La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 28 dicembre 2015

Acqua, come si uccide la democrazia

di Andrea Muehlebach
Il 28 novembre 2015, più di 5.000 manifestanti campani hanno partecipato a un’imponente manifestazione nel centro di Napoli. Si trattava di attivisti per il diritto all’acqua pubblica, ambientalisti, sindacalisti e lavoratori di Napoli Abc (l‘azienda idrica pubblica Napoli Acqua Bene Comune). Essi volevano esprimere dissenso su di una legge recentemente promulgata dalla Regione Campania mirante a centralizzare il management delle risorse idriche locali e a porre le basi per la loro futura privatizzazione. In effetti, non era la prima volta che i cittadini campani manifestavano disaccordo nei confronti della privatizzazione dell’acqua.Negli ultimi anni, le piazze napoletane hanno assistito a diverse manifestazioni contro Gori spa, un’azienda a capitale misto pubblico-privato che, amministrando il servizio idrico in 76 Comuni Campani, è stata responsabile del recente impennarsi dei costi dell’acqua in bolletta, così come dei distacchi nelle case di coloro i quali non riuscivano a sostenere questi aumenti.
Durante la manifestazione, non colpiva solamente la presenza del sindaco di Napoli Luigi De Magistris, quanto il fatto che più di trenta sindaci campani partecipassero alla protesta marciando spalla a spalla con i dimostranti. Fin dal 2013, questi sindaci avevano costituito un network per coordinare il proprio comune dissenso nei confronti della privatizzazione delle acque, ed il loro impegno a realizzarne una gestione pubblica e partecipativa. Le fasce tricolore in mostra, i sindaci marciavano con i corrispettivi gonfaloni, sui quali campeggiavano corone dorate. Ricamate a guisa di mura cittadine, esse costituivano simboli potenti non solo di sovranità comunale, ma anche del ruolo di difensori e garanti del benessere collettivo svolto dai Comuni nei confronti delle proprie cittadinanze.
Cosa ha spinto un numero crescente di sindaci a supportare un così tante manifestazioni negli ultimi anni in Italia? Cosa ci suggerisce ciò in un’epoca caratterizzata da intensi processi di de-democratizzazione? Il proliferare dei “sindaci di protesta” è sintomo di cambiamenti radicali nel campo dell’azione politica. Questo fenomeno ci pone provocatoriamente davanti a diversi questioni cruciali. Chi può definirsi oggi come vero rappresentante del demos? Come si può continuare a “far politica” in un contesto dove i parametri d’azione politica sono radicalmente contratti e le leggi sono diventate strumenti di spoliazione? I “sindaci di protesta” rappresentano un concetto didemos che è diametralmente opposto a quello, imposto dall’alto, di res publica neoliberista. Essi infatti rappresentano il volto “prossimo” dello Stato, in opposizione ad altre e più distanti istituzioni, che molti Italiani ritengono oramai compromesse dal connesse al capitale finanziario. Il movimento in difesa dell’acqua pubblica riesce quindi ad aprirci gli occhi non solo riguardo al profondo smantellamento della democrazia operanti in seno alla sfera pubblica Italiana, ma anche riguardo alle circoscritte possibilità di azione politica dal basso rimaste disponibili ai cittadini. Questo movimento, come ha recentemente scritto la filosofa politica Wendy Brown, ci rivela anche che la democrazia occidentale non è mai una conquista permanente. La democrazia si può perdere[1].
Rivoluzione
Nel 2011 gli italiani hanno espresso parere negativo alla privatizzazione delle acque per mezzo di un referendum richiesto da una delle coalizioni più ampie nella storia del paese. Migliaia di comitati di territorio, Onlus, sindacati, legali, e la Chiesa Cattolica si sono uniti in protesta non solo contro l’assottigliamento compulsivo e la privatizzazione dei servizi pubblici locali, e di quelli idrici nello specifico, ma anche contro il 7 per cento di ritorno garantito agli investitori privati operanti in quel settore determinato per legge dal Decreto Ronchi del 2009. Per mezzo di un’azione che non ha precedenti, 27 milioni di Italiani (ben il 95 per cento dei votanti) ha respinto l’idea che l’acqua fosse una merce, insistendo che il patrimonio idrico fosse un bene comune da amministrarsi democraticamente e fuori da logiche di profitto. Non a caso, lo slogan principale del movimento referendario era: “Si scrive acqua, si legge democrazia“.
Il referendum del 2011 non è stato un evento storico di portata inaudita semplicemente perché la maggioranza assoluta degli italiani aveva definito l’acqua come un bene comune, quanto piuttosto perché aveva reso visibile la volontà del demos; cioè la volontà del popolo, il quale si era espresso contro il vacuo rumore di fondo delle logiche di mercato. Il referendum aveva dato spazio al popolo sovrano sulla scena nazionale: un popolo che parlava all’unisono riguardo al tema dei beni comuni. In quel periodo, infatti, il governo svendeva una parte cospicua dei propri asset strategici. I grandi colossi pubblici dell’industria nostrana operanti nei settori dell’elettricità, del gas, del trasporto ferroviario, delle telecomunicazioni e delle autostrade (tutti “sinonimi del concetto stesso di cittadinanza”) venivano parzialmente privatizzati o liquidati sul mercato.[2] Nel 2008 l’Italia era la seconda nazione al mondo dopo il Regno Unito per capitale generato dalla privatizzazione del demanio pubblico. In questo contesto, il demos, forte del supporto simbolico di “sorella acqua”, urlava a squarciagola: “Adesso basta!“.
Contro-rivoluzione
Quattro anni dopo il referendum, è ormai chiaro che né la classe politica Italiana né quella Europea avevano intenzione di onorarne il risultato, nonostante la legge preveda che i risultati dei referendum vengano rispettati dal legislatore. La rivoluzione dal basso era stata scongiurata da una contro-rivoluzione dall’alto, la quale aveva cercato di uccidere il demos ed il potente messaggio di cui era foriero. Subito dopo il risultato referendario, la Bce richiese con urgenza all’Italia una “piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali” per mezzo di privatizzazioni di larga scala. La Commissione Europea fece inoltre pressioni in merito mediante il rapporto all’Eurogruppo del 29 novembre 2011. Entrambi gli enti europei avevano ignorato il risultato referendario che aveva scosso l’Italia solo un paio di mesi prima[3]. Il governo rispose all’Europa assegnando all’Autorità Nazionale per l’Energia, il Gas ed il Sistema Idrico (Aeeg) il compito di calcolare il prezzo dell’acqua. Il fronte referendario manifestò immediatamente il proprio dissenso contro la complessa formula matematica prodotta a tale scopo dall’Aeeg, in quanto essa reintroduceva un margine di profitto garantito calcolando il prezzo dell’acqua con metodi simili a quelli precedenti. L’unica differenza era che questi venivano ora chiamati “rimborsi per gli oneri finanziari”[4]. Il governo promulgò inoltre una gran quantità (51 dal 2008, di cui 24 solo nel 2011) di Decreti Legislativi (non sottoponibili quindi a dibattito parlamentare) riguardanti la gestione delle acque[5]. Infarcite dalla consueta retorica neoliberista a base di efficienza e (in modo crescente) emergenza e urgenza, queste leggi, e la velocità con la quale venivano promulgate, mostravano come i ritmi frenetici del mercato finanziario potessero facilmente tradursi in delirio legislativo compulsivo, ed in efficace strumento di spoliazione sociale. Basti pensare al Decreto Legislativo 138/2011 dell’allora Governo Berlusconi mirante a ri-privatizzare svariati servizi pubblici locali, ed immediatamente respinto dalla Corte Costituzionale perchè contraddiceva il risultato referendario.
Più recentemente e in modo più sottile, il governo Renzi ha promulgato un serie di leggi che non obbligano i Comuni a privatizzare alcunché, ma che creano condizioni fiscali ed amministrative che li inducono a privatizzare, mercificare e finanziarizzare l’acqua attraverso altri mezzi. La Legge di Stabilità del 2014, come spiega il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua Bene Comune, prosegue la strategia dei bilanci bloccati tracciata dal Patto di Stabilità Europeo. Applicata ad amministrazioni post-referendarie già affamate dall’austerity, questa legge le condanna a non potersi permettere di investire in quote del proprio patrimonio idrico anche qualora decidessero di farlo. La Legge di Stabilità limita l’affidamento “in house” dell’acqua, rendendolo oneroso per gli enti locali. Al contempo, favorisce le privatizzazioni incentivando la cessione di quote del patrimonio idrico ai privati e, più in generale, le operazioni di fusione finanziaria in merito. Questa legge ostacola la ri-municipalizzazione dei servizi pubblici obbligando i Comuni ad cedere a gestori privati (o in via di privatizzazione) le risorse destinate alla loro erogazione, e incentivando la vendita delle quote di gestione ancora in loro possesso ad aziende private o a capitale misto pubblico-privato. I Comuni che, nonostante ciò, si ostinano a mantenere un approccio pubblico all’acqua sono obbligati a mettere da parte in anticipo una somma di denaro pari agli investimenti da loro preventivati nel settore per i successivi tre anni. Una richiesta assurda in tempi di austerity. La Legge di Stabilità vieta inoltre che i Comuni utilizzino i profitti della vendita delle proprie quote di gestione per riacquisire quote di ulteriori servizi allo scopo di ristabilire nel lungo corso forme di controllo pubblico su di essi.[6]
Neoliberismo autoritario
C’è dell’altro. La legge Sblocca Italia del 2014 ha inaugurato una fase di ri-centralizzazione amministrativa che segna una svolta rispetto alle riforme neoliberiste promulgate in Italia negli ultimi venti anni, le quali promettevano ampie “autonomie” locali nel nome della decentralizzazione, della devoluzione e della sussidiarietà. Nel campo della gestione delle risorse naturali, l’Italia è testimone di una nuova cultura politica di stampo neoliberista e autoritario, la quale rappresenta il palcoscenico sul quale lo Stato e le aziende sue alleate mettono in scena il loro pugno di ferro sul patrimonio idrico nazionale. Un’ulteriore legge del 1994 promuoveva la decentralizzazione e la gestione democratica delle acque, creando dei distretti per il management del patrimonio idrico locale (gli Ato) sotto la gestione di comitati composti dai sindaci dei territori coinvolti. Nell’ultimo ventennio, i sindaci sono stati quindi protagonisti del coordinamento delle risorse idriche, della loro eventuale cessioni ai privati, dei fondi europei in merito e dell’elezione dei direttori degli Ato stessi. In tal senso, gli Ato preservavano una qualche forma di legittimità democratica. Venti anni dopo, la Sblocca Italia limita radicalmente il ruolo dei sindaci. In Campania, il presidente Regionale Vincenzo De Luca (il quale è stato dichiarato inadatto a svolgere pubblici incarichi dalla Commissione Parlamentare Anti-Mafia), ha di recente varato una Legge Regionale che riduce il potere degli Ato accorpandoli in un unico ente amministrativo (l’Ente Idrico Campano); una legge precedentemente proposta dal-Presidente Regionale Stefano Caldoro e già bloccata dai movimenti. Questo ente controllerà tutte le sorgenti, i piani strategici di gestione e l’amministrazione dei fondi regionali, nazionali, ed europei erogati in merito. L’Ente Idrico Campano determinerà anche il prezzo e l’affidamento delle gestioni a soggetti esterni. Gli attivisti per il diritto all’acqua pubblica mobilitatisi per opporsi a questa legge temono giustamente che questo nuovo autoritarismo neoliberista (“La Regione si sta comportando come un reuccio”, mi ha detto significativamente un attivista) venga accompagnato dal tentativo di monopolizzare l’acqua da parte di holding ormai talmente potenti da poter competere sul mercato globale. Durante la manifestazione di novembre, così come nelle altre da essi organizzate in precedenza, i sindaci hanno potuto criticare pubblicamente la loro mancanza di sovranità. Le attuali politiche di centralizzazione della gestione delle risorse naturali impediscono loro infatti di influire sul prezzo dell’acqua, sui distacchi, e persino sui lavori infrastrutturali realizzati in merito sui loro territori[7].
Le politiche neoliberiste e l’autoritarismo legalizzato non arrivano mai da soli. Vengono assai spesso accompagnati dalla polizia. Napoli, dove le acque sono gestite dall’azienda pubblica Napoli Abc (“Napoli, Acqua Bene Comune”), è l’unica metropoli italiana che ha ri-municipalizzato il proprio servizio idrico allo scopo di allestirne una gestione democratica e partecipativa. Negli ultimi mesi Napoli Abc è stata soggetta ad attacchi sistematici dall’alto: visite multiple da parte di Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate, pubblici ministeri, e finanche dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Nonostante le innumerevoli accuse, l’azienda pubblica non è mai stata dichiarata colpevole di alcun crimine in sede processuale.
Sindaci di protesta
Una delle più importanti eredità della stagione referendaria è stata la costituzione di una legione di Comitati per la difesa dell’acqua pubblica sparsi in tutta Italia. Negli anni, questi Comitati hanno acquisito una conoscenza profonda delle pratiche neoliberiste e dei processi di de-democratizzazione caratterizzanti la gestione dell’acqua in Italia. I Comitati per l’acqua pubblica di Castellammare di Stabia, Casalnuovo, Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Roccapiemonte e molti altri che si battono contro la Gori spa rappresentano ciò che rimane di quel demos che ancora oggi crede nella politica, spesso rivolgendosi ad essa sul piano locale tramite la mediazione dei sindaci. Questi sono per definizione i rappresentati dello Stato più “vicini” ai cittadini, nonché quelli più facilmente avvicinabili dato che essi vivono all’interno delle comunità che sono chiamati a rappresentare istituzionalmente. Molti sindaci sono stati risorse chiave del movimento per l’acqua pubblica sin dai tempi del referendum[8]; e continuano ad esserlo dal momento in cui ancora prendono posizioni forti in merito. I movimenti per l’acqua pubblica, per esempio, hanno organizzato una serie di eventi chiave durante lo scorso anno, i quali sono culminati nella costituzione di una Rete per la Difesa delle Sorgenti Idriche e in una Dichiarazione di Napoli per il Diritto all’Acqua, ormai firmata da una cinquantina di sindaci. Per questo i sindaci di protesta rappresentano un fenomeno inusuale e pieno di significato: la loro radicalizzazione è sintomo di un corpo politico e democratico in stato di malattia.
I sindaci, specialmente nei piccoli paesi, sono ovviamente sempre state figure politiche complesse in grado di mediare fra poteri forti e richieste politiche dal basso. In un contesto di smantellamento radicale della democrazia, essi sono stati oggetto di ulteriori pressioni, che ne hanno reso il ruolo ancora più complesso ed, a tratti, contraddittorio. Messi in ginocchio finanziariamente dalle politiche diausterity, e quindi incapaci di ottemperare pienamente al loro mandato (specialmente nel Mezzogiorno, dove il degrado diffuso di infrastrutture e servizi non li ha certo aiutati), i sindaci sono diventati tanto l’ultima ruota del carro di un sistema democratico in crisi, quanto l’ultima risorsa di pressione politica a disposizione dei cittadini. Non vorrei essere fraintesa: non tutti i sindaci sono eroi. Molti sindaci si fanno letteralmente trascinare per l’orecchio dai cittadini quando si tratta di difendere il loro diritto all’acqua pubblica. Ma è proprio questo il punto. Volenti o nolenti, i sindaci sono rimasti gli unici rappresentanti politici a poter servire i cittadini quali garanti del risultato referendario. Il fatto che essi vengano messi in panchina sul piano decisionale rappresenta una tragedia democratica. Questa tendenza espropria le comunità locali di uno dei pochi poteri ancora rimasti loro: di avere la facoltà di ritenere i propri sindaci responsabili della cosa pubblica.
I sindaci campani hanno tentato di riaffermare il proprio ruolo politico in modo performativo, ricorrendo ad atti di rilevanza sia materiale che simbolica. Per esempio, molti sindaci hanno promulgato ordinanze che vietano distacchi, altrimenti in aumento vertiginoso nel resto del paese (mentre essi rimangono illegali in altri paesi come la Francia ed il Regno Unito). Ciononostante, una serie di sentenze da parte delle Corti Amministrative del Lazio, hanno decretato che i sindaci non possiedono il diritto di prendere decisioni autonome in questo senso; cosa che ha ridotto ulteriormente lo spazio di manovra rimasto loro nel campo della gestione idrica. In questo senso, molti attivisti temono che queste sentenze causeranno un effetto domino sulla capacità dei sindaci italiani di garantire alle proprie cittadinanze anche solo quell’unica ultima preziosa risorsa; l’acqua.
Le politiche idriche italiane rivelano quindi in modo acuto una delle crisi cardine dei nostri tempi: quella della legittimità delle istituzioni di governo. Questa ci spinge a mettere in discussione non solo i ruoli e gli spazi di manovra rimasti alla sovranità popolare garantita dalla Costituzione, ma anche i concetti stessi di legge e legalità. È nostro dovere chiederci come siamo arrivati al punto in cui la democrazia e l’economia, con le sue smanie di efficienza ed emergenza permanente, sembrino antitetiche l’una all’altra, e come l’ordinamento democratico, inteso nella sua accezione greca di “potere del popolo”, possa essere riconquistato. 

Andrea Muehlebach, docente di Antropologia Culturale presso la Università di Toronto in Canada, ha seguito alcune iniziative del movimento per l’acqua, tra cui l’Agorà dell’acqua e dei beni comuni e la manifestazione di Napoli del 28 novembre.

[1] Wendy Brown. 2015. Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution. New York: Zone Books.

[2] Marotta, Sergio. 2014. On the Critical Relationship between Citizenship and Governance: the Case of Water Management in Italy. Urbanities 4(2): 40.

[3] Andreas Biehler 2015. “Sic Nos Non Vobis.” The Struggle for Public Water in Italy. Available at http://monthlyreview.org/2015/10/01/sic-vos-non-vobis-for-you-but-not-yours/.

[4] Marotta, Sergio. 2012 Le tariffe del servizio idrico integrato dopo il referendum. In: Munus. Rivista giuridica dei servizi pubblici, Anno II (2012), n. 3, pp. 657-666.

[5] Per un’analisi approfondita sul tema, vedi anche: Cozzolino, Adriano. 2015. From consensus to coercion? Outlining a political economy of authoritariani neoliberalism in the context of the Italian crisis and economic restructuring. Paper presented at the 9th Pan-European Conference on International Relations. Giardini Naxos, Sicily, September 23-26, 2015.

[6] Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua Bene Comune:


[7] Per un RTA Live documentario su di una manifestazione svoltasi nel Gennaio 2015 e nella quale i sindaci hanno espresso le loro posizioni formali in merito, vedihttps://www.youtube.com/watch?v=eOTW_f31HOs


Fonte: comune-info.net

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