di Paola Rosà
“Colui che continua a provarci”, “Colui che persiste”: da venerdì 4 marzo si chiama anche così l'enigmatico e affabulatore nuovo presidente del Canada, Justin Trudeau, alias Gumistiyi. E forse una parte della verità sul 44 enne figlio d'arte (il padre era stato presidente dal '68 al '79 e dal 1980 al 1984) sta anche nel nome indigeno che gli Tsuu T'ina dell'Alberta gli hanno conferito a poco più di quattro mesi dalle elezioni: liberale e liberista, attento a diritti umani, ambiente, giustizia, ma anche a economia, oleodotti e multinazionali.
“Signor primo ministro – gli ha detto Roy Whitney, capo dei Tsuu T'ina, dopo avergli donato un cappello nero da cow boy, un giubbotto di pelle con frange e perline e un copricapo da guerra fatto di piume d'aquila – la Sua elezione è stata accompagnata per noi da grandi aspettative”.
Aspettative che per i nativi ruotano attorno a un termine forse abusato e in altri contesti ormai logoro, ma relativamente recente e niente affatto retorico se pronunciato sullo sfondo di centinaia di anni di colonialismo e oppressione più o meno cruenta, più o meno legalizzata. Ringraziando per il copricapo simbolo di rispetto, coraggio e amore per la pace, Trudeau ha ripetuto quel termine anche il 4 marzo, nella riserva a sud-ovest di Calgary: “riconciliazione”.
“Non lasciamoci prendere per fessi”
Per la riconciliazione ha lavorato fino allo scorso dicembre la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, creata nel 2009, dopo la storica ammissione di colpa del governo sugli abusi perpetrati per un secolo nei collegi dove furono reclusi 150mila bimbi First Nations, Métis e Inuit, e si tratta di un intento spalmato sulle prossime generazioni: “Serve lo sforzo di tutti per ricucire il rapporto tra i popoli aborigeni e la società canadese – si legge nei documenti prodotti dalla Commissione – la riconciliazione è l'obiettivo che richiederà l'impegno di diverse generazioni”.
Ma benché Trudeau abbia ribadito di voler mantenere la promessa elettorale di rivedere il rapporto con i nativi su basi giuridiche nation to nation, conferendo loro poteri gestionali e di giurisdizione sulle terre, promuovendo la consultazione e la partecipazione, il tutto fondandosi su “amicizia e rispetto”, persistono anche tra gli aborigeni seri dubbi che alle parole seguano i fatti. “Staremo a vedere”, si è limitato a dire il capo Whitney. “Non ci facciamo prendere per fessi”, hanno invece dichiarato altri gruppi sul West Coast Native News, organo online dei “guerrieri” nativi della Costa Ovest, che si mobilitano a difesa del territorio e dei diritti civili: “Non siamo qui a fare richieste, siamo qui a pretendere attenzione”, è il loro motto.
L'occasione è stata la visita di Trudeau a Vancouver il 2 e 3 marzo alle Globe Series, la conferenza biennale sui cambiamenti climatici, quando il presidente ha incontrato i 13 premier delle province e dei territori e, in separata sede, alcuni leader nativi. “Noi non ci facciamo prendere per fessi: due ore di colloqui con il primo ministro non daranno alcun risultato, sono solo la scusa per farsi fare una bella foto”. Perché a farsi immortalare con il presidente sarebbero soggetti proni e inclini al compromesso, indegni di rappresentare i popoli aborigeni, capi eletti secondo il sistema dei coloni e non i Capi Ereditari delle tribù che mai hanno firmato un trattato di sottomissione.
Gli oleodotti che pagano le turbine eoliche
La frattura interna alle First Nations, poco meno di un milione di persone divise in 600 clan e nazioni con una sessantina di lingue, che abitano sia riserve, sia territori ceduti dai vari trattati sia aree mai concesse alla Corona, è servita per decenni a sfruttare le redditizie risorse naturali di cui abbonda il Canada, dai minerali al petrolio, dal gas al legname, a beneficio forse delle singole comunità locali, ma a scapito dell'ambita unità sovranazionale dei nativi. Al pari delle perline di vetro dei commercianti di pellicce, le donazioni delle multinazionali alla gestione del villaggio, la costruzione di una strada, il singolo finanziamento alla scuola o all'ospedale, o anche più miseramente i regalini mirati al capo clan, mere briciole dei ricavi di oleodotti e dighe, non hanno fatto altro che acuire la spaccatura fra le tribù.
“Sono i popoli indigeni a trovarsi in prima linea ed a subire l'impatto dei cambiamenti climatici – ribadiscono i guerrieri della Costa Ovest – e alla radice dei cambiamenti climatici sta il genocidio dei nostri popoli perpetrato da progetti estrattivi approvati da provincia e federazione”. Progetti di cui al summit sull'economia green e i cambiamenti climatici di Vancouver non si è fatta parola. Eppure si tratta di oleodotti, pozzi di fracking, impianti di raffreddamento del gas, mega impianti idroelettrici, dighe, attualmente in fase di approvazione o di costruzione, un mosaico di devastazione che incombe sulla cintura settentrionale della British Columbia, migliaia di chilometri di foreste pressoché intonse, montagne, corsi d'acqua e un litorale oceanico habitat di salmoni e balene.
“Ci hanno solo chiesto di venire a salutare il premier e il primo ministro”, si lamenta il grande capo Tony Alexis a proposito del summit di Vancouver, mentre il leader dei Chipewyan ha platealmente abbandonato l'incontro. Qui non si parla di tutela ambientale e sviluppo sostenibile, qui si parla solo di soldi, avrebbe detto.
L'accento sull'aspetto economico non è sfuggito neppure ai media mainstream, che della conferenza di Vancouver segnalano certo l'intesa con le province sul rinnovo del parco macchine e degli elettrodomestici, ma continuano a chiedersi quale sia la posizione di Trudeau su oleodotti, raffinerie e pozzi approvati dal predecessore: “Vogliamo un'economia a basse emissioni – ha detto il primo ministro – ma per finanziare la transizione dobbiamo continuare a produrre ricchezza dalle nostre abbondanti risorse naturali”. E risorse naturali in Canada significa petrolio e sabbie bituminose. Gli oleodotti pagheranno i pannelli solari? Se lo sono chiesto tutti, chi con sarcasmo, chi con sollievo.
Giochi di parole
Ad occuparsene sarà quello che più schiettamente sauditi, iracheni e anche indiani chiamano “il ministro del petrolio” ma che ad Ottawa si chiama da sempre “ministro delle risorse naturali”. “Il dilemma fra oleodotti e turbine eoliche è un falso problema”, avrebbe detto Trudeau, che ha eluso le domande sugli oleodotti. Gli piace sorprendere, ed è per questo che al suo insediamento, oltre ad aver miscelato gli ingredienti “giusti” per un governo che fa l'occhiolino al mondo progressista (metà donne, un nativo, una rifugiata, un inuit, due sikh), ha ribattezzato il ministero dell'ambiente: “ministero dell'ambiente e dei cambiamenti climatici”. Come si chiama dal 2012 in Romania. Un manifesto impegnativo, ma che si misurerà con la coerenza fra parole e fatti. C'è da augurarsi che non vada come in Italia, dove il gioco lessicale non fa che rendere più amara l'indignazione, se si considera la concomitante decisione del governo italiano di approvare le trivellazioni al largo delle coste da un lato e di adottare la “Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici” dall'altro, documento redatto da quel ministero che da noi si chiama, sic, “dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare”.
Qualche fatto sembra accompagnare le parole di Trudeau sulla politica energetica. Lo scorso gennaio il ministro delle risorse naturali e la ministra di ambiente e cambiamenti climatici hanno annunciato l'implementazione di una nuova procedura di valutazione ambientale per gli oleodotti, infrastrutture che negli anni la Commissione nazionale per l'energia (la NEB) ha approvato per il 98% ignorando le posizioni di ambientalisti e comunità aborigene. Sono 101 le aziende petrolifere che gestiscono i 73mila chilometri di oleodotti monitorati dalla NEB, per un trasporto di 1200 milioni di barili l'anno di greggio oltre al gas; ma i chilometri totali di tubature per la raccolta e il trasporto di prodotti petroliferi sono 825mila. E l'altro enigma che rende Trudeau elusivo per gli uni, pseudoambientalista per gli altri, è il divieto temporaneo di navigazione emesso per le petroliere al largo della costa nordoccidentale, in quelle acque dove dovrebbero approdare gli oleodotti. Ma chi costruirebbe un oleodotto fino alla costa senza poter poi trasportare il petrolio via mare? Un enigma. Come è un enigma il fatto che il divieto sia limitato alle petroliere, implicitamente autorizzando le navi cisterna per il trasporto del gas liquefatto.
Trivelle in attesa
Alla delusione di nativi e ambientalisti fa da contraltare il mugugno delle multinazionali. Secondo indiscrezioni raccolte dal Financial Post, la malese Petronas, capofila di un consorzio che unisce la cinese Sinopec, la Japan Petroleum Exploration Co., l'India Oil Corp. e la Petroleum del Brunei e che investirebbe 36miliardi di dollari per trasportare il gas dei pozzi di fracking della British Columbia nordorientale fino all'Oceano Pacifico, avrebbe dato l'ultimatum: chiarezza entro fine marzo o abbandoniamo il progetto. Tra le infrastrutture previste, oltre a centinaia di chilometri di nuovi gasdotti nella foresta, un terminal marino, cisterne e impianti di raffreddamento da collocare su Lelu Island a sud di Prince Rupert; le 257 pagine della valutazione di impatto ambientale, aperta alle osservazioni fino all'11 marzo, pur contenendo qualche prescrizione, danno il via libera al progetto, su cui tuttavia il gabinetto del presidente ha l'ultima parola. Intanto a Lelu Island i nativi celebrano il sesto mese di occupazione pacifica dell'isola, nell'intento di bloccare l'arrivo dei gasdotti e degli impianti di raffreddamento dell'lng, e 130 scienziati hanno inviato una lettera alla ministra dell'ambiente definendo “scientificamente carente” la valutazione di impatto ambientale e appellandosi al governo perché bocci il progetto. “L'habitat dei salmoni, il secondo più importante in Canada, non sopravvivrà agli scavi, all'illuminazione, ai rumori delle nuove infrastrutture portuali – ha confermato Otto Langer, biologo marino ex consulente del ministero della pesca e degli oceani – Dobbiamo tener lontana l'industria da quest'area”.
Ma il reale freno che ha sospeso la situazione negli ultimi mesi è il calo del prezzo del petrolio. Se infatti è vero che le sabbie bituminose dell'Alberta sono per capacità la terza riserva mondiale di greggio dopo l'Arabia Saudita e il Venezuela, è anche vero che i costi di estrazione sono molto più alti. E la politica saudita dei prezzi, esplicitamente mirata a cacciare dal mercato i produttori ad alto costo, sta funzionando. Per il Canada inoltre, quinto produttore mondiale che nel 2014 esportava il 97% del suo petrolio verso gli Stati Uniti, il boom americano del fracking ha coinciso con un crollo della domanda estera. Nel 2015 solo in Alberta si sono persi 58mila posti di lavoro, 10mila a gennaio 2016. Di qui la ricerca di nuovi mercati, tramite l'imbarco di petrolio e gas liquefatto dalle coste del Pacifico. A un migliaio di chilometri ad ovest dei pozzi. Destinazione Cina.
“Concordiamo sull'importanza e sull'urgenza di immettere sul mercato le risorse del Canada con metodi responsabili, puntuali, prevedibili e sostenibili, che godano della fiducia dei canadesi, che siano supportati da valutazioni di impatto ambientale scientificamente solide condotte entro cornici giuridiche esistenti e che contribuiscano alla crescita economica di lungo periodo e alla creazione di posti di lavoro”: tra tutti i documenti e le dichiarazioni e le carte sottoscritte da premier e presidente in occasione della Dichiarazione di Vancouver su crescita economica sostenibile e cambiamenti climatici, questo è forse l'accenno più esplicito agli oleodotti.
Gli accademici alzano la voce
Ad appellarsi a Trudeau perché blocchi le decine di progetti di oleodotti e raffinerie e pozzi di fracking e pontili e cisterne di raffreddamento del gas, sono anche gli accademici di Sustainable Canada Dialogues, una piattaforma di scienziati canadesi attivi in diverse discipline a favore della sostenibilità: oltre che a devastanti implicazioni ambientali, sostengono in una lettera aperta indirizzata a Trudeau all'inizio di marzo, l'insistenza sui combustibili fossili porterebbe alla rovina economica; le enormi potenzialità del Canada nel solare e nell'eolico dovrebbero affossare ogni ipotesi di espansione di sfruttamento delle sabbie bituminose dell'Alberta. Nel complesso, ricordano gli accademici, il Canada ha approvato e proposto oleodotti per ulteriori vendite di sabbie bituminose pari a 2 milioni e 300mila barili al giorno (quasi un raddoppio della produzione) per un costo totale di 27,6 miliardi di dollari canadesi. Ma per riempire i nuovi oleodotti bisognerebbe costruire nuovi impianti di estrazione per un costo minimo stimato di 92 miliardi. Mentre il mercato dell'auto elettrica è in espansione e nel giro di 5-10 anni la domanda di petrolio cadrà inevitabilmente. “Un investimento multimiliardario in oleodotti non è quello di cui il Canada, né nessuna provincia, ha bisogno”. Non siamo più nel decennio di Stephen Harper.
Il momento è delicatissimo e decisivo. E tutto sembra come sospeso: le occupazioni dei nativi a presidiare i boschi e la costa, le procedure di autorizzazione degli oleodotti a languire nei cassetti, i cantieri di disboscamento in attesa di un rialzo del prezzo del petrolio. C'è chi definisce Trudeau nient'altro che un Harper 2.0; altri invece ne apprezzano il coraggio, ricordando come il predecessore avesse definito l'accordo di Kyoto un “complotto socialista”. “Un altro mandato dei conservatori di Stephen Harper – scriveva Naomi Klein sul Guardian lo scorso ottobre in un appello al voto – è la garanzia che il modello canadese di vandalismo climatico arriverà ad un punto di non ritorno”.
A quel punto non si è arrivati. Ma nessuno ancora sa dove si stia andando. E mentre il presidente “che continua a provarci” promuove a parole il suo manifesto per il dialogo con i nativi e la svolta green in economia, senza pronunciare un esplicito no al reticolo di nuove condutture e impianti, a solidarizzare con gli Unist'ot'en del presidio anti-Enbridge ci ha pensato Naomi Klein, facendosi immortalare accanto alla battagliera Freda Huson che contro gli oleodotti ha costruito la sua casa nel bosco.
Questo articolo è il primo di una serie di approfondimenti, a cura di Paola Rosà, sullo sfruttamento delle risorse energetiche in Canada e sul prevedibile raddoppio della produzione petrolifera e le conseguenti devastazioni che colpiranno il Nord-Ovest del Paese. Il Canada è il secondo Paese più esteso al mondo, dopo la Russia, e conta poco più di 35 milioni di abitanti, concentrati per oltre la metà in Ontario e Quebec. Le cifre del petrolio. Il Canada possiede riserve petrolifere stimate in 171 miliardi di barili, di cui oltre 166 miliardi nelle sabbie bituminose dell'Alberta. Si tratta del 10% delle riserve mondiali, al terzo posto dopo Arabia Saudita e Venezuela. Il Paese è il quinto produttore mondiale con una produzione che nel 2014 ammontava a 3,8 milioni di barili al giorno. Le sabbie bituminose sono estratte in due modi: in-situ (sotto i 75 metri di profondità), per l'80% della produzione attuale, con lo scavo di due pozzi orizzontali e l'iniezione di vapore, e open pit (a cielo aperto), con l'utilizzo di camion e pale e l'aggiunta di acqua calda. Il nucleare. Dei 22 reattori nucleari costruiti in Canada, 19 sono attualmente operativi; 18 sono in Ontario, uno nel New Brunswick. Il Quebec ha deciso di chiudere la propria centrale nel dicembre 2012. Dal nucleare deriva il 15% della produzione nazionale di energia elettrica. Il Paese è il secondo produttore al mondo di uranio. Paola Rosà traduttrice dal tedesco, giornalista professionista, ha lavorato per il quotidiano l'Adige, Radio Dolomiti e per i programmi radiofonici di Rai Trento. Con Antonio Senter ha realizzato alcuni documentari ambientati in Canada e USA.
Fonte: Global Project
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