di Alain Goussot
Oggi le nostre vite sono invase da schemi culturali che fanno continuamente riferimento ai sintomi e al disturbo; qualsiasi difficoltà o disagio vengono interpretati come problemi della singola persona che va curata e riadattata alla vita considerata come normale. L’unità di misura è il comportamento e l’adattamento funzionale del singolo alla società; questo vale sia per l’ambito scolastico, gli apprendimenti, il lavoro e la vita personale.
Se stai male, se sei in difficoltà, se sei demotivato e giù di tono, oppure troppo ipercinetico, la spiegazione va cercata essenzialmente nel singolo individuo. Come ha scritto Frank Furedi nel suo libro “Il nuovo conformismo”; domina il paradigma clinico-diagnostico che evidenzia i sintomi e si propone di curare per riadattare il singolo. Facciamo notare che questo modo di guardare le cose è fondamentalmente pessimistico: non crede nelle potenzialità della persona, nelle sue capacità di riscattarsi e di apprendere partendo dalle proprie caratteristiche.
È uno sguardo che nega nei fatti le differenze pure dichiarando di volerle rispettare in nome di una diversità prefabbricata. È uno sguardo che sottolinea quello che non funziona nel singolo, evitando d’interrogarsi troppo sul contesto e le sue dinamiche, nonché le sue responsabilità.
È uno sguardo che nega nei fatti le differenze pure dichiarando di volerle rispettare in nome di una diversità prefabbricata. È uno sguardo che sottolinea quello che non funziona nel singolo, evitando d’interrogarsi troppo sul contesto e le sue dinamiche, nonché le sue responsabilità.
Questa cultura dominante del clinico-terapeutico ad ogni costo finisce per umiliare, mortificare trasformando l’alunno o chi si trova in un momento difficile da soggetto di desiderio, di diritto, di cultura in oggetto di cura, di trattamento speciale o di assistenza. È una logica che disumanizza e produce disperazione, solitudine, sofferenza e aggressività, poiché si tratta di una logica di violenza e di dominio che cancella la speranza di un futuro migliore e più umano.
Per questo la pedagogia è stata marginalizzata, anche per causa degli stessi pedagogisti, perché parte dal potenziale umano, concepisce il singolo come soggetto di relazione inserito in un contesto sociale che svolge un ruolo decisivo nel costruire le possibilità della speranza. Paulo Freire parlava di pedagogia della speranza, Ovide Decroly di pedagogia della felicità affettiva, Célestin Freinet di pedagogia liberatrice. Le pedagogie che mettono al centro la persona come portatrice di un potenziale di apprendimento che va scoperto e che danno una importanza fondamentale al collettivo, al contesto e all’ambiente socio-culturale sono anche delle pedagogie di comunità che sanno legare il particolare di ognuno con il globale del sociale in una prospettiva effettivamente inclusiva e impregnata di giustizia e di equità. Una prospettiva che produce cittadinanza attiva e quindi democrazia. Allora riprendiamoci la pedagogia , rileggiamo Heinrich Pestalozzi, Maria Montessori, Lev Vygotskij, Anton Makarenko , Bruno Ciari, Mario Lodi e tanti altri; partiamo da queste fonti vive della speranza per costruire insieme ai nostri ragazzi, alle loro famiglie e alla comunità un mondo a dimensione umana dove ciascuno avrà un proprio posto e sarà riconosciuto nella propria dignità e soggettività.
Fonte: comune-info.net
Originale: http://comune-info.net/2016/01/speranza/
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