di Aldo Carra
Il governo ha varato un decreto per privatizzare il 40% di Ferrovie dello Stato ed ha colto l’occasione per cambiare i vertici dell’azienda. Se sulle nomine si rivedono logiche di occupazione del potere che siamo ormai abituati a subire (compreso il requisito di aver operato in quel di Firenze). Sulla privatizzazione siamo ancora ad un livello di approssimazione di fronte al quale la sinistra non può tacere. Purtroppo è stato proprio con la sinistra al governo che si è realizzato un volume di privatizzazioni senza eguali in altri paesi. E gli effetti di quelle operazioni sull’economia e sui conti pubblici sono stati pari a zero. Questo fallimento pesa, ma non per questo dobbiamo attestarci su una posizione di semplice contrarietà alla privatizzazione. Anzi proprio per questo dovremmo entrare nel dibattito in corso indirizzando la discussione non su quanti soldi si possono fare, ma su come migliorare il trasporto ferroviario.
Il problema. Le Fs sono una struttura molto complessa. Si tratta della più grande azienda di servizi del paese che comprende la rete ferroviaria, binari, stazioni, impianti, il trasporto passeggeri ad Alta Velocità ed a lunga distanza, il trasporto locale, il trasporto merci, ed un patrimonio immobiliare notevole in parte direttamente legato alle funzioni proprie ed in parte accessorio come aree ed immobili lungo la linea e nelle stazioni. Proprio per questa complessità e per il notevole valore degli asset, dire il 40% non significa niente se non si precisa quale è il 100 di cui il 40 è parte.
Su questo punto nel management nominato pochi mesi fa ed adesso spinto a dimettersi, c’erano due linee: procedere alla privatizzazione di quote di tutto il valore aziendale oppure separare la gestione della rete dalle attività di trasporto privatizzando solo quote di queste attività. La differenza non è di poco conto perché l’asset rete vale tre volte l’asset trasporti. Prenderlo in considerazione significherebbe quindi poter incassare molto di più, ma poiché più alto è il patrimonio investito più bassa è la remunerazione del capitale, l’operazione potrebbe essere meno appetibile per il mercato. Una scelta, come si vede, non di poco conto.
I vincoli. Proprio per questo sarebbe stato logico scegliere prima la strategia da seguire, magari investendone il parlamento, e procedere dopo alla nomina dei vertici con un mandato preciso. Ma questo governo come si sa ha fretta su tutto, non tiene in grande considerazione il parlamento e se c’è l’occasione di mettere nei posti chiave persone gradite non se la fa scappare. Quindi ha proceduto alla nomina dei vertici ed adesso la partita è tutta da vedere e da giocare.
Essa si snoda, tanto per stare in tema, su due binari:
– le normative comunitarie emanate da 25 anni che prevedono la separazione della rete ferroviaria dalle attività di trasporto e che finora sono state disattese da quasi tutti i paesi;
– l’impegno a cedere una quota pari a 3 miliardi, previsto nel programma di privatizzazioni concordato dal governo con la Commissione Europea.
E’ chiaro che a far precipitare la decisione è questo secondo vincolo e che il “fare cassa” ispira i movimenti di oggi. Perciò il rischio di disfarsi di patrimonio pubblico senza alcuna contropartita è serio.
Di fronte ad esso è necessario imporre un confronto su un disegno strategico di futuro del trasporto su rotaia con una particolare attenzione a due aspetti: uno ambientale che riguarda il trasporto merci, l’altro sociale che riguarda il trasporto locale.
La normativa europea prevede la separazione della rete ferroviaria dalle attività di trasporto come premessa per mettere sul mercato tutte le attività di trasporto gestite da imprese pubbliche e private con pari diritti di accesso alla rete. In questo percorso di liberalizzazione e privatizzazione la prima della classe è stata, naturalmente, l’Inghilterra che era arrivata addirittura a spacchettare le tratte ferroviarie vendendole a società diverse: i gravi disagi ai passeggeri e le disfunzioni prodotte hanno costretto ad un passo indietro e decretato il fallimento di quella liberalizzazione spinta. La stessa Francia che aveva proceduto alla separazione della rete dal trasporto è tornata indietro ed oggi in Europa, prevale un modello integrato di rete e servizi di trasporto.
Ma per il 2019 è previsto l’obbligo di procedere alla piena liberalizzazione. quindi, i nodi liberalizzazione — privatizzazione debbono essere affrontati. Sapendo, però, che non si parte da zero e nemmeno dall’assunto che privato è efficienza e pubblico no. In questi anni le ferrovie italiane hanno saputo risanare i conti e creare un servizio di Alta Velocità competitivo, efficace ed efficiente, che le colloca all’avanguardia in Europa. Ma gli altri segmenti del trasporto ferroviario presentano ancora enormi problematiche e ritardi da colmare al più presto.
Le proposte. Nel settore merci la liberalizzazione è in atto da otto anni, i volumi trasportati dalle 13 nuove imprese private sono cresciuti, ma la concorrenza si è concentrata sulle tratte più appetibili ed il traffico non si è spostato dalla strada alla ferrovia: gli aiuti di stato all’autotrasporto, nemmeno finalizzati alla riconversione verso l’intermodalità, hanno fatto in modo che le nuove imprese private togliessero i traffici più redditizi alle Fs senza intaccare il predominio della strada.
Fare spazio al privato, quindi, non serve se non si fa una politica coerente di investimenti per il trasporto ferroviario delle merci con un nuovo piano dei porti e dell’intermodalità.
Discorso analogo vale per il trasporto locale. In questo settore è difficile coprire i costi con i ricavi e non è nemmeno pensabile, con la qualità scadente che oggi si offre, aumentare i ricavi agendo sui prezzi. Ci si trova, quindi, in un circolo vizioso che si può spezzare solo con consistenti investimenti per rinnovare ed aumentare la flotta ferroviaria e per garantire, così, un’offerta in qualità e quantità degna di un paese civile.
Se così stanno le cose, allora, non si tratta di vendere o svendere per fare cassa. Si tratta, invece, di delineare un progetto industriale che abbia alcuni punti chiave:
– l’ infrastruttura ferroviaria, la rete, potrebbe pure essere scorporata dal trasporto, ma non può assolutamente essere privatizzata nemmeno in parte;
– si possono prevedere cessioni di quote di minoranza e graduali di aree già risanate e valorizzate ( Frecce, attività secondarie come servizi ed aree..);
– l’apertura al capitale privato va fatta con un vincolo preciso: che si destinino rigorosamente le entrate che ne derivano ad investimenti nelle merci e nel trasporto locale.
Né fare shopping, né fare soldi. Solo con questa visione e questi vincoli può avere un senso la cessione di pezzi di patrimonio pubblico. Altrimenti si farebbe solo un’operazione che fa male al pubblico che si impoverisce ed allo stesso privato che si abitua ad investire nei settori a reddito garantito, il che non è il massimo per la cultura del rischio d’impresa.
Insomma la fase che si apre alle ferrovie potrebbe essere l’occasione per chiudere con un passato – aperture al mercato senza risultati – e per aprirsi ad un futuro nuovo: si cede il minimo di patrimonio che consenta di ricavare il massimo di reddito e, soprattutto, quello che si ricava lo si destina prima ed esplicitamente a migliorare il servizio prodotto.
Né “fare shopping”, quindi, né “fare soldi”, ma operazioni finanziarie e produttive intelligenti, per poter offrire un servizio migliore. Se non si mira a questo, meglio lasciare le cose come stanno. Se si pensa di trovare qui risorse da destinare solo a ridurre il debito lungo la via crucis dell’austerity, si passi, sempre per restare in tema, ad un’altra stazione.
Fonte: il manifesto
Originale: http://ilmanifesto.info/se-privatizzare-non-fa-rima-con-investire/
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