di Marco Aime
In un’intervista al Tg1, Matteo Renzi ha detto che «secondo i magistrati il reato in quanto tale non serve, non ha senso e intasa i tribunali, ma è anche vero che c’è una percezione di insicurezza da parte dei cittadini per cui questo percorso di cambiamento delle regole lo faremo con calma, tutti insieme, senza fretta». Era stato preceduto di qualche giorno dal ministro dell’interno Angelino Alfano che sul reato di immigrazione clandestina così si era espresso: «È stato un tentativo di dissuasione, ma non ha funzionato». E pur condividendo le “ragionevoli obiezioni” tecniche del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, il quale sosteneva che si tratta di un dispositivo inutile che intasa le procure senza ottenere risultati (concetto ribadito dal presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio) e quelle “altrettanto ragionevoli” del collega di governo Andrea Orlando, ministro della giustizia, conclude che «non è questo il momento opportuno per andare a modificare quella norma. La gente non capirebbe».
Detto in soldoni, il governo italiano dice che il reato di clandestinità, peraltro già condannato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, è inutile, ma ha deciso di rimandarne l’abolizione per questioni di “opportunità politica”. Il che è come dire a uno straniero appena arrivato: «Guarda, io ti arresto in nome di una legge sbagliata e criminale, tu vai in prigione oppure vieni espulso, sempre in nome di quella legge sbagliata e inutile, ma prima o poi, quando gli italiani saranno pronti, vedrai la cambieremo».
Il cosiddetto reato di clandestinità è la versione “democratica” delle leggi razziali, una vera e propria aberrazione giuridica, che condanna un individuo per ciò che è e non per ciò che ha eventualmente commesso. Il principio delle leggi razziali, tutte le leggi razziali, è lo stesso: discriminare sulla base dell’origine, dell’appartenenza (vera o presunta).
Si fa prevalere, in questo modo, una sorta di diritto naturale, fondato sull’origine, la cui teoria si fonda sull’idea che esistano principi della natura umana eterni e immutabili. Questa concezione presuppone l’esistenza di una e una sola verità assoluta, che esclude ogni altra ipotesi. La verità sarebbe il legame assoluto e indissolubile tra terra e sangue, da cui nasce il diritto di proprietà e di gestione del territorio e della società (“padroni a casa nostra!”) e che non ammette stranieri né altri tipi di diversità. Una realtà che non permette l’accesso a funzioni sociali secondo il merito, partendo da un’eguaglianza di base, ma lo affida allo status.
Era il 1861 quando Henry Sumner Maine teorizzava la transizione tra società di status e società di contratto. Secondo il grande giurista e storico del diritto britannico, nelle prime forme di organizzazione sociale il diritto era inseparabile dalla religione e i rapporti tra gli individui si fondavano sulla loro appartenenza a una determinata famiglia o a un certo gruppo di discendenza, perpetuati attraverso riti solenni e pressoché immutabili. La dissoluzione graduale di questo modello e di questi legami, insieme con l’emergere dell’individuo come personalità giuridica, portarono a una transizione verso società orientate all’autonomia del diritto e fondate sul contratto, cioè su relazioni tra individui liberi, sulla base delle loro attitudini e competenze.
Il passaggio dallo status al contratto coincide con il passaggio da un sistema di regole tribali a uno stato di diritto. Il ritorno allo status è un segno di tribalizzazione.
Fonte: Nigrizia
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