di Gianni Silvestrini
La Conferenza sul clima di Parigi si è cautelata rispetto al rischio di un fallimento analogo a quello registrato a Copenaghen nel 2009, quando si era cercato senza successo di estendere lo sforzo di contenimento delle emissioni climalteranti a tutti i paesi del pianeta. Questa volta, infatti, è stata prevista l’individuazione di obiettivi climatici da parte dei singoli paesi prima dell’appuntamento delle Nazioni Unite, obbligando in questo modo a compiere uno sforzo di analisi e di proposte. Un criterio bottom-up che ha portato necessariamente ad approcci molto diversi tra loro. I piani più rigorosi, come quelli dell’Europa e degli Usa, indicano riduzioni assolute delle emissioni, mentre in quelli di molti paesi in via di sviluppo sono previste riduzioni rispetto ad uno scenario tendenziale condizionate all’ottenimento di risorse finanziarie. Ma è un fatto che 181 paesi hanno definito un percorso che potrebbe consentire di limitare a 2,7 °C l’aumento di temperatura rispetto al periodo preindustriale. Siamo ancora distanti dalla definizione di sforzi coerenti con uno scenario che eviti di sorpassare i 2 °C, ma si intravvede finalmente un cammino globale di controllo delle emissioni.
Ricordiamo che i 36 paesi industrializzati che avevano ratificato il Protocollo di Kyoto rappresentavano solo il 24% delle emissioni mondiali nel 2010, mentre a Parigi sono coinvolti praticamente tutte le nazioni.
Ricordiamo che i 36 paesi industrializzati che avevano ratificato il Protocollo di Kyoto rappresentavano solo il 24% delle emissioni mondiali nel 2010, mentre a Parigi sono coinvolti praticamente tutte le nazioni.
Un passaggio questo indispensabile, anche perché sul fronte delle emissioni la situazione è rapidamente cambiata. La sola Cina è cresciuta tra il 1990 e oggi dal 10% al 30% del totale mondiale. Le 10,6 miliardi di tonnellate di CO2 cinesi equivalgono ai contributi di Usa, UE e Russia messi insieme, pari rispettivamente pari al 15, 10 e 5 per cento del totale (Fig. 1). Da qui l’urgenza di arrivare ad un accordo che riguardi tutti i paesi del pianeta.
Il processo che ha portato alla Conferenza, pur caratterizzato da obiettivi disomogenei, ambiguità di fondo e assenza di impegni quadro vincolanti, rappresenta un punto di svolta. E’ probabile che, anche a seguito dell’aggravamento della crisi climatica e al successo delle politiche di riduzione, nell’arco del prossimo decennio saranno adottati obiettivi progressivamente più incisivi.
Del resto, la situazione sta già cambiando. Dopo un decennio con tassi di crescita annuali delle emissioni di anidride carbonica del 4%, nel 2012 e 2013 l’incremento si è ridotto all’1% e lo scorso anno, a fronte di un aumento del PIL mondiale del 3% la crescita della CO2 è quasi cessata. Dunque, stiamo assistendo ad un disaccoppiamento tra crescita economica ed emissioni, il che fa sperare che si riesca a raggiungere il picco dei gas climalteranti già nei primi anni del prossimo decennio.
Tanto più che diverse analisi (come descritto nel libro “2 °C”) fanno ritenere che la decarbonizzazione di importanti economie verrà facilitata dall’irruzione di “disruptive technologies”, tecnologie come il fotovoltaico o i veicoli elettrici che hanno o avranno effetti dirompenti nei loro comparti.
Prendiamo il caso della Cina che si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni nel 2030. La rapidità dei cambiamenti in atto, con il consumo di carbone che non è cresciuto nel 2014 ed è calato quest’anno, consentirà probabilmente di anticipare la riduzione delle emissioni climalteranti già tra il 2020 e il 2025. L’accelerazione in atto, con la chiusura di centrali a carbone, è visibile anche in altri settori dell’economia cinese. Basti pensare alla proposta di realizzare punti di ricarica elettrica in tutti i nuovi edifici per facilitare la gestione di 5 milioni di auto elettriche al 2020 o ai 9,5 GW fotovoltaici installati nei primi nove mesi del 2015, con un incremento del 161% rispetto all’anno precedente.
L’altro paese che sta dimostrando un notevole attivismo sono gli Usa di Obama. Per raggiungere i propri obiettivi climatici, una riduzione del 26-28% delle emissioni al 2025 rispetto ai livelli del 2005, la riduzione dell’intensità di carbonio (emissioni per unità di Pil) dovrà essere analoga a quella dell’Europa (Fig. 2). Occorre dunque un’accelerazione delle politiche di riduzione da ottenere al di fuori del Congresso a maggioranza repubblicana. E l’Epa, il ministero dell’ambiente, si sta muovendo con grande abilità, come dimostra il programma mirato al comparto elettrico, che prevede un taglio del 32% delle emissioni di CO2 al 2030 rispetto al 2005, un obiettivo che comporterà la chiusura di decine di centrali a carbone.
Una decisa spinta alle politiche climatiche viene anche dalle scelte dei singoli Stati. Sia la California che New York hanno deciso di soddisfare la metà dei consumi elettrici con le rinnovabili al 2030, il Vermont punta al 75% di elettricità verde al 2032 e le Hawaii vogliono eliminare completamente i fossili dalla generazione elettrica entro il 2045.
Se la Cina e gli Usa corrono, l’Europa sconta invece una fase di incertezze.
E’ vero che la UE si è data l’obiettivo più ambizioso al 2030, con una riduzione delle emissioni dei gas climalteranti del 40% rispetto al 1990 in uno scenario che dovrebbe portare ad un taglio dell’80% al 2050 (Fig. 3). Ma i due impegni collaterali, il soddisfacimento del 27% dei consumi finali con le rinnovabili e la riduzione del fabbisogno di energia del 27% rispetto allo scenario tendenziale, sono in realtà poco ambiziosi tanto che il Parlamento europeo lo scorso 14 ottobre ha adottato una risoluzione per richiederne un innalzamento.
E’ giusto comunque ricordare che l’attuale corsa delle rinnovabili, con la nuova potenza elettrica verde che ormai supera su scala mondiale quella delle nuove centrali termoelettriche, si è avviata proprio grazie alla creazione di un forte mercato e al conseguente drastico abbattimento dei prezzi innescato proprio dagli obiettivi europei al 2020. Particolarmente significativo il caso dei moduli fotovoltaici che negli ultimi cinque anni hanno visto una riduzione del 75% dei prezzi. Una tecnologia, quella solare, che in Italia consente di immettere in rete il 9% della produzione nazionale, un record mondiale.
La corsa europea, che ha subito una battuta d’arresto negli ultimi anni, molto probabilmente riprenderà con forza proprio in relazione agli obiettivi climatici. Un’accelerazione già prevista dagli Stati di punta come Danimarca e Svezia che puntano ad essere completamente “fossil free” anche nei trasporti e negli usi termici entro la metà del secolo.
Oltre ad un rilancio delle rinnovabili, la prossima sfida per l’Europa sarà quella di aggredire gli enormi sprechi che caratterizzano una parte cospicua del parco edilizio. Si tratta di trovare strumenti finanziari che consentano di intervenire sugli interi edifici riducendo i consumi del 60-80% e di riqualificare il comparto edile in modo da consentirgli di fornire risposte adeguate, ridurre i costi e abbreviare i tempi. Anche in questo settore dobbiamo aspettarci sorprese, come ci ricorda l’esperienza olandese Energiesprong di industrializzazione del retrofit che ha consentito di riqualificare le case in una sola settimana tagliando i costi del 40%.
Allargando lo sguardo su scala mondiale si riscontra un nuovo attivismo per contrastare l’aumento delle emissioni che, peraltro, dovrebbe accelerarsi dopo Parigi. Il numero dei paesi che iniziano ad impegnarsi seriamente cresce costantemente.
Nel 2014 gli investimenti per il clima sono stati pari a 391 miliardi di dollari, +18% sull’anno precedente, una cifra che dovrebbe però incrementarsi di due volte e mezzo per garantire un ritmo annuo di decarbonizzazione coerente con l’obiettivo di 2 °C. Non arriveremo subito a questi numeri, ma è certo che nei prossimi anni la partita del clima determinerà profondi cambiamenti in tutto il mondo destinati a trasformare la generazione di energia, i trasporti, l’edilizia, l’industria e l’agricoltura.
Articolo pubblicato da duegradi.it
Fonte: sbilanciamoci.info
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