di Domenico Perrotta
Il 3 novembre è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale la legge 199/2016, «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro inagricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo», salutata da quasi tutti i commentatori come uno strumento fondamentale per la lotta al caporalato e per «non avere mai più schiavi nei campi», come ha detto il ministro Martina. Ritengo necessario dare una valutazione più equilibrata di questa legge e degli effetti che potrà avere nei prossimi anni, a partire da tre questioni: l’efficacia degli strumenti penali messi in campo, la (ancora incerta) costruzione di politiche attive per il lavoro agricolo, alcuni problemi centrali che la legge non affronta.
La legge si concentra anzitutto sugli strumenti penali di contrasto al caporalato e allo sfruttamento, attraverso alcune modifiche all’articolo 603bis del codice penale (che istituì il reato di caporalato nell’agosto 2011, durante lo sciopero dei braccianti di Nardò). Esso viene reso più facilmente applicabile: non è più necessario che vi sia violenza o minaccia e le pene previste sono portate da 5-8 anni a 1-6 anni (a meno che, appunto, non vi sia violenza). In questo modo dovrebbe essere più facile arrivare a condanne di caporali, che dal 2011 a oggi si contano sulle dita di una mano. Inoltre, è di particolare importanza l’ampliamento della responsabilità alle imprese che facciano uso di intermediazione illecita, per cui è possibile il sequestro o controllo giudiziario dell’azienda. Vengono poi estese al caporalato alcune misure tipiche dei reati di mafia o di tratta: la confisca dei beni, l’estensione del fondo antitratta alle vittime di caporalato, sconti di pena per i collaboratori di giustizia.
Per quanto importanti, queste norme lasciano aperta una questione: è possibile ed efficace utilizzare il diritto penale per regolare il mercato del lavoro? Gli stessi penalisti ne dubitano (su questo si veda più in dettaglio l’articolo di Alberto di Martino ed Enrica Rigo). Come ho già scritto su questa rivista, nelle campagne del Sud e del Nord operano centinaia di caporali (o pseudocooperative): da un lato, è impensabile arrestarli e processarli tutti; dall’altro lato, la loro presenza mostra che queste modalità di intermediazione e organizzazione della manodopera sono estremamente radicate nel sistema di produzione agricolo ed è quindi necessario uno sforzo tutto politico per costruire alternative «legali» praticabili.
A questo obiettivo sono dedicati gli articoli 8 e 9. In particolare, alla «Rete del lavoro agricolo di qualità» (istituita nel 2014) vengono affidati compiti di «organizzazione e gestione dei flussi di manodopera stagionale, assistenza dei lavoratori stranieri immigrati». Le sezioni territoriali in cui la Rete dovrebbe articolarsi, dovranno promuovere «modalità sperimentali di intermediazione fra domanda e offerta di lavoro» e «funzionali ed efficienti forme di organizzazione del trasporto dei lavoratori fino al luogo di lavoro». I ministeri competenti dovranno approvare entro sessanta giorni un «piano di interventi» relativi alle raccolte stagionali, ad esempio «misure per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori» e, ancora, «modalità sperimentali di collocamento agricolo» (il tutto, naturalmente, «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»).
Questi passaggi potrebbero avvicinarci al cuore del problema e sottrarre il terreno sotto i piedi dei caporali, se amministratori e funzionari ministeriali, regionali e locali avessero le capacità e le intenzioni di lavorarci. Quali sono le sperimentazioni sul collocamento a cui pensa il ministero? Come pensa di realizzare forme di trasporto «efficienti»?
Il laboratorio di queste politiche è stata per certi versi la Basilicata, dove dal 2014 la Regione opera in questa direzione in relazione alla raccolta del pomodoro. Ebbene, i risultati non mi paiono incoraggianti. Nonostante l’attivazione di due centri di accoglienza e di «liste di prenotazione» dei braccianti nei centri per l’impiego (da cui le imprese agricole possono assumere) e nonostante lo sgombero del ghetto di Boreano nel luglio scorso, a occuparsi di intermediazione e trasporto sono stati nella stragrande maggioranza dei casi ancora i caporali. Inoltre, cosa voglia dire «sistemazione logistica» dei lavoratori stagionali è mostrato dai due centri di accoglienza: si tratta di strutture invero poco accoglienti (come mostrato da un’inchiesta della Legal Clinic dell’Università di Roma Tre e dalle foto del recente rapporto di Medici per i Diritti umani), che sono state chiuse a fine ottobre, quando cioè di quei lavoratori non c’era più bisogno. Provocando rabbia tra i migranti che erano ancora all’interno e che sono stati buttati fuori. Ma, appunto, nella legge non si parla di «accoglienza abitativa», bensì di «sistemazione logistica» degli operai, lasciando perdurare l’idea che la merce-lavoro debba essere sistemata dove e fin quando serve. Peraltro, il rapporto di Medu ricorda che con i fondi utilizzati per l’apertura dei centri di accoglienza sarebbe stato possibile invece affittare abitazioni nei paesi per un numero ben maggiore di braccianti, «favorendo l’autonomia dei lavoratori e sostenendo con un piccolo reddito la popolazione locale».
Una riflessione: nella storia delle campagne italiane, i principali avversari dei caporali sono stati i braccianti e le loro organizzazioni, quando hanno conteso loro «sul campo» l’organizzazione del lavoro. Ministri e presidenti di Regione dovrebbero quindi cercare un’interlocuzione seria su questo terreno con i braccianti stranieri e le organizzazioni sindacali che li supportano (non solo quelle confederali) e che negli ultimi mesi hanno promosso molte manifestazioni. I braccianti sono invece rappresentati più come vittime da salvare che come lavoratori sfruttati cui dare strumenti per opporsi ai loro sfruttatori; interlocutori privilegiati delle istituzioni sembrano piuttosto le organizzazioni che gestiscono i centri di accoglienza.
Su collocamento, trasporto e «sistemazione logistica» si gioca buona parte dell’efficacia di questa legge: bisognerà quindi seguire con attenzione critica le proposte che i ministeri e la «Rete» faranno caso per caso, a partire dalla stagione agrumicola appena cominciata in Calabria.
Infine, questa legge non si occupa di due questioni fondamentali per una incisiva lotta al caporalato e allo sfruttamento. La prima riguarda la gestione dell’immigrazione: fino a che i migranti saranno soggetti vulnerabili sul mercato del lavoro, i caporali avranno un grande potere; ed è spesso la legge italiana la causa di questa vulnerabilità. Rendere più facile ottenere e mantenere un permesso di soggiorno di qualche tipo, nonché la residenza o il domicilio sui territori sarebbe un colpo importante contro lo sfruttamento dei braccianti stagionali. La seconda questione concerne la struttura delle filiere agroalimentari, che oggi spingono potentemente nella direzione di una compressione dei costi all’interno delle aziende agricole: sui rapporti di potere nelle filiere la legge non incide e il ruolo che potrebbe avere in questo senso la «Rete del lavoro agricolo di qualità» resta fumoso.
Fonte: rivistailmulino.it
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