di Roberto Balzani
Un fantasma si aggira silenzioso ma inesorabile per il Paese: quello del centralismo. Dopo una lunga stagione autonomista, durata dagli anni Settanta, a partire dal primo lustro del nuovo secolo, e con maggior veemenza dalla Grande crisi del 2008, il vento è cambiato. Prima con Tremonti e col suo ambiguo “federalismo fiscale” (con il quale di fatto si rendevano i comuni esattori per conto dello Stato, senza avere in cambio i benefici dell’autonomia e della responsabilità); poi con i successivi governi tecnici e di centrosinistra. La riforma del Titolo V in approvazione, immaginata per correggerne un’altra, precocemente invecchiata e fallita nei fatti, riequilibra i poteri in senso favorevole al potere centrale, né pare che il Senato delle regioni possa compensare questa vigorosa sterzata verso Roma.
Se c’è un settore nel quale il rapporto centro/periferia pare più delicato, quello è la sanità. Principale voce di spesa della regioni italiane, la sanità ha contribuito, in molti casi, a plasmarne la burocrazia: essa è oggi sotto il mirino dell’opinione pubblica per i disservizi, gli sprechi e le ramificazioni clientelari che ne hanno accompagnato l’impianto e lo sviluppo negli ultimi anni.
Ma spesso si dimentica che la sanità italiana non viene da un passato “sano”: è sempre stata “malata”. Non dobbiamo sorvolare, infatti, sulle ruberie e sulle dissipazioni delle mutue, che spinsero gli ultimi governi di solidarietà nazionale a completare il Welfare universalistico in Italia (1978); o sull’età dei comitati di gestione delle Usl, artefici in buona parte del “buco” miliardario degli anni Ottanta – il decennio in cui si creò in larga misura il mostruoso debito pubblico che oggi ci opprime -, tamponato a fatica dai governi tecnici del tempo. Nel 1992, la scelta in favore dell’aziendalizzazione, con una riduzione (progressiva) dell’influenza della politica locale a vantaggio di quella regionale, fu un passaggio necessario. Alcune regioni la recepirono in modo razionale, radicandola sulla struttura già gerarchica dei servizi ospedalieri; altri la interpretarono in modo più elastico, secondo gli usi e i costumi della pubblica amministrazione territoriale.
Ma spesso si dimentica che la sanità italiana non viene da un passato “sano”: è sempre stata “malata”. Non dobbiamo sorvolare, infatti, sulle ruberie e sulle dissipazioni delle mutue, che spinsero gli ultimi governi di solidarietà nazionale a completare il Welfare universalistico in Italia (1978); o sull’età dei comitati di gestione delle Usl, artefici in buona parte del “buco” miliardario degli anni Ottanta – il decennio in cui si creò in larga misura il mostruoso debito pubblico che oggi ci opprime -, tamponato a fatica dai governi tecnici del tempo. Nel 1992, la scelta in favore dell’aziendalizzazione, con una riduzione (progressiva) dell’influenza della politica locale a vantaggio di quella regionale, fu un passaggio necessario. Alcune regioni la recepirono in modo razionale, radicandola sulla struttura già gerarchica dei servizi ospedalieri; altri la interpretarono in modo più elastico, secondo gli usi e i costumi della pubblica amministrazione territoriale.
La geografia dell’efficienza sanitaria non è dunque figlia della regionalizzazione; la regionalizzazione, semmai, ha reso più evidenti – attraverso i fenomeni di mobilità attiva e passiva – luoghi attrattivi e luoghi repulsivi. Come avviene, del resto, in tanti altri ambiti, dalla scuola all’università. Occorre aggiungere, d’altro canto, che i piani di rientro previsti per le regioni non “virtuose” (impostati dalle legge 448/1998, art. 28, cc. 11 e 12 e poi sistematicamente applicati) dovrebbero indurre un riequilibrio dei conti e una riorganizzazione dei servizi senza mortificare l’autonomia territoriale; cosa che, viceversa, traspare in nuce nelle norme, inserite nella Legge di stabilità 2016, attraverso le quali è il centro del sistema, e non solo le regioni, a sorvegliare direttamente le politiche di rientro di aziende ospedaliere e Irccs in deficit. Il mutamento di rotta è netto: i più volonterosi possono scorrere direttamente i commi dal 524 al 537.
Aria di centralismo, dunque: lo dice apertamente il ministro Lorenzin e lo ribadisce persino l’ex presidente della Campania, Caldoro. Eppure, non è che Roma abbia brillato per scelte ineccepibili. Vogliamo parlare del caso Aifa? Vogliamo parlare, prima, del caso Stamina, che pure ha avuto robusti supporters a livello ministeriale? E, ancora, che dire della modalità attraverso la quale si sarebbe voluto attribuire – per via politica, ancora una volta utilizzando il comma di una legge (il 409 della legge di Stabilità 2016) – un notevole finanziamento “per lo svolgimento di una o più sperimentazioni cliniche concernenti l’impiego di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali per lo studio di malattie rare”, senza “procedura ad evidenza pubblica”, come invece è stato ottenuto grazie alla meritoria segnalazione di Gilberto Corbellini? (E meno male! Ma l’Aifa e l’Istituto superiore di sanità “possono avvalersi di un comitato di esperti esterni ai fini della valutazione”. “Possono” soltanto?).
Si è detto: il Parlamento è libero e sovrano nell’esercizio del potere legislativo; e niente da dire. Ma se poi tutto si condensa a Roma, in un giro ristretto o ristrettissimo, non sarà che il rischio di clientela e di pressione, anziché diminuire, aumenti? Non è un caso che le lobby più influenti – a partire dall’industria farmaceutica, pure meritevole della massima considerazione – plauda a un sistema che non solo validi e controlli, ma gestisca o influenzi le politiche sul territorio: tutto insieme, senza soluzione di continuità.
La sensazione è che il centralismo sanitario abbia due obiettivi: da un lato, sancire la fine delle regioni così come le conosciamo (senza questa spesa, le regioni si “provincializzerebbero”, ovvero – private di budget – testimonierebbero la propria inutilità: via surrettizia alla depoliticizzazione). Dall’altro, la concentrazione a livello di governo di un enorme potere, per la prima volta nella storia d’Italia: quello di nominare i direttori generali di Ausl, ad esempio; o di decidere nel dettaglio la politica del farmaco sui territori; o di chiudere ospedali; o di aprirne di nuovi. La sanità è stata sottratta al controllo dei Comuni e delle Congregazioni di Carità, che non riuscivamo a tener dietro, soprattutto in seguito alle rivoluzioni tecnologiche del secondo dopoguerra, ai costi crescenti delle infrastrutture e alla domanda di Welfare di una società del benessere. Si rammenti che fino al 1958 non esisteva neppure un ministero della Sanità. La regionalizzazione ha rappresentato un punto di equilibrio fra risorse raccolte a vari livelli (recentemente anche attraverso alcune imposte dedicate, come l’Irap) e spese decentrate entro un ambito “vasto”, per non essere preda di campanilismi. Un sistema certamente perfettibile, ma anche rispettoso di un rapporto diretto fra elettori/utenti e rappresentanti, in un Paese molto eterogeneo e molto complicato. L’idea di togliere questo filtro la si capirebbe se la burocrazia cui si andasse a consegnare questo pacco enorme di miliardi, di beni e di servizi, fosse un’élite di civil servants anglosassoni, paracadutati da Marte per insegnare agli italiani le regole della sana pubblica amministrazione. Ma siccome così non è (come non ricordare il caso clamoroso e ai limiti del grottesco dell’alto dirigente del ministero Duilio Poggiolini, scoppiato nel ’93 e sigillato nel 2011 da una sentenza della Corte dei Conti che lo obbligava a risarcire oltre 5 milioni di euro allo Stato per reati compiuti a vantaggio di diverse case farmaceutiche fra il 1982 e il 1992?), i rischi di rendere ferrea l’oligarchia e di comprimere gli spazi di libertà, dei territori e dei cittadini, sono molto alti.
Fonte: Rivista Il Mulino
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