di Stefano Kenji Iannillo e Mathieu Scialino
La Cop22 di Marrakech è stata un’ottima occasione per il regime presieduto da Mohamed VI per lavorare sull’accrescimento del proprio consenso interno e sulla propria legittimità internazionale. Il Marocco è, infatti, rappresentato in ogni zona della conferenza come uno degli esempi più virtuosi in termini di investimento nella “transizione verde” e di golvernodel fenomeno dei cambiamenti climatici da parte dei paesi “in via di sviluppo”.
La presenza dei capi di Stato e di alti rappresentanti della diplomazia internazionale hanno sicuramente contribuito ad agevolare e rafforzare la legittimità della monarchia marocchina indebolendo il ruolo di denuncia della repressione, delle nefande conseguenze delle misure neo-liberiste e la mancanza di rispetto dei diritti sociali del governo marocchino che con difficoltà le opposizioni sociali esistenti provano a portare avanti.
Attraversando il Marocco per partecipare alle iniziative legate alla COP abbiamo scoperto subito che i movimenti marocchini, per fortuna, non sono solamente quelli che – riuniti nella coalizione per la giustizia climatica – hanno presieduto ed organizzato le importantissime giornate di discussione, confronto e attivazione all’interno dello spazio autogestito nell’università di Marrakech. Che, tra le altre cose, sono portatori di un giudizio nettamente negativo sugli esiti di una COP22 - che doveva essere dell’ “azione” ma che si è persa giorno dopo giorno nel fiume di parole della diplomazia e nello spettro di Donald Trump - e della necessità della costruzione di un movimento globale per la giustizia climatica.
La presenza dei capi di Stato e di alti rappresentanti della diplomazia internazionale hanno sicuramente contribuito ad agevolare e rafforzare la legittimità della monarchia marocchina indebolendo il ruolo di denuncia della repressione, delle nefande conseguenze delle misure neo-liberiste e la mancanza di rispetto dei diritti sociali del governo marocchino che con difficoltà le opposizioni sociali esistenti provano a portare avanti.
Attraversando il Marocco per partecipare alle iniziative legate alla COP abbiamo scoperto subito che i movimenti marocchini, per fortuna, non sono solamente quelli che – riuniti nella coalizione per la giustizia climatica – hanno presieduto ed organizzato le importantissime giornate di discussione, confronto e attivazione all’interno dello spazio autogestito nell’università di Marrakech. Che, tra le altre cose, sono portatori di un giudizio nettamente negativo sugli esiti di una COP22 - che doveva essere dell’ “azione” ma che si è persa giorno dopo giorno nel fiume di parole della diplomazia e nello spettro di Donald Trump - e della necessità della costruzione di un movimento globale per la giustizia climatica.
Camminando per la città e arrivando nella centralissima piazza di Jamaa el Fna si nota subito una zona chiusa, occupata da decine di persone, tende, con pavimentazione di cartone e tappeti evidentemente necessarie per facilitare il dormire nelle situazioni di forte escursioni termiche che caratterizzano questa zona del marocco. Si notano cartelli e scritte in arabo, in francese,in spagnolo e in inglese che, provando a sfruttare la stessa presenza di tanti stranieri, amplificano un messaggio che ci è risultato subito tristemente familiare: “La privatizzazione è un crimine contro l’insegnamento”. E’ questo il cartello che ci convince definitivamente ad entrare nella zona di protesta e provare a parlare con i manifestanti per capirne le ragioni.
“La polizia dice ai turisti che siamo rifugiati algerini, mentre le guide turistiche dicono che stiamo manifestando contro il cambiamento climatico” ci dicono subito alcuni manifestanti evidenziando fin dal primo approccio la loro lotta per il riconoscimento del valore della protesta che stanno mettendo in campo.
Scopriamo che sono tutti stagisti disoccupati,laureati alla Scuola Normale di Studi Superiori e che stanno protestando da oltre 7 mesi e che negli ultimi 25 giorni - a causa dei continui silenzi del governo- quasi cento persone sono entrate in sciopero della fame all’interno della piazza più affollata della città. La scintilla che ha fatto scattare la protesta, in un contesto di istruzione pubblica definanziata e mercificata, è stato un intervento governativo volto all’assunzione di docenti per le scuole superiori attraverso un meccanismo contrattuale assimilabile al settore privato e basato, come previsto dalla nuova costituzione, sul merito: un trend che evidentemente non appartiene unicamente ai processi di precarizzazione e mercificazione dei saperi e dei luoghi della formazione in Europa.
“Chiediamo l’integrazione di 11.000 professori nella scuola pubblica, quelli individuati dal governo non sono sufficienti” ci spiega una delle voci del movimento “Il ministro vuole spingere verso la privatizzazione della scuola ma noi non ci stiamo.” Chiedono che vengano valorizzati i loro studi all’interno della scuola normale provando a contrapporre al merito da “performance” previsto nei contratti governativi, un’idea di merito da “conoscenza” che possa spingere a rivitalizzare il settore pubblico dell’istruzione costantemente sotto attacco.
Gli chiediamo, infine, cosa pensano della Cop22, del principio di responsabilità che è uno dei temi al centro delle trattative che vedono i paesi del sud rivendicare la priorità di utilizzo del fondo verde per il clima per politiche di adattamento. “Siamo tutti responsabili del cambiamento climatico ed è essenziale che la difesa di questo pianeta sia di tutti perché è difesa alla vita” e aggiungono “Ci sono delle scelte oscure che minacciano il futuro dell’umanità, ma siamo intellettuali e crediamo fortemente che si debba cambiare il nostro stile di vita per poter salvare il pianeta”. Una compresenza di temi che dimostra come l’influenza del lavoro di mobilitazione sui cambiamenti climatici contamini anche altre forme di mobilitazione nell’idea più generale di “giustizia climatica e sociale”, una delle parole d’ordine del corteo del 13 novembre.
Gli abbiamo chiesto se avessero dei supporti, se si sentivano soli. Ci hanno risposto che questa mobilitazione è sostenuta dai sindacati nazionali marocchini, come la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT) e l’Unione Marocchina del Lavoro (UMT), ma anche da alcune realtà internazionali come Via Campesina. Ed è proprio la visibilità della loro battaglia il primo obiettivo che si stanno ponendo e che li ha spinti a chiederci di far sapere a quante più persone possibile la loro lotta di dignità e coraggio che si svolge in quelle piazze Nord Africane troppo spesso dimenticate e da cui invece ci sarebbe tanto da apprendere.
Che ci spinge a dire che evidentemente la lotta contro le privatizzazioni, la mercificazione della conoscenza e della formazione e per l’accesso al sapere non può avere frontiere né confini: il fatto di aver svolto queste interviste il 17 Novembre, nella giornata internazionale delle studentesse e degli studenti, ci indica ancora una volta la necessità di costruire connessioni reali tra le due sponde del mediterraneo per riconoscerci come parte di un unico tessuto sociale in mobilitazione per la costruzione di un altro mondo possibile.
Fonte: Il Corsaro
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