di Lelio Demichelis
Per cambiare il mondo, bisogna prima capire cosa è accaduto e cosa sta ancora accadendo. Serve analizzare i meccanismi della crisi del capitalismo come biopotere; capire perché le sinistre non vi si oppongono più (neppure in senso riformista), ma anzi sostengono e promuovono il capitalismo, essendosi da tempo attivamente impegnate nella gestione dei suoi nuovi dispositivi di potere (neoliberismo e ordoliberalismo). Perché questa ultima crisi non è un «incidente» nella storia del capitalismo (la crisi ne è un elemento strutturale: de-strutturante/de-socializzante e insieme incessantemente ri-strutturante/incorporante), ma serve a «disarticolare le classi subordinate» (a un capitalismo ormai globale) «e ad annientarne la loro capacità di resistenza».
In più, occorre fare i conti con il determinismo tecnologico imperante, e quindi anche con l’operaismo e il post-operaismo; con il loro (e del primo Marx) favoleggiare digeneral intellect, di un’uscita dal capitalismo grazie alle sue contraddizioni e alla tecnologia. Del tutto incapaci – quel Marx e gli operaisti e post-operaisti – di comprendere l’essenza della tecnica, il suo essere comunque capitalista ma anche di essere un potere e un sapere in sé e per sé.
Tutto questo analizzato porta Carlo Formenti e la sua Variante populista a cercare nuovi soggetti politici capaci di fare lotta al capitalismo; e a trovarli nel populismo (in un populismo particolare, però), unica forma politica capace oggi di unificare la galassia dei soggetti conflittuali esistenti, riappropriandoci «dell’idea di popolo come unità contrapposta a élite» e riconoscendo che le sinistre hanno tutto da imparare, comunque, dal populismo. Ultima annotazione di Formenti: occorre recuperare un discorso sulla sovranità nazionale, da non confondere col nazionalismo, ma andando piuttosto verso «un’idea post-nazionalista di nazione».
Questo in estrema sintesi. In realtà, l’analisi di Formenti è molto complessa ma è soprattutto molto corretta. Meno condivisibile, per noi, la parte sul populismo. Il populismo – e Formenti lo sa – ci fa paura comunque (soprattutto perché, come riconosce, tende a escludere corpi intermedi, contrappesi di potere e società civile). Perfetta, invece, è appunto l’analisi sul capitalismo e i suoi dispositivi (anche) di crisi. Perché il capitalismo non è solo un sistema economico. Non è solo la mano invisibile di Adam Smith e neppure la sua fabbrica di spilli. Soprattutto non è più un mezzo che lo stato, la democrazia, la società possono utilizzare per raggiungere i loro obiettivi, adattandolo alla loro scelta sovrana (la democratizzazione del capitalismo è durata solo trenta gloriosi anni, poi il capitalismo ha de-democratizzato la democrazia), ma è diventato il fine (tutti capitalisti) e il nuovo sovrano. Mentre la forma capitalista è divenuta la forma della società, così come la forma tecnica della rete è diventata forma sociale e l’uomo è diventato esclusivamente un homo œconomicus (o technicus), la sua vita intera è nel mercato, per il mercato, con il mercato. E in rete, per la rete e con la rete – che è la nuova forma del capitalismo, che abbiamo altrove definito comeordoliberalismo 2.0.
Il capitalismo (con la tecnica) è ormai soprattutto una Grande narrazione (smentendo Lyotard), iper-moderna più che post-moderna; o una disciplina/biopolitica, secondo Foucault; o una egemonia compiuta, usando Gramsci; o un Grande Dio per una Grande religione tecno-capitalista, secondo noi. Capitalismo (con la tecnica) che vive non solo di scambio, ma di concorrenza (l’ordoliberalismo), di società come mercato e come impresa (il neoliberismo & l’ordoliberalismo), di mercato come ordine che deve tradursi in ordine costituzionale dello stato (ancora l’ordoliberalismo), di uno stato che deve lasciare fare (il neoliberismo) ma che soprattutto (per l’ordoliberalismo) deve promuovere il mercato e la concorrenza. Un capitalismo che non produce solo merci, ma sempre più emozioni, desideri, relazioni di comunità con l’impresa o con un brand e innovazione tecnologica incessante e anch’essa emozionante e comunitarizzante. E quindi egemonia. Condivisa, paradossalmente, anche a sinistra: Lenin ammirava il taylorismo e il cottimo, il post-operaismo ritiene che per realizzare il socialismo basterebbe abbattere l’apparato politico del capitalismo per conservarne, socializzandolo, l’apparato tecnologico.
In realtà, ricorda giustamente Formenti, «non esistono forze produttive neutre, le tecnologie non sono strumenti liberamente adattabili alle esigenze di chiunque se ne serva, bensì elementi di un ambiente complesso che incorpora nella propria costituzione materiale, nella propria forma e nelle proprie funzionalità un complesso di dispositivi di comando e di controllo in grado di selezionare comportamenti, conoscenze e attitudini individuali e di gruppo; e che quindi un’eventuale società post-capitalista, prima di poter ereditare questo apparato produttivo, dovrebbe trasformarlo radicalmente». Credere che la rete sia democratica e liberante/liberatrice in sé è un’illusione che ci fa dimenticare che «questo ambiente tecnologico incorpora un codice, un sofisticato complesso di regole e procedure che definiscono a priori cosa è possibile fare». Arrivando oggi, aggiungiamo, agli algoritmi e alle macchine che apprendono da sole, che bastano e avanzano (a differenza di quello che pensava Toni Negri) per cancellare l’idea di una società della conoscenza – perché se la conoscenza è incorporata negli algoritmi, non c’è, conseguentemente, conoscenza sociale o general intellect.
In verità, scrive Formenti, «il capitalismo non può riprodursi senza aggredire ininterrottamente tutto ciò – risorse naturali, società, culture, relazioni umane, comunità, idee, conoscenze – che sta fuori dai suoi confini; e questa spinta alla colonizzazione non si esercita solo contro il fuori geografico ma anche e sempre più contro il fuori antropologico e culturale che pure sopravvive all’interno delle aree integrate nel sistema capitalistico». Ma se questo è vero, ed è vero, «da dove si comincia, per costruire l’unità dell’insieme degli oppressi e degli sfruttati?». Non dalla rete, o dal Quinto stato, o mettendo insieme (con Aldo Bonomi) comunità di cura e comunità operosa (quest’ultima sembrandoci, semmai, una forma solo leggermente diversa di ordoliberalismo). Piuttosto, scrive Formenti, «dal basso, dagli strati più deboli ed emarginati di quelli che stanno “dentro” (gli strati inferiori del proletariato dei paesi ricchi: migranti, working poor, lavoratori del terziario arretrato, precari, cognitivi declassati) e dalle larghe masse umane che vivono “fuori” (contadini, sottoproletariato metropolitano, lavoro servile, comunità indigene)».
Malgrado il suicidio delle sinistre, «il trionfo del capitale non è avvenuto infatti a costo zero», generando forme di resistenza e di opposizione «che rilanciano il conflitto di classe come guerra tra chi sta in basso e chi sta in alto». Marx e la teoria marxista (e in particolare György Lukács), scrive Formenti, restano ancora largamente fondamentali per comprendere la realtà di oggi e per trasformarla – se si volesse.
Ma da qui si entra nella riflessione di Formenti sul populismo, sulla quale abbiamo già espresso i nostri dubbi. Perché il populismo resta per noi un concetto scivoloso, liquido e difficilmente controllabile. Dalla post-democrazia vorremmo tornare alla democrazia (radicale) e a una sinistra di sinistra. Certo è che quella di Formenti è una sfida serissima. E terribilmente difficile.
Fonte: Alfabeta2.it
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