di Mauro Poggi
“Alcune persone ciniche che hanno seguito fin qui il ragionamento concluderanno che soltanto una guerra può far cessare una grande depressione economica. Perché fin qui la guerra è stata l’unico oggetto di stanziamenti statali su larga scala giudicato rispettabile dai governi. In pace, invece, essi sono timidi, iperprudenti, irresoluti, privi di perseveranza o decisione. Uno stanziamento in pace è visto come come una passività e non come un anello nella trasformazione in utili capitali fissi delle risorse in eccesso della comunità, risorse che altrimenti andrebbero sprecate“.
“Le guerre sono l’unica forma di spesa in deficit su grande scala ritenuta giustificabile dagli statisti“.
L’opuscolo da cui è tratto il primo passaggio, The Means to Prosperity, raccoglie una serie di articoli apparsi sul Times, preludio – in termini accessibili al grande pubblico – ai temi che Keynes stava trattando nel suo lavoro più importante, la Teoria Generale, da cui è tratta la seconda citazione.
L’opuscolo uscì nel 1933, poco meno di un secolo fa. I cinici di allora sono presumibilmente tutti morti, ma la logica per cui gli stanziamenti bellici sono gli unici che i governi giudicano rispettabili (e insindacabili) è viva e vegeta.
Penso a Barack Obama, premio nobel preventivo per la pace, che nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione ha affermato orgogliosamente che “The United States of America is the most powerful nation on Earth. Period. It’s not even close. We spend more on our military than the next eight nations combined“. (Gli Stati Uniti d’America sono la più potente nazione al mondo. Punto. [Le altre] non ci si avvicinano nemmeno. Spendiamo per il nostro esercito più di quanto spendono le otto nazioni successive messe insieme).
Niente male per un paese dove le diseguaglianze socioeconomiche sono drammatiche e in crescendo, la classe media sprofonda e l’ascensore sociale è fuori servizio per la maggioranza delle persone.
Così sarebbe ripartito il territorio USA in base alla distribuzione della ricchezza. Notare la quota spettante al primo 1% più ricco, e il puntino rosso che rappresenta quella dell’ultimo 40% più povero.
Ma anche l’Italia, nel suo piccolo, non è da meno.
Da noi la regola imperativa è ridurre la spesa sociale (ridurre, si badi bene, non riqualificare). Sapienti campagne mediatiche propedeutiche ai tagli ci indottrinano quotidianamente sugli sprechi della sanità, l’inefficienza della scuola pubblica, l’iniquità del sistema pensionistico e via cantando. Per ogni stanziamento pubblico si centellina ogni euro o si penalizzano altre sacrosante voci di spesa (a meno che non si tratti di stanziamenti clientelari, tipo la TAV, o l’Expo, o l’incombente olimpiade a Roma).
La regola è questa, dal momento che ce lo chiede l’Europa; ma le spese militari e in particolare le missioni militari all’estero sono una felice eccezione.
Oggi le missioni militari all’estero sono 25, con impegnati 9153 militari. Il grosso, circa il 70%, da un paio di decenni è di stanza nei Balcani, sparso fra Kossovo, Macedonia, Boznia-Herzegovina e Albania. Un altro 25% è impegnato in iniziative contro il terrorismo internazionale, principalmente in Afghanistan. Il rimanente 25% è variamente distribuito, non si sa bene a quale scopo e con quale utilità, visti i numeri: 48 militari a Malta, 4 in Marocco, 7 in Israele e 12 a Hebron, 78 in Egitto, 51 in Libano eccetera.
Il costo totale, che estrapolo dal decreto di proroga per l’ultimo trimestre 2015, è di circa 1,2 miliardi l’anno, a spanne 130.000 euro annue per ogni militare impegnato.
Questo per quanto riguarda l’esistente, ma l’immediato futuro ci riserva nuove chicche: una missione in Iraq, per presidiare la diga di Mosul, e l’intervento in Libia.
Per la protezione dell’area intorno alla diga di Mosul, i cui lavori di risistemazione sono stati appaltati a un’impresa italiana, si prevedono 450 uomini. Prendendo per buono il costo medio pro-capite (ma trattandosi di area calda è probabile che sia più alto) saremmo intorno ai 60 milioni di euro all’anno. Leggo che il valore dell’appalto è di oltre 2 miliardi di dollari e mi chiedo se nel formulare l’offerta la Trevi abbia tenuto conto del costo della protezione militare, che teoricamente dovrebbe pagare allo Stato Italiano per il tempo dei lavori, dato che – per quanto italiana – è pur sempre un’impresa privata. (Se non fosse così, saremmo davanti a un ulteriore salto qualitativo del dispositivo neoliberista: da “socializzare le perdite e privatizzare i guadagni” a “privatizzare i ricavi e socializzare i costi”).
Mosul è comunque in secondo piano rispetto alla missione in Libia, per la quale abbiamo autorevolmente posto la questione della nostra leadership.
Di primo acchito si parla di un contingente di cento uomini, tra forze speciali e agenti dei servizi segreti, per i quali non è prescritto al governo l’obbligo di passare per il Parlamento. Questo però non basta per una posizione di comando quale l’Italia ha rivendicato: tramite il proprio ambasciatore a Roma gli Stati Uniti ci fanno sapere che in cambio del loro appoggio si aspettano la bellezza di 5000 uomini.
Sempre sulla base di un costo medio pro-capite di 130.000 euro (in questo caso davvero molto ottimista), avremmo altri 650 milioni annui. Ma quello libico è un teatro di conflitto aperto, dove la pace, prima di pensare a mantenerla, è da conquistare, per cui non è irragionevole il dubbio che i costi raddoppino o triplichino, a seconda delle circostanze.
E tuttavia, dal momento che le guerre continuano a essere l’unica voce di spesa in deficit che i nostri decisori considerano giustificata e insindacabile, il problema – qualunque sia l’entità – non si pone.
PS: Quanto precede prescinde dai costi in vite umane, che in termini economici sono poco significativi: per ogni caduto bastano una bara e la bandiera con cui avvolgerla (il costo del rimpatrio si sosterrà comunque, che si tratti di vivi o di morti).
La profonda commozione e riconoscenza del Paese, espressa attraverso le sue più Alte Cariche, è gratis.
Fonte: Blog dell'Autore
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