di Angelo Ferracuti
Per quelli della mia generazione scappare verso la montagna significava soprattutto riti d’iniziazione, perdersi con gli amici del cuore dentro paesaggi fiabeschi, campeggiare e conoscersi, condividere un fuoco e un pasto, le bevute notturne, e misurare le forze segrete nei camminamenti pensosi verso le alture sconosciute. La catena che Giacomo Leopardi chiamava Monti azzurri, il grande anello dei Sibillini col Vettore, la Sibilla, il Pizzo della Regina, sono da sempre il nostro Patrimonio.
LASSÙ NEGLI ANNI GIOVANI nascevano gli amori, sempre lì più tardi abbiamo portato in braccio figli appena nati, poi ci siamo tornati con i nostri vecchi e gli amici verso le inquietanti Gole dell’Infernaccio o, da Foce di Montemonaco, prendendo la ripida e tortuosa salita che porta al sentiero per il Lago di Pilato, che è un miracolo arrivarci da un serpentario di ghiaia attraversando una costola della montagna. Dentro le acque dell’unico lago naturale delle Marche e solo lì vive il chirocefalo, crostaceo colore rosso corallo capace di nuotare sul dorso che ancora si riproduce per una strana magia che la natura rinnova nelle sue stagioni.
Questi sono anche i luoghi della mia educazione, qui c’è il mio paesaggio, quello più interiore, e si è formato il mio sguardo, anche nei paesi, dove adesso si contano i morti, cancellati da scosse e boati, penso mentre guido e salgo verso Comunanza, dentro un clima teneramente autunnale, le strade deserte e una vegetazione illuminata dal sole, fatta di bosco rigoglioso, punteggiato di giallo e arancione, aceri e faggete di una bellezza commovente.
In prossimità di Colle incontro un gregge di pecore che blocca la strada, e alla fine, un allevatore macedone che parla contro di loro una strana lingua, ammonisce le bestie sgolandosi mentre il cane maremmano si sposta abbaiando gendarmesco. L’uomo dice che questi paesi sono ormai tutti disabitati, c’è solo lui stamattina al pascolo in questo surreale paesaggio abbandonato. Più avanti, prima della vecchia pompa di benzina incustodita che sta ai piedi di Montegallo, le prime case sventrate fanno impressione. La violenza tellurica ha scosso le mura, da un piano di una villetta è venuto giù un pavimento scivolato nel prato, dalla strada sul piano inclinato si vedono ancora le due reti e un vecchio armadio con le ante scassate, lo specchio frantumato e a lato un vecchio televisore.
È COME SE IL TERREMOTO avesse violato all’improvviso la vita segreta delle persone colta nei momenti più antichi e rituali, e ora di questa violenza restano le nature morte a cielo aperto, squarci di vita intima e, anche se la morte pare non esserci più, invece ne senti un’infida presenza sotterranea che serpeggia. Sulla salita che va verso l’entrata del paese calcinacci e vuoto, e più avanti, oltre lo sbarramento di transenne, il parcheggio e la balconata deserti. All’Antico bar venivo d’estate ogni mattina a comprare proprio questo giornale scendendo dal camping, e sempre qui bevevo l’aperitivo nell’ora perfetta della sera, di fronte il possente monte Vettore e il digradare di prati lussureggianti tinteggiati da sempreverdi.
PARCHEGGIO L’AUTO immalinconito, scatto due fotografie, colpito dal silenzio impressionante, giro a vuoto la maniglia del locale, mentre dalla fontana che sta vicino alla chiesetta transennata l’acqua continua a scendere copiosa, i flussi rimbombano, e sembra l’unica forma animata di vita. M’incammino sulla piccola via principale e pare di attraversare in un luogo di fantasmi, il silenzio intorno amplifica il rumore dei miei passi, quando un ciclista con la tuta colorata scende a forte velocità come un califfo, tagliando l’aria, il sibilo riesce a spaventarmi.
Il negozio di norcinerie è chiuso, sprangata la saracinesca del negozio di generi alimentari, ma arrivato in cima, davanti al bar «Taverna del gallo sibillino», che una volta era uno dei centri più vitali di questo luogo, coi tavolini occupati da anziani giocatori di briscola e tresette, avventori avvinazzati col calice in mano e la sigaretta incollata alle labbra, adesso c’è una vecchia Panda rossa parcheggiata, il portellone posteriore aperto, un ragazzo sta sistemando nel bagagliaio degli scatoloni. Anche dentro il locale c’è un’aria disabitata, le sedie sono riverse sopra i tavoli o accatastate una sull’altra, mentre vedo il proprietario, soprannominato Babbalò, un uomo corpulento dai capelli brizzolati che si sposta cercando casse di bibite e oggetti, che vaga nel locale ammutolito e triste. Quando la signora dietro al bancone mi saluta, chiedo temerariamente se posso bere un caffè. «Il bar è inagibile, siamo sfollati a Grottammare», dice mentre armeggia con la Gaggia. «Ne faccio prima tre, poi il quarto se è buono lo beve, glielo offro, altrimenti lo buttiamo nel lavandino» dice mesta ma gentile. E senza che le chieda nulla aggiunge: «Quella domenica pensavo che mi crollasse il mondo addosso», poi dopo un breve pausa aggiunge «e mi è crollato il mondo addosso, perché avevo investito tutto qui, da un anno facevamo anche dei pasti caldi», poi si ferma guardandomi con gli occhi lucidi, trattenendo le lacrime. «Spengo il congelatore» dice ancora, come se staccasse la spina del respiratore a un moribondo.
BEVO IN FRETTA L’ESPRESSO, esco dal locale ringraziando, stringendo la mano alla donna, e mi dirigo verso il Camping Vettore, che sta a Balzo, nella parte più alta del paese. È un parco attrezzato per tende e roulotte ai piedi del Monte Vettore. Proprio dietro quelle rocce e quella vetta, sulla cima del Redentore, vicino a Castelluccio di Norcia, la montagna s’è spaccata come può spaccarsi un grande cuore di pietra. Prima di arrivarci vado a vedere lo stato della piscina, con la vasca dall’acqua scurita e le foglie che galleggiano in superficie, dai riquadri del cancello sembra un quadro di Hockney. Eppure una volta era bello qui nuotare, galleggiare nella posizione del morto e abbandonarsi mirando con gli occhi la montagna.
Anche il Camping è deserto, i bungalow, dove ho alloggiato molte volte con Alessandra e il fido Elios sono disabitate. Da qui partivamo ogni mattina allegri per le nostre passeggiate, i bastoni in mano e il boxer che allungava correndo avanti contro il vento, la lingua penzolante. Nelle verande esterne c’è ancora qualche segno di vita: panni stesi, una bottiglia d’acqua sopra un tavolino e la coperta distesa sulla balconata di legno chiaro. Nature morte e silenzio. Solo un cane bianco dal pelo riccioluto e mansueto è rimasto davanti al cancello d’entrata a sorvegliare questi luoghi di silenzio. Mentre sto per andarmene, scendere nella parte bassa del piccolo paese di montagna, un quarantenne che sembra un fantasma mi viene incontro. Ha un cappellino scuro in testa, veste di nero, la faccia paffuta, una barba rada imbiancata, e ha voglia di parlare. «Qui è finito tutto» dice sconsolato, «il paese è morto, non si riprende più. Ormai siamo sfollati sulla costa. I miei figli come faccio a riportarli quassù?». Dice che per un ragazzo la vita in montagna è difficile, andare a scuola con la corriera, svegliarsi presto, all’alba. «Io ci ritorno» dice ancora laconico prima di salutarmi, «ho le bestie, gli affetti, il cimitero».
RIPRENDO L’AUTOMOBILE e attraverso di nuovo il paese dirigendomi verso Arquata. Ho fatto tante di quelle volte queste strade che riconosco i passi, le case, anche le curve sono famigliari. Perché i luoghi ci parlano se abbiamo la pazienza di ascoltarli, e penso che i tre cani incontrati a Montegallo, composti e avviliti, gli occhi acquosi e dolci, nessuno dei quali ha abbaiato o mosso la coda, mi abbiano detto più cose che tante parole.
Superata la deviazione che porta a Forca di Presta e poi a Castelluccio di Norcia, «il nostro Tibet» di cui parlava Fosco Maraini, che è stato anche un po’ per noi un piccolo west, completamente raso al suolo, prima di scendere verso la frazione di Pretare, anche quella evacuata, faccio una sosta accostando. Dentro il silenzio di questa natura gli echi degli animali adesso si sentono più forti, specie nelle frazioni abbandonate, i versi degli uccelli che volteggiano e attraversano i dorsali illuminati dalla luce perfetta e accecante di questa mattina. Volano su questi cieli l’aquila reale, il falco pellegrino e anche l’astore, oppure uccelli acquatici come l’airone o la cicogna.
SONO QUASI ARRIVATO ad Arquata, ma i militari dell’esercito al posto di blocco non mi fanno oltrepassare la zona rossa, costringendomi a tornare a Montegallo, prendere la strada per Roccafluvione e arrivare sulla Salaria fino a Borgo, dove c’è ancora il campo con le tende e le roulotte, i mezzi dei Vigili del Fuoco e della Protezione civile, il container con l’ufficio postale, e dove ho appuntamento con Enzo Rendina, l’ultimo abitante di Pescara del Tronto, che vive in una tenda, ultimo anche qui, perché tutti gli altri sono sfollati verso la costa. Zainetto in spalla, barba folta sbiancata e un cappellino con la visiera in testa, dice che è rimasto a fare «l’oracolo sfigato».
INTUISCO CHE DEVE AVERE alle spalle una storia difficile. «I miei genitori sono scappati a Roma dalla montagna mentre io ho fatto il contrario», dice. Diplomato in agraria con indirizzo forestale, esperto in lombricoltura, sperava in un futuro in questo posto, poi, invece, dopo lavori di facchinaggio, «un po’ d’analisi ambientale per un laboratorio di Pomezia», il factotum s’inventa venditore ambulante d’abbigliamento, specializzato in foulard e cravatte, e alla fine fa una vita di difensore civico, anarchico ambientalista in rotta di collisione con i rozzi amministratori locali, quelli di Pescara, «dove c’è l’acqua, la breccia e l’ignoranza» come dice lui; poi per anni ha sbarcato il lunario mangiando «pasta aglio e pere», prodotti della sua terra. È anche un artista sui generis, «raccolgo sassi naturali, ma non li tocco», dice, la capacità secondo lui sarebbe trovarne di particolari.
Dopo mi accompagna all’ufficio postale dove incontro Emanuela e Silvana, le portalettere del paese fantasma. «Vedi le persone che ritornano, le fermi, le chiami» mi dice la più giovane, «andiamo noi a cercarli, spargiamo la voce». Invece i vigili del fuoco fanno recupero insieme ai proprietari entrando insieme a loro negli appartamenti, oppure puntellano le case. Antonio Filippini della Protezione civile regionale è tornato da un giro con un giornalista de Le figaro, ripartirà tra poco con una troupe di una tv locale, così mi aggrego. Passato il posto di blocco dei militari, sembra davvero di entrare in una zona di guerra. Si va al contrario, dalla chiesa di Arquata, dove era consegnata la copia della sacra Sindone, fino alle frazioni di Piedilama e Pretara. Vedo solo mura sbrecciate, palazzi sbilenchi che sembrano sul punto di cadere tenuti da impalcature di tubi innocenti, come al bar Vettore, una volta tappa fissa prima di salire sulla montagna, di cui resta la targa e vicino l’insegna metallica dei gelati, pareti sventrate con buchi e squarci impressionanti, crepe segno della sofferenza anche di queste case di un borgo che non c’è più.
QUEL LUOGO DEI PADRI e dei nonni dove molti tornavano per ritrovare quello che Cesare Pavese ne La luna e i falò chiamava appunto «un paese»: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Adesso quel paese non è più il luogo intimo dell’innocenza perduta, è un corpo martoriato di viuzze ingorgate di calcinacci e pietre, scalinate, anche la chiesa e il monumento ai caduti sono lesionati. A Pescara del Tronto arriviamo più tardi. Salendo dalla Salaria la scena della frazione franata sulla strada, la cinta muraria sbriciolata, è impressionante. Mentre in auto avanziamo a velocità ridotta, più avanti incontriamo Antonio, che prima del 24 agosto era il macellaio del paese, torna qui tutti i giorni per curare cento capi tra pecore e capre, uno che non se ne vuole andare.
Appena arrivati nella parte alta e posteggiata l’automobile, vedo solo un ammasso di macerie che fa impressione, scuote i sensi, si sente il forte odore di polvere e d’umidità che sale alle narici, mucchi di legni e mattoni, travi cadute, lì dove sono morte 47 persone, i tetti con le tegole sfregiate che sono diventati pavimenti, schiacciati sulla superficie.
IN LONTANANZA l’agglomerato di case che dà sulla strada è diventato una discarica indistinta, un ammasso di terra e mattoni, dove cammino l’asfalto è spaccato. Mi fermo davanti a quello che resta di una casa squarciata, crollata in avanti come fosse liquida, dentro un materasso e un letto dove qualcuno ha dormito, forse è persino morto. Più avanti i vigili del fuoco stanno rimuovendo le macerie di un’altra abitazione, in quella dopo lo squarcio apre su un tinello rimasto intatto, un tavolo con le sedie intorno e una zuppiera integra di porcellana al centro.
ALLA FINE DELLA VIA, dove alcuni operai stanno lavorando alla rimozione di macerie, sulla strada c’è una grande spaccatura sull’asfalto, e più avanti, riverse sul manto le rovine di una casa crollata, stracci, materassi bagnati, legni. In un angolo ci sono due pietre di cemento e sopra un vaso bianco con una piantina, a ricordo di due ragazzini che hanno perso la vita durante il crollo. «Stavano in gruppo lì al buio anche se era ora tarda, il nostro era un paesino tranquillo», ricorda Enzo Rendina, una specie di memoria vivente di quei giorni, «quando si è aperta la terra e la casa è crollata due di loro sono morti, si vedevano solo le gambe, tra le ombre e il buio» dice, «dalla cintola dei pantaloni, il resto era coperto da un masso di tre quintali, un altro ragazzo ferito l’ho visto ancora vigile, respirava». Questa è una storia di sommersi e salvati, come quella di Veronica. «Il padre la stava chiamando al telefono, e dopo le ultime parole la scossa ha devastato tutto, lui si è salvato mentre la figlia è stata travolta». Sempre qui vicino, durante gli scavi è stata ritrovata una bambina di quattro anni, Giorgia, abbracciata alla sorella più grande di nove, che però era già morta.
PRIMA DI ANDARMENE, Enzo mi mostra il punto dove si trovava la sua casa. Adesso è solo un mucchio di calcinacci che sembrano trattenuti da una vecchia Fiat Punto con sopra un vaso di erbe selvatiche. «Stavo in cucina, un po’ dormivo e un po’ guardavo la tv, ondeggiava tutto, il tempo di capire, poi un boato, effetto domino e crollo» dice con la tempra autentica del raccontatore di razza. «Sentivo gli squarci delle mura e la caduta dei materiali». È rimasto fino alla fine a vivere nella sua casa, poi per otto giorni in quella di un amico, e alla fine accampato in tenda, ultimo abitante di Pescara del Tronto.
Dopo ha partecipato come tutti gli altri ai soccorsi, ha scavato insieme ai vigili del fuoco, di casa in casa, lottando contro il tempo. «Per fortuna non ho visto in faccia nessun morto, solo le sagome sotto i teloni, le mani magari, quelle sì», dice, «ma i volti no, perché poi quelli te li ricordi per tutta la vita».
Fonte: Il manifesto
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