di Andrea Ranieri
Ormai la discussione sulla riforma costituzionale, nei media e nella testa di gran parte delle persone, sembra sempre più prescindere dal merito. In discussione gli scenari del dopo voto. Chi si vuol liberare di Renzi, e chi prefigura la catastrofe economica e politica se di Renzi ci si libererà. È la conseguenza pressoché inevitabile di aver presentato la riforma come il banco di prova del governo, un governo che si è autoproclamato costituente. E se in causa c'è più che la costituzione, la permanenza o meno degli assetti di governo e di potere del Paese, è persino naturale che entrino in campo le logiche e i comportamenti, anche i peggiori, che hanno contrassegnato negli ultimi anni le campagne elettorali.
Così De Luca raduna un po' di sindaci della sua regione e gli chiede, in nome dei soldi che Renzi pare abbia stanziato per il Sud nella legge di Bilancio, di portare a votare, parole sue, i "clienti", e invita gli imprenditori, a partire da quelli della sanità privata i cui debiti si appresta a sanare anche contro i commissari di governo che oggi dovrebbero vigilare sui conti e sulle inefficienze della sanità campana, di portare disciplinatamente a votare i propri dipendenti. E si impegna a vigilare che sindaci e gli imprenditori facciano disciplinatamente il loro dovere.
Sono comportamenti inaccettabili e sanzionabili anche in occasione delle elezioni o delle primarie di partito, addirittura intollerabili quando si mattono in campo per cambiare una costituzione nata dalla Resistenza, che danno evidenza plastica a una frase usata da Tomaso Montanari in un suo comizio a Firenze per il No alla riforma costituzionale: "Dal sangue dei partigiani alla saliva dei cortigiani".
Dovrebbero rifletterci con attenzione gli amici illuminati che si apprestano a votare Sì per paura di guai peggiori. Per la paura di Trump, delle destre e dei populismi. Il danno è già stato fatto. La pretesa di cambiare la costituzione a maggioranza, ha scatenato proprio quegli impulsi populisti, leaderistici, di un uomo solo al comando o di un uomo solo da abbattere, che è il brodo di cultura in cui cresce il trumpismo, il lepenismo e tutti i derivati del caso. Ancora di più se alla costituzione si accompagna una legge elettorale come l'Italicum che sembra fatta apposta per assecondare questa deriva.
Capisco che i poteri forti italiani e internazionali, le Banche, Confindustria, Marchionne, Briatore, e persino la Mediaset di Confalonieri, siano preoccupati per la vittoria del No. Capisco meno le anime belle della sinistra che temono che il No apra le porte a chissà quale avventura populista, e in nome di questo approvano una riforma che, parole di alcuni di loro, "fa schifo", e assolvono proprio colui che a questa possibilità ha aperto le porte, e che si prepara spregiudicatamente a cavalcarla se l'esito del referendum sarà per lui positivo.
Cambiare l'Italicum in senso proporzionalista, riconoscendo finalmente, come il crescere dell'astensionismo dimostra, che il male della politica è un deficit di rappresentanza più che di decisione, è il primo passo per invertire questa deriva, e la vittoria del No è la condizione imprescindibile per aprire questa prospettiva.
Sono fra quelli che si oppongono alla riforma perché sono innamorati della costituzione che abbiamo, per com'è e per come è nata, e che mai avrebbero voluto che la discussione sulla riforma costituzionale diventasse una questione di fiducia o di sfiducia al governo in carica.
Che, come Calamandrei, ritengono che quando si discute di costituzione, i banchi del governo devono restare vuoti, e che ripensa non come a una questione archeologica, ma come una indicazione per il presente e per il futuro, quel che gli raccontava un costituente come Vittorio Foa: "Quei giorni, quando al mattino in Parlamento si litigava su tutto, sulla Russia e sull'America, sul capitale e sul lavoro, ma al pomeriggio tutti insieme scrivevamo la carta che doveva evitare che le differenze tra di noi diventassero inconciliabili con la convivenza democratica."
Il difetto più grande della costituzione che ci apprestiamo a votare è che è stata scritta tutta di mattina, è figlia dello scontro più che della volontà di trovare soluzioni condivise. Il premier dice che questo modo di ragionare è pensare a un paese delle meraviglie che non c'è più, che è necessaria innovazione e cambiamento, e che il suo governo è nato per questo.
A mio parere questa è la dimostrazione più evidente che non sempre cambiare è positivo. Per esempio passare da una costituzione votata quasi all'unanimità a una che spacca in due paese e parlamento non mi pare un progresso, tanto più che non c'era un dottore che ci ordinava di farlo, e che alcuni obiettivi dichiarati, per esempio ridurre i costi della politica, sarebbero stati più facilmente e incisivamente raggiunti senza tirare in ballo la costituzione.
O forse il dottore c'è, e sono i tanti pensatoi del grande capitale finanziario, che dalla Trilateral in poi consigliano di ridurre gli spazi e le sedi della democrazia perché troppa democrazia e inconciliabile con la libera circolazione dei capitali.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore
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