di Maria Nadotti
Ci sono vite che esigono di essere raccontate, e vite che si dissolvono nella memoria di pochi. Le vite “biografabili” sono le cosiddette vite eccezionali, per grandezza, densità, mostruosità, o semplicemente perché non conformi alle regole della loro epoca. Evita Perón e Santa Teresa di Calcutta, al secolo Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, ma anche Adolf Hitler e Pablo Escobar, re del narcotraffico colombiano. Wolfgang Amadeus Mozart, Frida Kahlo, Marie Curie e Albert Einstein, ma anche Lenin, Stalin, Mao Tse-tung, perfino Nicolas Sarkozy. Vite fuori dal comune, vite attive, capaci – nel bene e nel male – di mettere in scacco l’esistente, facendogli fare un salto in avanti, all’indietro, di lato.
Ma come si scrive una “vita che non è la mia” meritevole di essere raccontata? E cos’è che muove il biografo/la biografa a dedicarle anni di lavoro e ricerca, di inevitabile corpo a corpo? Quali sono i suoi strumenti e il suo metodo? A che distanza si pone dal suo “oggetto”? Come lo guarda, lo studia, lo viviseziona? Si identifica in esso, facendo proprie le sue ragioni, o tenta di restare neutrale, di essere oggettivo? Come ne intreccia l’avventura pubblica e la vicenda intima? Come ne narra la vita senza ridurla a una successione di fatti, rinunciando a far luce sul mistero che sta dietro al farsi di ogni esistenza? Come riesce a non perdersi nel labirinto delle supposizioni, a non fare pettegolezzo e neppure agiografia?
Questa premessa per arrivare a parlare di una nuova biografia dell’attivista e teorica anarchica Emma Goldman, opera del saggista trentenne francese Max Leroy: titolo originale Emma Goldman. Une éthique de l’émancipation, nell’edizione italiana trasformato chissà perché in Emma la rossa(trad. it. di Carlo Milani, Eleuthera, 2016).
“Questa donna nata nel 1869 in una cittadina portuale della Lituania”, scrive l’autore in un preludio al testo programmaticamente intitolato La furiosa passione di vivere, “è tuttora in grado di lanciarci insegnamenti che valgono per il qui e ora”. Ed ecco piantato il primo paletto: la vita di Emma Goldman, morta nel 1940, va raccontata di nuovo, perché è tuttora un po’ avanti sulla nostra epoca. Il suo odio per le “passioni tristi” della militanza politica pronta a burocratizzarsi non appena raggiunge il potere, la sua “slealtà” nei confronti di qualsiasi linea di partito che non tenga conto della quotidianità e delle esigenze concrete della “gente da poco”, la sua indisciplina, la sua energia, il suo gusto per la vita, la sua e quella degli altri, la sua consapevolezza che i corpi contano e non sono tutti uguali, sono tra le tante ragioni per cui vale la pena di riprendere in mano la sua storia e, a partire da lì, i suoi scritti e i suoi testi politici.
Leroy raccoglie una manciata di quella polvere d’oro che sono i pensieri e le riflessioni di Goldman e prova a metterla in risonanza con i tanti e rocamboleschi “fatti” della sua vita pubblica: anarchica incline all’azione diretta agli inizi del suo impegno politico, formidabile oratrice capace di muoversi con altrettanto agio in territorio nordamericano (la sua terra d’elezione) e in Europa, compagna di strada e presto oppositrice di tutti i leader della rivoluzione russa, femminista pragmatica. Il secondo paletto della biografia di Leroy è questo: tentare di dire cosa c’è dietro tutto quel fare, quell’andare da un capo all’altro della terra, quell’immergersi pagandone il prezzo di persona nelle lotte che avrebbero dovuto cambiare il mondo, quell’innamorarsi instancabile di uomini via via sempre più giovani di lei e quel provvisorio, ma sempre totale intrecciare la propria esistenza alla loro.
E se fosse da questo sconfinamento, da una sorta di frenetica ispezione di quella zona della vita individuale in cui personale e politico si sovrappongono, che si può iniziare a capire cosa abbia fatto di Emma Goldman una figura politica non consumata, non esaurita insieme alle utopie rivoluzionarie del secolo scorso?
Il terzo paletto piantato da Leroy è questo: se proprio “l’intransigenza di alcune donne, il loro rifiuto di compromessi e di parole moderate, fosse la materia prima per costruire una vita che non sia quella delle loro madri?” Inevitabile, a questo punto, dare assolutamente ragione al giovane biografo francese: Emma Goldman ci serve. Strangolate come siamo tra quote rosa e cooptazioni dall’alto, è straordinario che, a distanza di un secolo, una donna determinata a non capitalizzare niente – amore, potere, famiglia, ruolo politico, maternità – ci ricordi che “credere che l’accesso delle donne alla politica istituzionale renderebbe quest’ultima, come per incanto, più giusta ed equa è assolutamente grottesco: la donna, esattamente come l’uomo prima di lei, non riuscirà a cambiare radicalmente la società avanzando lungo i binari che il potere le mette a disposizione”.
Spirito di rivolta, dunque, resistenza e azione diretta.
E ragionare con la propria testa, rifiutando padri, maestri, guide, ma anche di fare da madre, a uomini e donne, muovendosi da pari, uguale diversa. “Il cielo è vuoto, la vita è bella”, scrive nel 1916 in un testo intitolato La filosofia dell’ateismo: il vero oggetto di una rivoluzione che non si risolva in una semplice, e inevitabilmente feroce, alternanza al potere, è un “radicale mutamento dei valori”.
Va letta, questa biografia vorticosa e innamorata del proprio oggetto, anche se non riesce a tenere fede fino in fondo al disegno che l’autore si è dato. La vita di Goldman è probabilmente troppo ricca di fatti, incontri, viaggi, relazioni, perché chi ne scrive non si disassi, cercando di starle dietro. E così, da un certo punto in avanti, il saggio di Leroy diventa una rassegna indiavolata delle “avventure” di Emma.
La vediamo correre a Mosca per mettersi a disposizione della rivoluzione, discutere con Lenin e Trockij, arringare una folla a Chicago, finire in carcere, saltare su un treno per raggiungere i rivoluzionari anarchici di Barcellona, e intanto innamorarsi, lasciare, essere lasciata, ricominciare ogni volta daccapo, testarda e paziente. Il filo che lega questo fare, il suo senso profondo – racchiuso negli scritti di Goldman, nei suoi articoli e nelle sue formidabili lettere private – si perde, si sfalda, si fa sempre più evanescente ed Emma rischia di diventare una figura bidimensionale, un’immaginetta politica.
A lettura ultimata – e questo forse è un altro merito del libro – si ha dunque una gran voglia di tornare ai suoi testi, alla sua voce, per sentirle dire cose che sono state spazzate via dalla passione fredda della politica/potere e dalla “maschera incantatrice della libertà che comprime l’umano nel degrado spirituale e nell’indottrinamento sistematico allo spirito servile”.
Fonte: Lo Straniero
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.