di Riccardo Bellofiore
La notorietà internazionale venne a Marcello de Cecco dai suoi studi sul sistema monetario internazionale. Il libro più celebre è Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914 (Einaudi, Torino 1979). Il volume era in realtà già comparso in una prima versione dall’editore Laterza, nel 1971, con il titolo Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914. La ricerca risaliva al 1968, ed era stata stimolata dalla svalutazione della sterlina dell’anno precedente, come anche dalla impressione che l’autore sempre più nutriva che il sistema di Bretton Woods, fondato su ‘cambi fissi ma aggiustabili’, fosse sulla via del collasso.
Grazie alla partecipazione ad un progetto di Robert Mundell sulle crisi per la National Science Foundation statunitense de Cecco potè studiare, a Chicago e a Londra, la presunta età dell’oro del gold standard, ma anche la sua interna e crescente fragilità. In un articolo del 1973 comparso, ancora in italiano, nella Rivista internazionale di storia della banca, de Cecco proseguì il discorso commentando la crisi bancaria del 1914, ed impiegando materiali che allora non erano ancora stati resi noti, in particolare le Crisis Conferences tenute da Lloyd George in occasione della crisi del luglio 1914, trascritte dalla moglie Julia Bamford (professoressa di lingua inglese all’Orientale di Napoli). Questo saggio divenne l’ultimo capitolo di una versione ampliata in lingua inglese: Money and Empire. The International Gold Standard, 1890-1914, pubblicata da Basil Blackwell nel 1974. Il volume fu riedito dieci anni dopo da Frances Pinter, con il titolo invertito (The International Gold Standard. Money and Empire), una nuova prefazione e la correzione di una serie di errori segnalati dai recensori della prima edizione.
Grazie alla partecipazione ad un progetto di Robert Mundell sulle crisi per la National Science Foundation statunitense de Cecco potè studiare, a Chicago e a Londra, la presunta età dell’oro del gold standard, ma anche la sua interna e crescente fragilità. In un articolo del 1973 comparso, ancora in italiano, nella Rivista internazionale di storia della banca, de Cecco proseguì il discorso commentando la crisi bancaria del 1914, ed impiegando materiali che allora non erano ancora stati resi noti, in particolare le Crisis Conferences tenute da Lloyd George in occasione della crisi del luglio 1914, trascritte dalla moglie Julia Bamford (professoressa di lingua inglese all’Orientale di Napoli). Questo saggio divenne l’ultimo capitolo di una versione ampliata in lingua inglese: Money and Empire. The International Gold Standard, 1890-1914, pubblicata da Basil Blackwell nel 1974. Il volume fu riedito dieci anni dopo da Frances Pinter, con il titolo invertito (The International Gold Standard. Money and Empire), una nuova prefazione e la correzione di una serie di errori segnalati dai recensori della prima edizione.
L’argomentazione di de Cecco era originale e in contrasto con le interpretazioni allora consuete. La sua tesi era anticipata dalle due citazioni che aprono il libro nella sua edizione italiana. La prima, assente non soltanto nella prima edizione inglese ma anche nella seconda (e non del tutto accurata), è presa da L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde: “Cecily, you will read your Political Economy in my absence; the chapter on the Fall of the Rupee you may omit. It is somewhat too exciting for a young girl.” (“Cecily, in mia assenza andrai avanti con l’economia politica. Il capitolo sul crollo della rupia puoi anche tralasciarlo. È un po’ troppo eccitante per una giovane ragazza. Anche questi problemi monetari hanno a volte un loro lato melodrammatico”). [Nell’originale di Wilde è “sensational”, e non “exciting”]. La seconda è dal Codex Justinianus: “Non solum aurum barbaris minime praebeatur, sed etiam, si apud eos inventum fuerit, subtili auferatur ingenio” (Si eviterà assolutamente di dare oro ai barbari, ma semmai, se se ne trovasse presso di loro, glielo si sottrarrà con ogni sottile astuzia). Una ulteriore, più significativa, differenza tra l’edizione italiana e quella inglese di Moneta e impero è che le due versioni non si rispecchiano perfettamente: l’edizione inglese del 1974 include parti nuove nei capitoli già presenti nell’edizione Laterza del 1971, l’edizione italiana del 1979 non necessariamente le riporta tutte e però presenta anche più ampie elaborazioni, svolte forse con ancor maggiore libertà critica di quanto non sia nel testo inglese.
Alla fine del diciannovesimo secolo il sistema aureo era sempre più fragile. Le esportazioni inglesi di manifatture stavano declinando rispetto al prodotto interno lordo, a causa della concorrenza degli Stati Uniti e della Germania, mentre crescevano le esportazioni di capitale. L’Inghilterra continuava comunque a dipendere dal mercato mondiale per quanto riguardava il fabbisogno alimentare e le materie prime, e dall’Impero come mercato di sbocco. La Gran Bretagna, però, godeva di una posizione monopolistica grazie a protezioni non-tariffarie; mentre i paesi dell’impero britannico godevano di un avanzo nei confronti del resto del mondo, ma di un di un disavanzo rispetto al ‘centro’, con un ruolo speciale per l’India (Moneta e impero, p. 27, corsivi miei; questa frasi dell’edizione Einaudi 1979 non esistono nella versione inglese del 1974):
"l’Inghilterra dal 1890 al 1914, diviene esportatrice di capitali, ma alle sue esportazioni non corrispondono altrettante vendite di merci inglesi e allora, per continuare a esportare capitali, l’Inghilterra si crea un mercato monopolistico pei suoi manufatti nell’impero, specie in India: l’impero esporta verso il resto del mondo e utilizza i proventi acquistando merci inglesi. Ciò nonostante, l’India rimane in surplus perché non riesce ad assorbire merci inglesi a sufficienza: questo surplus viene depositato a Londra, e si costituisce così il gold exchange standard, studiato da Keynes.
Tanto Marshall quanto Keynes sapevano bene che ciò creava le condizioni per l’istituzione di un efficace gold exchange standard: le autorità monetarie dei paesi che avevano adottato la parità aurea potevano difendere le riserve metalliche disponendo di una massa di manovra in valute che consentissero di intervenire nei mercati significativi. L’India era divenuta il paese chiave del sistema dei pagamenti internazionali, consentendo alla Gran Bretagna di chiudere i conti con il resto del mondo, e al tempo stesso di mantenere il proprio ruolo chiave nel gold standard, manovrando il tasso di sconto del ‘centro’."
De Cecco smonta impietosamente il mito del gold standard. Proprio come era avvenuto nei primi due decenni del diciannovesimo secolo, la Gran Bretagna era di nuovo un caso esemplare di imperialismo del ‘libero commercio’: il laisser faire era mantenuto nella lettera ma non nello spirito. Il sistema aureo non è mai in realtà stato un sistema ‘automatico’: la politica monetaria, come sempre, è stata discrezionale, e in questo caso proprio grazie alla impurità del sistema di cui si è detto. Quando il prezzo dell’argento rispetto all’oro iniziò a cadere, accompagnando una contemporanea deflazione dei prezzi delle merci, si succedettero una dopo l’altra ‘riforme monetarie’ nei vari paesi, e si ebbero cambiamenti radicali nelle loro istituzioni finanziarie. Il gold exchange standard può funzionare solo se il potere del centro rispetto alla periferia è ritenuto stabile, mentre esso si stava in realtà sfaldando: e le riforme monetarie stavano mutando il sistema impuro in un gold standard puro, e per questo il sistema si destabilizzava.
Il sistema finanziario internazionale stava divenendo policentrico, e oligopolistico ovunque, con gli Stati Uniti che (come l’India) avevano un avanzo commerciale ma (al contrario dell’India) lo realizzavano in oro. Nello stesso sistema finanziario inglese il potere si concentrava in pochissime grandi banche di deposito che erano diventate banche ‘omnibus’, svolgendo tutte le funzioni finanziarie, a detrimento delle merchant banks, delle discount houses, e della stessa Banca d’Inghilterra (che continuava ad avere un dipartimento propriamente bancario a fianco di quello di emissione). Ancora prima che esplodesse ‘la’ Guerra (come venne allora chiamato il primo conflitto mondiale), e con il materializzarsi del rischio di una guerra su scala continentale, furono le tensioni interne al sistema, e non uno shock esterno, a causare il crollo del sistema.
La tesi di Moneta e impero è chiarita come meglio non si potrebbe nella prefazione alla seconda edizione: in un modo che non soltanto è molto efficace, ma è anche decisamente spiazzante rispetto ai luoghi comuni che offuscano la visione dell’economista “eterodosso” di oggidì. La citazione è presa dalla prima e dalla seconda pagina della “Preface” a The International Gold Standard (Frances Pinter, 1984; le pagine della prefazione non sono numerate; il primo corsivo è mio, gli altri di de Cecco):
"L’International Gold Standard fu un tentativo di rimediare all’instabilità dei prezzi che caratterizzò le economie mondiali tra il 1870 e il 1890. I paesi si spostarono dall’argento verso l’oro quando il prezzo dell’argento divenne troppo instabile per servire da standard. L’instabilità dell’argento, e l’imprevedibilità nel breve periodo delle sue oscillazioni, convinsero tanto i creditori quanto i debitori ad adottare uno standard più stabile … Il messaggio del libro è dunque che il sistema monetario internazionale precedente il 1914 fu stabile sino a che rimase uno sterling standard, e che esso iniziò ad oscillare sempre più pericolosamente , fino al suo crollo finale nel luglio 1914, quando la Gran Bretagna declinò e altri grandi paesi industriali erano in ascesa. Questi ultimi adottarono il Gold Standard come una forma di nazionalismo monetario, allo scopo di privare la Gran Bretagna dell’ultimo potere che le restava, quello del controllo sui flussi finanziari internazionali. Quindi una parte importante del messaggio che questo libro vuole trasmettere è che quei paesi adottarono il Gold Standard per accrescere, e non per ridurre, il controllo centralizzato sulle questioni monetarie. Adottare il Gold Standard ovunque significò creare una riserva d’oro centralizzata, e una agenzia monetaria per gestirla. Nella più parte dei casi si trattò di un passo gigantesco verso il dirigismo, ed è decisamente buffo che il Gold Standard, dopo essere stato abbandonato, sia divenuto il pezzo forte della scuola di economisti che propugnano il laisser faire."
Un intero volume, concludeva, si sarebbe dovuto scrivere sul mito del Gold Standard: sul fatto cioè che, dopo l’apocalisse del primo conflitto mondiale, quel sistema monetario internazionale fosse divenuto la bandiera di coloro che, come Talleyrand dopo la rivoluzione francese, cercarono di ricondurre il mondo indietro, a come avrebbe dovuto essere: alla presunta douceur de vivre che circondava le immagini della regina Victoria o dell’imperatrice Sissi, moglie di Francesco Giuseppe. Al punto, ricorda de Cecco, che il “ritorno all’oro” stava nel programma elettorale di Reagan, che addirittura costituì nel 1981-82 una Gold Commission per studiare il ruolo dell’oro.
L’attenzione che ho dedicato a Moneta e impero è giustificata dal fatto che il volume, per così dire, ‘cattura’ la visione del mondo, tanto nel metodo quanto nel contenuto, di de Cecco. Il suo approccio era storico più che logico, attento agli sviluppi delle istituzioni (senza mai essere affascinato dal nuovo istituzionalismo). Era ciò non di meno teoricamente attento, e muoveva sempre dalle preoccupazioni del presente: come amava ripetere, citando Benedetto Croce, ‘ogni storia è storia contemporanea’. Impiegando una nota distinzione di Schumpeter, de Cecco era una testimonianza vivente delle capacità di lettura della realtà di una visione teorica improntata all’ ‘analisi monetaria’ (dove la moneta viene introdotta nelle fondamenta stesse dell’analisi teorica, e non è mai neutrale) contro l’ ‘analisi reale’ (dove la moneta è un velo, che al massimo incide sugli scostamenti di breve periodo).
De Cecco aveva in grande considerazione Friedrich List, che vedeva come l’antagonista della visione statica e astratta delle relazioni internazionale di David Ricardo e (qui forse con qualche forzatura) di Adam Smith: certo, rifuggiva da una tendenza a identificare l’astrazione teorica con la realtà. Il contributo di List era stato quello di introdurre la dinamica e la storia: era l’economista tedesco colui che aveva promosso l’indagine delle autentiche cause della ricchezza delle nazioni, e che aveva rivendicato le ragioni dell’economia come arte di governo. L’attenzione ai rendimenti crescenti e alle asimmetrie tra le nazioni erano ciò che aveva portato List a vedere la modernizzazione come una ‘rivoluzione dall’alto’, in cui parte della ricetta erano l’interventismo statuale e la commistione di ‘protezionismo’ e ‘corporativismo’. Si guardava bene, però, dal ridurre List al ‘protezionista a oltranza’, o a cedere alle lusinghe di una visione manichea che oppone rigidamente protezionismo e liberoscambismo, in quelle che potremmo definire sono sempre, al di là della retorica, politiche economiche del ‘commercio manovrato’ e del ‘comando della moneta’ in stadi diversi di sviluppo.
Infine, da ultimo ma non per ultimo, de Cecco era convinto dei limiti di quella che chiamava la visione ‘darwinista’ applicata alla realtà economica e sociale. La convinzione, cioè, che “la tendenza di base del sistema economico [fosse] il decentramento delle funzioni, la moltiplicazione degli organi, l’abolizione progressiva dei monopoli, la ‘democrazia delle decisioni’. Sfortunatamente, tale teoria cozza (come ormai si è da innumerevoli voci affermato e provato) contro l’esistenza, e importanza delle economie di scala, in tutti i settori. Cosicché si può affermare la superiorità dell’accentramento sul decentramento, nel controllo delle funzioni, e la tendenza alla riduzione, anziché all’aumento, del numero degli organi del controllo.” (pp. 178-179)
De Cecco era nato a Roma il 17 Settembre del 1939 ed è morto a Roma il 2 marzo 2016. Si è laureato in giurisprudenza a Parma e ha conseguito il Master of Arts in economia a Cambridge, proseguendo le ricerche anche alla John Hopkins di Bologna e a Chicago. E’ stato professore alla University of East Anglia (Norwich), all’Università di Siena, allo European University Institute (a Fiesole, vicino Firenze), a La Sapienza a Roma, infine alla Scuola Normale Superiore a Pisa (di cui era Professore Emerito) e alla LUISS (dove era parte del comitato scientifico). Ha anche insegnato come visiting alla London School of Economics e alla École Nationale d’Administration(Parigi), a Harvard, Oxford e Berkeley (la Amadeo Giannini Chair nel Dipartimento di Economia della University of California), come pure al Wissenschaft Kolleg di Berlino. E’ stato fellow al Royal Institute of International Affairs (di Londra), allo Institute for Advanced Study(a Princeton), e della sede di Hong Kong della Banca dei Regolamenti Internazionali.
Ha collaborato con l’Ufficio di Studi Storici della Banca d’Italia, pubblicando nella loro collana importanti ricerche: vanno ricordati almeno i due volumi su L’Italia e il sistema finanziario internazionale: 1861-1914 (Laterza, 1990) e L’Italia e il sistema finanziario internazionale: 1919-1936 (Laterza, 1993). Si segnalano, inoltre, la collaborazione con l’Ufficio Studi del Fondo Monetario Internazionale e la Banca nazionale del lavoro, per cui ha curato La BNL dal dopoguerra agli anni sessanta. 1946-1963 (Giunti, 2002), e gli studi sulle banche d’affari in Italia (con Giovanni Ferri: Mulino, 1996) e sul Crediop dal 1920 al 1960 (con Pier Francesco Asso: Laterza 1994). I commenti che regolarmente andava svolgendo sul supplemento “Affari e Finanza” del quotidiano La Repubblica, dal settembre 1992 e con una breve interruzione per dissensi, rimarranno come una lucida cronaca delle traversie e delle turbolenze economiche italiane e internazionali. Anche in questo caso, la raccolta in volume degli articoli va oltre la dimensione cronachistica. Si vedano: L’oro in Europa: monete, economia e politica nei nuovi scenari mondiali (Donzelli, seconda edizione accresciuta, 1999); L’economia di Lucignolo. Opportunità e vincoli dello sviluppo italiano (Donzelli, 2000); Gli anni dell’incertezza (Laterza, 2007); Ma cos’è questa crisi. L’Italia, l’Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013) (Donzelli, 2013).
Merita una considerazione particolare il suo primo libro, del 1967, Saggi di politica monetaria che comprendeva quattro lunghi saggi, e che fu pubblicato nel 1967 da Giuffré. Il primo contributo riguarda il gold exchange standard tra il 1944 e il 1965. De Cecco sottolinea con lucidità i meccanismi monetari e politici che presiedettero alle uscite di dollari dagli Stati Uniti per aiuti ai paesi sottosviluppati e per spese militari, facendo decollare il sistema, come anche il crescere delle tensioni dissolutive interne che lo affossarono. Le vicende del sistema monetario internazionale sono rimaste uno dei temi centrali della ricerca di de Cecco: chi comprendesse l’inglese può godersi molte ore di esposizione di questi temi (sul gold standard precedente la prima guerra mondiale, sul periodo tra le due guerre, sulla formazione del sistema di Bretton Woods, e sul suo crollo), in conversazione con Thomas Ferguson, messe a disposizione dall’INET (Institute for New Economic Thinking).
Gli altri tre saggi del libro del 1967 sono gioielli di ricostruzione politicamente attenta della politica monetaria italiana dalla fine degli anni Quaranta del Novecento sino ai primi Sessanta (soffermandosi con particolare attenzione sulla dinamica dell’offerta di moneta e sull’evoluzione della struttura finanziaria, e prima ancora sulla cruciale esperienza deflazionistica della politica di stabilizzazione del 1947). Benché quella che allora de Cecco definiva come la tendenza razionale del sistema bancario “continentale” fosse orientata verso la pianificazione “corporativa”, i governatori della Banca d’Italia promossero le liberalizzazioni, favorirono le piccole dimensioni bancarie, e neutralizzarono il ruolo dello Stato in un sistema finanziario che andavano riprivatizzando. La brutale stabilizzazione anti-inflazionistica imposta da Luigi Einaudi nel 1947 annunciava quella che sarà l’attitudine caratteristica della politica economica italiana nei decenni che seguirono: una sostanziale indifferenza rispetto agli elevati livelli di disoccupazione non strutturale, ‘keynesiana’, e dunque l’elevata accettazione di percentuali significative di capacità produttiva inutilizzata; l’individuazione delle migrazioni come l’unica possibile soluzione alla disoccupazione strutturale; l’accumulazione di oro e/o riserve e il bilancio in pareggio come obiettivi primi e dominanti della politica economica. Di conseguenza, il piano Marshall fu nel nostro caso una occasione sprecata e messa da parte. L’Italia uscì dalla stagnazione solo grazie al boom internazionale stimolato dalla guerra in Corea e alla fase di investimenti pubblici dei primi anni Cinquanta, in attesa del successivo traino delle esportazioni.
Nei suoi scritti de Cecco torna ripetutamente sulla prima metà degli anni Sessanta come snodo cruciale. Lo ha fatto recentemente, per la rivista dell’Unicredito Economia italiana, in un importante saggio intitolato significativamente “Una crisi lunga mezzo secolo: le cause profonde del declino italiano”, sul n. 3/2013 di Economia Italiana: ma si tratta, anche in questo caso, di un tratto di lungo periodo della sua riflessione, basti ricordare il suo “Lo sviluppo dell’economia italiana e l’economia internazionale” nella Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali, del 1971. Tanto il ‘miracolo italiano’ quanto poi quello che de Cecco definì il ‘keynesismo criminale’ (che dette per un po’ respiro alla bolla degli anni Ottanta), erano esperienze fragili, non in grado di riprodursi autonomamente. Alla crisi del primo, dopo la congiuntura del 1963-64, seguì una lunga decadenza, determinata dalla incapacità della borghesia italiana di approntare una risposta non miope al conflitto distributivo e alla concorrenza di nuove aree del pianeta che in quegli anni si andava profilando. Ma contribuì anche in modo cruciale il fatto che, portato a compimento il sentiero di sviluppo sul modello americano, all’esaurirsi di questo non si fu in grado di preparare il salto ad un modello diverso, come fece allora il Giappone.
Al contrario, alla metà degli anni Sessanta, invece, prima le politiche monetarie restrittive, poi il succedersi di una politica congiunturale stop and go, tagliarono le gambe all’industria. Le grandi imprese si erano allora impegnate in una fase di ‘accumulazione senza investimenti’. Di quell’episodio, de Cecco presentò una originale lettura ‘ricardiana’, ma forse anche sotto sotto marxiana, in un articolo del 1972 su Note economiche: “Una interpretazione ‘ricardiana’ della dinamica della forza-lavoro in Italia nel decennio 1959-1969”. Le imprese avevano concentrato la domanda di lavoro sul segmento centrale dei maschi adulti ‘nel fiore dell’età’, più adatti a reggere i drammatici incrementi della intensità di lavoro a struttura tecnica data. Si spiegavano così, in un colpo solo, sia il fenomeno ‘nuovo’ dell’indebolimento della curva di Phillips in Italia (dovuto non solo e non tanto alle lotte per il salario, ma anche a quelle sulle condizioni normative, pur in presenza di un tasso di disoccupazione complessivo immutato) quanto la durezza delle lotte nelle fabbriche sui ritmi e sulla salute, che preludevano alla fine del cosiddetto taylorismo-fordismo. Il successivo snodarsi delle svalutazioni della lira aggravò il circolo vizioso che favorì le piccole imprese a bassa tecnologia e ad alta intensità di lavoro, ed i distretti industriali: realtà verso cui de Cecco non ha mai mostrato molta simpatia. L’economista abruzzese era propenso a politiche fiscali espansive, senza tuttavia abbracciare la tesi di una positività indiscussa della esplosione dei debiti pubblici, come avvenne negli anni Ottanta, e che contribuirono all’attivarsi di un ciclo auto-perpetuantesi. Né de Cecco era tipo da sottostimare i vantaggi della stabilità monetaria.
L’insoddisfazione rispetto a una politica economica fondata sulla accoppiata svalutazione-alto debito pubblico, solo parzialmente interrotta dall’esperienza del Sistema Monetario Europeo, spiega perché de Cecco, pur edotto più di tutti sulle contraddizioni dell’euro, sia stato a lungo favorevole all’esperienza della moneta unica. Sapeva benissimo anche che l’euro è stato un progetto francese, contrastato dai tedeschi. Joseph Halevi nel suo ricordo di de Cecco ha ricordato che gli segnalai un articolo su Repubblica(apparso il 16 febbraio 1998 – e non il 16 gennaio, come riporta Halevi – dal titolo “Come uccidere la Germania assieme all’Euro”) dove era ricordato un episodio centrale della costruzione della moneta unica. Gli lascio qui la parola:
"Un caso particolarmente rilevante concerne l’operazione Chirac-Giscard d’Estaing nei confronti di Helmut Kohl e della Bundesbank condotta dai due politici francesi nel novembre del 1996. La banca centrale tedesca non voleva arrivare al traguardo dell’euro e quindi manteneva i tassi di interesse alti. Dopo il crollo del Sistema Monetario Europeo, lo SME, nel 1992 e definitivamente nel 1993, la lira se ne era andata giù per conto suo. Il franco francese no però. In nessun modo, si pensava, Parigi avrebbe accettato lo sganciamento dal marco ed infatti durante la crisi dello SME del ’92-’93 la Bundesbank e la Banque de France fecero fronte comune sconfiggendo il tentativo degli hedge funds di speculare contro il franco. Forte di questa certezza, la Bundesbank non recedeva da una politica di alti tassi di interesse che impediva qualsiasi progresso verso la formazione della moneta comune, promessa, obtorto collo, da Kohl a Mitterrand e dopo anche a Chirac. Nel 1996 l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, d’accordo con Jacques Chirac, prese l’iniziativa recandosi in Germania e dicendo perentoriamente a Kohl che o ordinava alla Bundesbank di abbassare i saggi di interesse oppure la Francia avrebbe abbandonato la parità col marco tedesco. L’effetto delle parole di Giscard fu pressoché immediato nel senso voluto da Parigi. La vicenda Giscard-Kohl-Bundedbank é essenziale per capire lo stato dei rapporti di forza europei durante la fase di avvicinamento all’euro. E’ da lì che bisogna cominciare per individuarne le evoluzioni successive."
Il ‘colpo’ del novembre 1996 resuscitò definitivamente dalle sue ceneri la costruzione della moneta unica, in crisi dal 1992-93. La Germania si è mossa su due binari: un neomercantilismo del commercio con l’estero e un neomercantilismo della moneta e del credito. Una strategia che de Cecco definisce auto-distruttiva: "mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla. Tale funzione viene normalmente assolta mediante il commercio: importando beni e servizi altrui e stampando moneta per pagare le importazioni, il paese economicamente egemone alimenta la massa monetaria della sua zona d’influenza, fornendo così il carburante degli scambi e degli investimenti." (Marcello de Cecco e Fabrizio Maronta, “Berlino, Roma ed i dolori del giovane euro”, Limes, n. 4, 2013; i corsivi sono miei)
L’economista abruzzese ha visto bene come, nella fase di costruzione dell’euro e poi alla sua ombra, la Germania – un paese piccolo, due volte sconfitto in guerre mondiali – ha ricostituito la Mitteleuropa: Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria, Liechtenstein, Polonia, Slovenia, Croazia, Svizzera, Repubbliche baltiche, Olanda e Lussemburgo, più la Francia carolingia e parte dell’Italia settentrionale. E’ il cuore produttivo e finanziario del continente: “sommati, questi territori assommano a quasi 165 milioni di persone e al grosso del Pil europeo.” Se proprio si volesse ragionare sull’ipotesi exit, l’attore principale che potrebbe muoversi in quest’ottica, che rischia però di essere suicida, è la Germania (citazione dallo stesso articolo, corsivi miei): "il vagheggiato Neuro (euro del Nord) altro non sarebbe che il redivivo marco tedesco. E l’esclusivo club dei creditori si scoprirebbe per ciò che realmente è: una società ad azionista unico – la Germania – attorno alla quale gravitano svariati clientes dipendenti in tutto e per tutto dalla performance dell’export germanico. Il quale trarrebbe notevole pregiudizio dal collasso del mercato europeo. Nel corso della loro turbolenta e plurisecolare storia, gli europei hanno appreso a loro spese che nessun paese è un’isola e che questa regola non ammette eccezioni. Nemmeno per Berlino."
De Cecco insisteva in particolare sulla combinazione mortale di dinamica nazionale del debito pubblico e liberalizzazione internazionale del mercato dei titoli pubblici. Problema aggravato, evidentemente, dalla mancanza di una politica fiscale comune e di una dimensione federale. D’altro canto, aveva chiaro – a differenza di critici troppo facili dell’unione monetaria, che non aveva senso imputare la crisi europea agli squilibri nelle bilance commerciali ‘nazionali’. Gli scambi e la produzione si erano transnazionalizzati su scala regionale europea, e non erano più tra ‘nazioni’ (si veda “Global Imbalances: Past, Present and Future”, Contributions to Political Economy, n. 31, pp. 44-45; traduzione e corsivi miei): "è una contraddizione battersi vigorosamente per una unione monetaria e allo stesso tempo chiedere che i disavanzi e gli avanzi nei conti correnti nazionali siano considerati importanti variabili di politica economica … si è verificata una autentica regionalizzazione commerciale nell’EMU. Ovviamente non abbiamo più a che fare con commercio internazionale in senso proprio."
E ancora: "Un difetto comune a molte di queste analisi è l’incapacità di vedere che adesso viviamo in un contesto che non è più di relazioni finanziarie ed economiche internazionali, ma transnazionali: il che significa che, nel mondo globalizzato in cui viviamo, gli agenti in finanziari nei paesi avanzati attuano strategie di investimento globale in un regime di libertà completa dei movimenti di capitale."
Un punto di vista il cui sviluppo porterebbe a sottolineare – come ho provato ad argomentare altrove, assieme a Mariana Mortagua e Francesco Garibaldo – che “prendere la finanza seriamente” (mutuo l’espressione da Claudio Borio) comporta rendersi conto che da un bel po’ sono i flussi dei capitali globali, non solo netti ma anche e soprattutto lordi, a determinare gli squilibri commerciali (e non viceversa). Come anche che discutere dell’euro togliendo dal discorso il fatto che esso è una (sia pur imperfetta e incompiuta) autentica moneta unica e non un sistema di cambi fissi irrevocabili significa truccare le carte del dibattito. Non è chi non veda come la discussione, non solo in Italia ma soprattutto in Italia, sia ben lontana dal livello a cui la conduceva de Cecco.
Una volta, alla fine degli anni Novanta, de Cecco mi disse che, in un altro paese, sarebbe stato preso per quello che era in realtà: un ‘conservatore illuminato’. In Italia, invece, lo si scambiava per uno di sinistra. C’era un grano di verità, ma soprattutto l’amore per il paradosso. Nel 1977, in un saggio dedicato a “Keynes, l’ultimo dei Romani” (in Robert Skidelski (a cura di), The End of the Keynesian Era, Macmillan, 1977, pp. 18-24), aveva appunto definito Ricardo e Keynes dei conservatori illuminati che erano vissuti in tempi turbolenti. Nella teoria dell’uno come in quella dell’altro il lavoro era marginale, e i lavoratori risultavano secondari (benché capaci di rivolta: difficile non pensare al luddismo all’epoca di Ricardo, e allo sciopero dei minatori del 1926 all’epoca in cui Robertson e Keynes formulavo le loro eresie monetarie). Gli autentici protagonisti nel loro discorso erano i capitalisti, gli speculatori finanzieri e i rentier. L’accumulazione di capitale in Ricardo come il pieno impiego in Keynes erano pensati come strumenti di stabilizzazione sociale, e la soluzione si configurava come “il cibo a buon mercato” in Ricardo e “il basso costo del denaro” (più, magari, l’intervento diretto dello Stato) in Keynes. L’uno e l’altro, come il principe di Salina nel Gattopardo, volevano che tutto cambiasse perché tutto rimanesse com’era.
Marcello de Cecco è però sempre stato attento a non separare mai i suoi studi sul potere e sull’economia da un impegno civile e, in fondo, patriottico: nulla a che vedere con il ritorno alla “nazione” di oggidì. Chi lo ha incontrato, come chi lo ha letto, sa che nei suoi studi ha saputo divertirsi. Lascia la moglie, Julia Bamford, due figli, Vincenzo e Francesca, e tre nipoti.
L’articolo che qui si pubblica è una versione ampliata di un obituary pubblicato nel numero 125 della Newsletter della Royal Economic Society (http://www.res.org.uk/view/art2Oct16Obituaries.html). Ringrazio Julia Bamford, Arturo O’Connell, Tom Ferguson, Joseph Halevi, Geoffrey Harcourt, Peter Howells, Marcello Messori, Bruno Settis, Jan Toporowski per informazioni, discussioni o commenti su questo testo.
Fonte: sbilanciamoci.info
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