capitale non può più continuare mediante lo sfruttamento di forza-lavoro nella produzione, ma dipende nella buona e nella cattiva sorte dall’accumulazione di capitale fittizio.
10. Di conseguenza anche i partiti di sinistra furono costretti a fare buon viso a cattivo gioco di fronte ai programmi di salvataggio a favore del settore creditizio e finanziario o perfino a collaborare attivamente alla loro esecuzione, così da evitare il collasso dell’economia mondiale. In seguito non si poté che constatare come lo sviluppo congiunturale fosse sempre più dipendente dagli interventi delle banche centrali, che a loro volta non avevano alternativa se non inondare i mercati finanziari con una marea gigantesca di denaro quasi senza interesse. Questo perché, dopo il 2008, non fu più possibile rimettere in moto, come sarebbe stato necessario, l’accumulazione di capitale fittizio nel settore privato, che da allora deve essere, in pratica, sovvenzionata permanentemente attraverso politiche monetarie (vedi Lohoff/Trenkle 2012). Le possibilità di controllo da parte della politica economica dei governi si ridussero quindi ai minimi termini.
Come se non bastasse, di fronte al rapido aumento dell’indebitamento statale, che raggiunse livelli stratosferici, soprattutto nei paesi colpiti con più violenza dalla crisi, a causa del fatto che le perdite del settore bancario e finanziario erano state socializzate in misura consistente, i falchi neoliberali si videro ancora una volta confermati nelle loro folli politiche di austerità. Il caso peggiore fu l’Europa, dove i pochi paesi che erano usciti vincitori dalla crisi, Germania in testa, hanno inflitto soprattutto ai paesi dell’Europa Meridionale un diktat brutale e spietato volto a imporre politiche di risparmio. A subire un trattamento particolarmente duro fu la Grecia, dove alla fine persino il governo di Syriza, che era stato eletto proprio in reazione a questo stato di cose, di fronte al ricatto dei sadici tedeschi dell’austerità non poté fare altro che trasformarsi nell’esecutore della stessa politica contro la quale si era battuto con tenacia.
11. I dissidenti di sinistra hanno criticato questo voltafaccia, traendo però delle conseguenze che, sul piano ideologico, sono quasi peggiori. La soluzione allucinatoria che essi vagheggiano consiste in un ritorno alla «sovranità nazionale» mediante l’uscita dall’Eurozona, dall’Unione Europea e dalle altre organizzazioni sovranazionali. Si tratta ovviamente di un’idea del tutto illusoria, da una parte perchè una separazione dalla rete delle connessioni globali è semplicemente impossibile e dall’altra perché, in ogni caso, per i paesi che si proponessero di attuarla, le ripercussioni sarebbero catastrofiche. In ogni caso essa rispecchia la pericolosa tendenza verso un isolamento nazionalistico sempre più marcato, che in seguito alla crisi dell’euro – o adesso anche a causa delle politiche del tutto unilaterali sul problema dei rifugiati –, minaccia di disintegrare l’Unione Europea. Il risultato di una politica di questo genere, da «sinistra radicale» (sostenuta dagli scissionisti di Syriza, dalla frazione Lafontaine-Wagenknecht in Germania e da altri esponenti della sinistra europea), sarebbe qualcosa di molto diverso dal ripristino della sovranità dei singoli Stati nella sfera economica e della politica sociale, e cioè un isolamento aggressivo con la presenza simultanea di un processo di impoverimento interno che preparerebbe il terreno per l’instaurazione di regimi autoritari di crisi, analoghi a quelli che già si vedono in Russia e in Ungheria; anche la Polonia sembra avere imboccato la stessa strada.
Per giunta questo nazionalismo regressivo si mescola regolarmente con le peggiori ideologie della cospirazione, secondo cui c’è sempre qualche misteriosa potenza internazionale o qualche forza che agisce nell’ombra, che sabota sistematicamente ogni politica a favore del «lavoro onesto» e ostile alla speculazione. È il rovescio di un’illusione politicista completamente infondata, incapace di decifrare il proprio fallimento se non facendo ricorso a cupe personificazioni proiettive. Non a caso su questo punto tutti gli strateghi dei fronti trasversali possono trovare un appiglio e quindi gettare un ponte verso l’aperto antisemitismo e l’estremismo di destra.
12. Questa oscillazione tra la sottomissione al dettato dell’austerità e la regressione nazionalistica, alimentata dalle teorie della cospirazione, è il risultato della fissazione sulla logica di base della società della merce. Una sinistra che accetta senza battere ciglio che la ricchezza venga prodotta sotto forma di merci, che a loro volta sono solo un mezzo per il fine dell’accumulazione capitalistica, può avere come unico programma quello di influenzare e controllare politicamente la dinamica capitalistica, in modo che la ricchezza prodotta in forma capitalistica possa essere redistribuita in modo socialmente più equo. Durante l’apogeo del fordismo, questa politica potè contare su di una legittimazione relativa e, in sostanza, contribuì a migliorare considerevolmente, almeno sotto certi aspetti, le condizioni di vita e di lavoro di buona parte della popolazione nei centri capitalistici. Ma nell’era del capitale fittizio essa è ormai solo la perfida caricatura di se stessa. Questo perché, come si è già detto in precedenza, è necessario un dispendio sempre maggiore di risorse per mantenere in moto l’accumulazione di capitale, mentre diminuisce sempre più la quantità di ricchezza sotto forma di merci che può essere redistribuita tra i membri della società. In parole povere: “ciò che ce ne viene in tasca”, in fin dei conti, è irrisorio rispetto alle risorse e ai mezzi finanziari che devono essere sprecati per il funzionamento e la conservazione della macchina capitalistica.
Tuttavia, fino a quando risulta possibile tenere in moto l’accumulazione del capitale fittizio, in virtù di essa viene indotta una crescita più o meno energica dell’economia reale (Lohoff/Trenkle 2012), che, a sua volta, provoca l’afflusso di una maggiore quantità di tasse e di imposte, che infine aprono allo Stato nuovi spazi di manovra per le sue politiche finanziarie; di conseguenza non è affatto trascurabile come essi vengano utilizzati. Su questo punto, nel dibattito politico, la risposta della sinistra si rivela oggi estremamente angusta. Si ispira ai tradizionali modelli keynesiani: stimolazione della congiuntura mediante l’aumento del potere di acquisto delle masse, programmi di investimento statali e, simultaneamente, distribuzione più equa della ricchezza. Se paragonata al fanatismo dell’austerità neoliberale questa alternativa è indubbiamente migliore perché il suo obiettivo è il miglioramento, o quantomeno la stabilizzazione, della condizione sociale di gran parte della popolazione. Tuttavia essa mostra la corda, perlomeno sotto due punti di vista.
Anzitutto questi programmi congiunturali devono ottenere buoni risultati abbastanza in fretta da conquistarsi la famosa (o meglio famigerata) fiducia dei mercati finanziari, cosicchè questi non decidano di ritirare il denaro dal paese che li attua. Non c’è dubbio che gli attori di mercato siano, in generale, più pragmatici degli ideologi neoliberali nella sfera politica, visto che l’unica cosa che sta loro a cuore è che il denaro torni a zampillare, non importa grazie a quale provvedimento politico; malgrado ciò la dipendenza immediata dal capitale fittizio restringe fortemente lo spazio di manovra della politica. In sostanza possono essere applicate solo quelle misure che promettono successi economici a breve termine e nel minor tempo possibile o che, quantomeno, non li ostacolano. Ad esempio, le misure di politica sociale o a sostegno del sistema sanitario, che mirano «solo» a soddisfare i bisogni della popolazione, diminuiscono rapidamente la credibilità del paese pregiudicando così tutto il programma di politica economica. Accade così che perfino i governi di «sinistra» gettino alle ortiche tutte le loro belle idee sociali ed ecologiche, se solo intravedono una qualche possibilità di dischiudere nuovi settori per gli investimenti di capitale.
Secondariamente, anche questi progetti neo-keynesiani si scontreranno duramente con i propri limiti, al più tardi con la prossima grande avanzata della crisi sui mercati finanziari. Quando essa accadrà nessuno può dirlo con precisione ma è facile prevedere che essa sarà inevitabile e addirittura molto più grave della crisi finanziaria ed economica del 2008. Questo perché è assai probabile che il denaro senza tasso di interesse proveniente dalle banche centrali, che alimenta i mercati finanziari e che rinfocola l’attuale congiuntura, vada incontro a una massiccia svalutazione, causando un’iperinflazione globale. Ma anche se questo scenario non dovesse verificarsi subito, per le banche centrali, che riposano su gigantesche montagne di crediti inesigibili nei confronti delle altre banche e degli Stati, sarebbe davvero arduo arrestare l’avanzata della crisi con gli strumenti adottati fino a questo momento. E gli stessi governi non saranno più in grado di varare programmi di salvataggio così imponenti come l’ultima volta, visto che sono indebitati fino al collo, non da ultimo proprio per questa ragione. Inoltre, in una situazione ancor più critica, sarebbe difficile concordare un intervento globale concertato contro la crisi da parte dei grandi Stati; finirebbero invece con l’imporsi forze nazionalistiche e si innesterebbe così una dinamica centrifuga basata sulla competizione per l’esclusione e sull’aggressività reciproca, che potrebbe disintegrare non solo alleanze internazionali ma anche organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea. Con una tale concorrenza politica negativa all’insegna del si-salvi-chi-può, che già si profila sin da ora al cospetto del flusso di profughi e del processo di disintegrazione armata nel Vicino e Medio Oriente, verrebbe raggiunto uno stadio qualitativamente nuovo del processo di crisi, dalle dimensioni estremamente pericolose.
13. La situazione appare troppo drammatica per il tran-tran di una sinistra che spaccia i suoi progetti keynesiani come l’ultimo gridodell’emancipazione sociale e che non riesce a capire che in questo modo si autocondanna all’impotenza. Nuove possibilità per l’azione si apriranno solo nella prospettiva di un superamento del modo capitalistico di produzione e di vita, che ovviamente non può avere nulla in comune con il «socialismo reale» giustamente defunto. Il suo contenuto può essere solo la produzione, l’appropriazione e la distribuzione della ricchezza materiale, sensibile, e la riorganizzazione delle condizioni di vita sociali al di là della produzione di merce, della valorizzazione del capitale e dell’amministrazione statale. Ma per questo scopo occorrono anche nuove forme, procedure e istituzioni per la discussione e la pianificazione sociale, in cui individui liberamente associati possano decidere circa le loro incombenze, senza che il loro orizzonte operativo venga predeterminato dalle costrizioni oggettivate e sempre più distruttive della logica della merce e della «finanziabilità». Naturalmente tali forme di libera associazione tra individui sociali non possono sorgere dall’oggi al domani, ma devono essere sviluppate e collaudate in un processo di trasformazione sociale più lungo. Sorge quindi la questione circa l’individuazione dei possibili punti di partenza su cui un tale processo potrebbe travare appiglio.
Per quel che concerne lo sviluppo delle forze produttive e del sapere sociale, sono ormai presenti da tempo tutte le possibilità per realizzare un modo di produzione decentrato ma globalmente interconnesso e tecnicamente efficiente, organizzato secondo i criteri di una ragione sensibile e conciliabile con la conservazione dei fondamenti naturali. In parte si trovano già oggi simili esempi, per esempio nella forma del rifornimento di energia decentrato a partire da fonti rinnovabili; nelle attuali condizioni sociali, tuttavia, questi potenziali non potranno mai dispiegarsi perché la logica capitalistica tende sempre alla centralizzazione e alla costruzione di grandi unità di valorizzazione e inoltre tutti i progetti per il risparmio di risorse e per una produzione rispettosa dell’ambiente vengono subito controbilanciati dall’incremento degli out-put produttivi al servizio dell’accumulazione di capitale (effetto rimbalzo). Qualcosa di analogo vale anche per le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che in virtù della loro capacità di risparmiare lavoro sono il motore del processo di crisi fondamentale del capitalismo, che rende sempre più uomini «superflui» e distrugge le strutture della convivenza sociale. Se però fossero impiegati programmaticamente nel senso della produzione di ricchezza materiale e della soddisfazione dei bisogni concreti, sensibili, potrebbero contribuire a realizzare il vecchio sogno dell’umanità: il sogno di una società in cui tutti hanno a sufficienza per condurre una vita buona e disporre di tempo in abbondanza.
Il compito davvero difficile consisterà però nello sviluppo di nuove forme non-gerarchiche di discussione e di deliberazione sociale, che sono necessarie per potere dispiegare effettivamente queste possibilità (per la discussione vedi anche Meretz 2005). Questo compito può essere praticamente assolto solo nel contesto di un settore esteso e auto-organizzato alternativo che rompa coscientemente con la logica della produzione di merce. Tentativi in questa direzione si registrano certamente anche adesso e si ricostituiscono regolarmente nel quadro delle lotte sociali, specialmente nelle situazioni di crisi. Esempi di questo genere si trovano in gran quantità in Grecia dove in reazione alla crisi e alla brutale politica di impoverimento è sorto un gran numero di iniziative e di reti auto-organizzate in tutti gli ambiti della vita sociale (sanità, abitazioni, cultura, produzione etc.).
Malgrado tutto questi tentativi (in Grecia così come in Spagna, Argentina e altrove) patiscono sempre la loro impossibilità di accedere alle risorse sociali; per giunta vedono enormemente ristretto il loro raggio di azione a causa delle prescrizioni giuridiche e burocratiche e sono esposti alla repressione da parte dello Stato. Di conseguenza non riescono a crescere fino a diventare una vigorosa alternativa sociale, ma si riducono a un aiuto di emergenza o come «impresa di sgombero» per le conseguenze della politica di austerità. Proprio qui si aprono nuove possibilità di intervento per una sinistra che pensa di essere una forza emancipatrice all’altezza dei tempi. Essa dovrebbe fare tutto il possibile per migliorare le condizioni-quadro materiali, giuridiche e sociali per nuove forme di auto-organizzazione solidale e emancipatoria e in questo modo gettare le basi per un’alternativa per il modo capitalistico di produzione e di vita e in prospettiva per il suo superamento.
14. In quest’ottica alleanze elettorali come Syriza e Podemos, che provengono dal contesto dei movimenti sociali di protesta, potrebbero svolgere senz’altro una funzione importante e affermarsi come un’alternativa reale alla tradizionale politica di partito della sinistra. Il preesupposto è però un mutamento radicale di prospettiva e una nuova auto-comprensione. Sia Syriza che Podemos sono ormai in procinto di trasformarsi in partiti normalissimi, che si candidano a raccogliere l’eredità della vecchia socialdemocrazia. Ma anche per molti attivisti dei movimenti sociali sembra già sufficiente il fatto di poter contare su di un rappresentante in Parlamento o magari tra le fila del governo, che porti avanti le loro rivendicazioni. Nel giro di pochissimo tempo si è quindi riprodotta la classica divisione del lavoro tra movimenti sociali e partiti politici, che ha caratterizzato gli ultimi 150 anni e che consiste sostanzialmente nel fatto che i primi accettano di ridursi in uno stato di inferiorità e di impotenza nei confronti dei secondi.Il piano politico viene così delegato alla rappresentanza parlamentare, che entra in carica con la promessa di tradurre le richieste dei movimenti sociali in progetti politici di riforma, provvedimenti statali e regolamentazioni giuridiche. L’esito terminale è che la produzione di ricchezza capitalistica viene riconosciuta come forma generale sociale, i partiti, come «governo in spe», prendono le redini e si conformano sempre più alle presunte costrizioni oggettive, mentre i movimenti sociali si dissolvono o si ritirano dalla scena.
Durante la fase ascendente della storia capitalistica l’auto-interdizione dei movimenti sociali e la revoca degli esperimenti di auto-organizzazione andarono pur sempre di pari passo con riforme sociali o giuridiche, che migliorarono in una certa misura le condizioni di vita o che perlomeno promisero di farlo in maniera convincente. Oggi tuttavia, se il riformismo nella vecchia accezione del termine non ha più prospettive, è necessario modificare radicalmente la prospettiva. I movimenti di liberazione sociale non possono più identificarsi con uno stadio di transizione verso la costituzione di partiti propriamente detti o con le organizzazioni di retroguardia delle loro rappresentanze parlamentari e rassegnarsi al fatto che queste prendano in loro vece decisioni socialmente rilevanti sul piano politico. Essi devono invece considerarsi come attori sociali davvero importanti, che lottano con ogni mezzo per creare le strutture di un’auto-organizzazione sociale solidale, per ridurre sempre più la loro condizione di inferiorità, che era ed è legata alla delega di tutti i compiti pubblici essenziali allo Stato da una parte e all’economicizzazione di quasi tutti i rapporti sociali dall’altra.
15. Proprio nelle condizioni del processo capitalistico di crisi, un movimento emancipatore non può limitarsi ad abbandonare e a ignorare il piano della politica e dello Stato. Tuttavia l’orientamento delle lotte su questo terreno deve avere un contenuto totalmente diverso da quello che ha avuto finora. Da una parte è necessario convogliare la maggior quantità possibile di risorse materiali (fabbricati, mezzi di produzione etc.) e finanziarie nel settore auto-organizzato e migliorare le condizioni strutturali), affinchè questo possa consolidarsi ed essere ulteriormente sviluppato. Ma allo stesso tempo, è indispensabile difendere gli standard vigenti nella sfera giuridica e in quella dello Stato sociale contro tutti coloro che tentano di liquidarli. Questo perché anche se il settore dell’auto-organizzazione sociale cresce e si rafforza, lo Stato resterà un attore centrale ancora per un certo periodo di tempo, in grado di stabilire e garantire le condizioni generali della vita nel capitalismo di crisi. Quindi la lotta contro la privatizzazione dei servizi pubblici, la riduzione delle prestazioni sociali o le misure di controllo statale sarà naturalmente della massima importanza.
Del resto i presupposti di questa lotta cambiano fondamentalmente se essa si ricollega a una nuova prospettiva emancipatoria di superamento della società capitalistica. Anzitutto perché in questo modo essa perderebbe il carattere puramente difensivo, che la caratterizzerà fino a quando sui suoi vessilli ci sarà solo il rinnovamento del venerando Stato sociale e regolativo, senza peraltro crederci davvero. Pur restando di per sé una lotta difensiva, può essere condotta in maniera più energica se non si legittima mediante riflessioni economico-politiche prese a prestito dai fondi di magazzino del keynesismo, ma pone al centro coerentemente la soddisfazione dei bisogni sensibili, concreti. In questo modo guadagnerà in forza e capacità di propagazione e sarà più facile superare la divisione particolaristica tra lotte diverse basate su interessi perlopiù in concorrenza reciproca e, al contrario, tessere alleanze tra differenti forze. Secondariamente un settore di auto-organizzazione sociale capace di consolidarsi rappresenta anche una base pratica per combattere con decisione i conflitti sociali; perché offre non solo una certa garanzia materiale ma anche una specifica infrastruttura per il sostegno solidale così come luoghi di rifugio dalla repressione. Così le lotte per il reddito e per il lavoro, che restano comunque importanti, finchè la maggioranza della popolazione continuerà a dipendere, in un modo o nell’altro, dalla vendita della sua forza-lavoro, potranno essere condotte in una maniera più solidale e fruttuosa che adesso.
16. Questo orientamento dell’emancipazione sociale implica però un rapporto con lo Stato e con la politica del tutto diverso, rispetto a quello che ha dominato nella sinistra tradizionale. Soprattutto il leninismo riteneva che ogni forma di auto-organizzazione dovesse assoggettarsi all’obiettivo della conquista del potere statale e successivamente dissolversi o essere liquidata con la forza. Al contrario la realizzazione e lo sviluppo del settore auto-organizzato, come base per il superamento del modo capitalistico di produzione e di vita, deve costituire oggi il fulcro dell’azione politica. È in questa prospettiva che vanno condotte le lotte sul livello politico-statale. Per Lenin e per il marxismo tradizionale la soppressione dello Stato era solo una musica dell’avvenire. Invece oggi l’emancipazione sociale deve porsi come contenuto, fin dal principio, la revoca graduale dello Stato nella società.
Questo orientamento trae le sue radici direttamente dalla situazione storica in cui viviamo. All’inizio del XX secolo lo Stato si trovava all’inizio della sua carriera storica, nel corso della quale si sarebbe imposto nel suo ruolo di universalità astratta su buona parte della superficie del globo, con la sua ambizione di regolare quasi tutti gli ambiti e gli interessi della vita sociale. Poteva quindi sembrare decisivo conquistare la leva del potere statale – con la rivoluzione o mediante le elezioni – per trasformare da lì la società.
Oggi sappiamo che questa strategia rafforza la tirannia capitalistica – non di rado con conseguenze spaventose –, ma questo non è ancora tutto. Lo Stato, nella crisi fondamentale del capitalismo, si spoglia sotto ai nostri occhi del suo carattere di universalità astratta. In qualche caso va incontro alla disgregazione, lasciando campo libero al dominio delle organizzazioni criminali e delle bande, con le quali almeno una parte dell’apparato statale stringe alleanze generalmente vantaggiose. Oppure abdica da tutti quei compiti che sono necessari per la garanzia delle condizioni generali di vita, finchè a sopravvivere sono solo le funzioni repressive, che vengono impiegate per organizzare l’esclusione sociale. Tendenzialmente queste due forme di decorso si mescolano e confluiscono, nel peggiore dei casi, in una dinamica centrifuga tra poteri regressivi in competizione, che sfocia a sua volta in una guerra civile latente o aperta. Quindi la lotta per l’emancipazione sociale è essenzialmente una lotta per un’alternativa alla distruzione progressiva dei fondamenti materiali della vita e alla disintegrazione regressiva della società nel processo di crisi capitalistico. Sinistra significa oggi combattere per la dismissione emancipatoria dello Stato e della produzione di ricchezza capitalistica.
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In Italiano:
Ernst Lohoff, Norbert Trenkle, Crisi: Nella discarica del capitale, a cura di Riccardo Frola, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
Ernst Lohoff, Norbert Trenkle, Terremoto nel mercato mondiale, a cura di Massimo Maggini, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
Robert Kurz, Ragione sanguinaria, a cura di Samuele Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
Anselm Jappe, Serge Latouche, Uscire dall’economia, a cura di Massimo Maggini, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
Traduzione dal tedesco di Samuele Cerea.
Fonte: L'Anatra di Vaucanson
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