di Chiara Cruciati
Ieri l'altro la corte di Istanbul ha emesso un ordine di arresto per Ekrem Dumanli, ex redattore di Zaman (quotidiano di opposizione commissariato una settimana fa) con l’accusa di aver insultato il presidente turco Erdogan. Per l’impellenza delle censure più recenti, forse qualcuno se ne era dimenticato ma sul capo di oltre mille accademici turchi pesa ancora il pericolo di finire dietro le sbarre: dall’11 gennaio sono stati aperti 464 fascicoli di inchiesta contro professori universitari colpevoli di aver firmato, quel giorno, una petizione per chiedere la fine delle operazioni militari contro la popolazione kurda.
Due mesi fa 33 di loro erano già finiti in prigione per qualche giorno, per poi essere rilasciati. Ma la ragnatela della censura di Stato ha continuato a intrappolarli: dalla pubblicazione della petizione 9 dei firmatari sono stati licenziati dalle proprie università, 5 hanno lasciato il posto a causa delle incessanti pressioni esterne, 27 sono stati sospesi.
Ad operare, per mano del governo, sono le stesse istituzioni accademiche pubbliche, piegate al volere del sultano. Ma si muovono anche le università private: qui 21 professori sono stati cacciati, uno è stato costretto al pre-pensionamento e 43 sono sotto inchiesta amministrativa.
Agli altri pensa la longa manus della magistratura: 153 procedimenti penali sono già stati aperti, mentre i fascicoli totali di inchiesta contro gli accademici sono 464. Ciò significa che 153 di loro sono già accusati di reati penali, ovvero insulto alle istituzioni dello Stato e propaganda terroristica, crimini per i quali si rischia fino a 5 anni di prigione. Sugli altri si sta investigando.
La petizione incriminata (firmata anche da autorevoli colleghi stranieri, tra cui Noam Chomsky e David Harvey) era stata accolta da 1.128 accademici di 89 diverse università. Dal titolo «Non saremo parte di questo crimine», svelava «il massacro» in corso nel sud est a maggioranza kurda per mano dell’esercito e della polizia.
Quell’operazione è ancora in corso: sebbene alcune campagne locali siano state ufficialmente chiuse, altre sono state aperte. Dall’altra parte del paese a subire le repressione sono le donne, tornate in piazza per l’8 marzo. Il 6 centinaia di donne avevano protestato per le discriminazioni strutturali in ambito economico, sociale e politico: la Turchia è 125° su 140 paesi secondo il Global Gender Gap Index 2014; il tasso di occupazione è solo al 28% (contro il 63% della media europea); e il 40% delle turche denuncia di aver subito violenze domestiche almeno una volta nella vita.
La risposta del governo sono stati i proiettili di gomma. Ankara non era riuscita a impedire le manifestazioni: «Abbiamo sempre detto che non avremmo mai lasciato le strade l’8 marzo e non lo faremo – raccontava una manifestante – Né la polizia né il governo ci fermeranno». Il bilancio finale è stato di una donna arrestata e decine ferite.
Due giorni dopo Istanbul e Ankara sono state presidiate per evitare altre proteste e molte donne hanno reagito con piccoli raggruppamenti nelle strade principali e il lancio di uova e ceretta contro i poliziotti. Intanto il presidente Erdogan celebrava la Giornata della Donna con il più trito dei machismi: «Una donna è prima di tutto una madre».
Una dichiarazione che segue a exploit precedenti: perle come ‘le donne dovrebbero avere almeno tre figli’ o ‘il controllo delle nascite è tradimento’. Ma non si tratta solo di parole: il governo dell’Akp lavora da tempo per intaccare il diritto all’aborto e alla pillola del giorno, mentre non interviene in merito agli abusi di genere.
Fonte: il manifesto
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