di Federico Fornaro
Il povero pareva essere una categoria in via d’estinzione nelle opulente società occidentali. È bastata,però, la lunga recessione da cui stiamo lentamente uscendo, per far tornare d'attualità il tema della povertà in Italia. I dati spiegano più di tante parole, con l’unica premessa che secondo le statistiche ufficiali si considera in povertà assoluta chi vive in una famiglia che ha una spesa per consumi inferiore al valore di un paniere di beni e servizi ritenuto essenziale per vivere in modo dignitoso.
Nel nostro Paese, infatti, il numero di persone in povertà assoluta è più che raddoppiato in 7 anni di crisi, passando da 1,8 milioni (3,1% della popolazione) del 2007 a 4,1 milioni (6,8%) del 2014. Erano 823.000 le famiglie povere nel 2007, nel 2014 sono 1.470.000.
Unico dato positivo, stando alle rilevazioni dell'Istat, è il lieve miglioramento della situazione che si registra nel 2014 rispetto all'anno precedente: circa 300.000 italiani sono usciti dalla povertà assoluta.
La distribuzione territoriale vede un’incidenza di povertà assoluta simile tra il Nord (5,7% della popolazione) e il Centro (5,5%), mentre il Mezzogiorno si attesta al 9,0 per cento. Un indice che drammaticamente sale nelle famiglie con cinque o più componenti, al 16,4 per cento.
Questi sette anni di recessione hanno, poi, profondamente mutato il volto della povertà. Infatti, se prima della crisi la questione era circoscritta ad alcune aree del Meridione, oggi interessa anche le regioni settentrionali; la criticità non riguarda più solo gli anziani ma anche i giovani, e, soprattutto, ad essere toccati non sono più coloro che non hanno un lavoro, ma anche persone che hanno una occupazione.
Se l'incidenza della povertà assoluta pre-crisi (2007), infatti, era tra i dipendenti all'1,1%, nel 2014 è quintuplicata: 5,5 per cento. Tra i dirigenti/impiegati si passa in sette anni dallo 0,2% all’1,6%, tra gli operai dall’1,7% al 9,6%, mentre tra i disoccupati dal 7 al 15,7 per cento.
Di fronte alla materializzazione di questo fantasma, il nuovo povero, che si aggira nella nostra società, la risposta dello Stato è stata quella di sacrificare sull'altare del risanamento e dell’austerity proprio i fondi nazionali per le politiche sociali che nel 2008 ammontavano a 3,169 miliardi di euro e nel 2015 sono stati pari a 1,234 miliardi di euro, anno in cui peraltro il governo Renzi ha significativamente aumentato gli stanziamenti rispetto ai 984 milioni di euro del 2014.
Come osservano giustamente gli economisti Massimo Baldini e Stefano Toso in un interessante saggio pubblicato nel rapporto 2015 sulla Finanza pubblica italiana (Il Mulino), la spesa italiana per la protezione sociale (455 miliardi di euro nel 2014, pari al 29% del Pil) è in linea con quella dell'area euro, ma «malgrado la crisi abbia provocato un forte incremento della diffusione e dell'intensità della povertà, soprattutto tra i giovani, la composizione della spesa sociale non è cambiata a favore delle voci relative a famiglia, housing ed esclusione sociale (questi tre gruppi di benefici occupavano il 4,9% della spesa sociale nel 2007, il 5,1% cinque anni dopo)».
L'Italia, da molto tempo,infatti, spende più della media europea solo in pensioni e reversibilità, meno in tutte le altre componenti della spesa sociale, sanità compresa.
Anche l’intervento straordinario del bonus degli 80 euro (costo: 9,5 miliardi di euro) non è stato pensato dal governo come uno strumento di contrasto alla povertà, ma per restituire alle classi medie una parte del potere d'acquisto perduto negli ultimi anni.
L'Italia, insieme alla Grecia, detiene, inoltre, il triste primato di essere l’unico Paese dell'Europa a 15 a non aver introdotto una misura nazionale contro la povertà,attivata, ad esempio, nel Regno Unito dal lontano 1948 e nella Svezia dal 1956.
In definitiva, questi dati fotografano un vero e proprio terremoto che ha investito la società italiana.
Una devastazione del tessuto sociale a cui la politica tradizionale ha risposto con misure largamente insufficienti a contrastare strutturalmente la diffusione del fenomeno, con territori e persone che mai avrebbero immaginato di esserne un giorno interessati e anche per questo più fragili e indifesi.
Sono dati che aiutano a comprendere anche il livello di rabbia che si materializza nelle elezioni nella crescita, in alcuni casi abnorme, dell’astensionismo e l'aumento nei sondaggi del consenso al Movimento 5 Stelle, che, forse non a caso, ha fondato buona parte della sua proposta (e del suo successo) in materia economico-sociale proprio sul reddito di cittadinanza.
Fonte: Linkiesta
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