Il Premier strofina la sfera di cristallo nella speranza di ribaltare i sondaggi che “ultimamente hanno sempre fallito”. A dieci giorni dal voto Renzi è spiazzato, si giustifica: “non si tratta di un referendum su di me”, e allenta la presa su una propaganda per il Sì che si annunciava serrata ma che in verità stenta a decollare, costretta ad organizzarsi in rimessa da quella giornata del 29 ottobre in cui la piazza del Popolo del Sì era impossibile da riempire persino su photoshop. Teatri e palacongressi vengono blindati, ospitando l'apparato della continuità governista e i suoi fedelissimi. Gli spin doctors raccomandano al rottamatore di Rignano di mettere da parte la sua proverbiale spavalderia... basta provocazioni, non bisogna saldare il No col fronte dell'ostilità.
E' il momento di registrare alcuni dati in itinere verso il 4 dicembre. Una continuità di presa di parola – dalle contestazioni a Renzi e i suoi ministri all'emersione imprevista delle ragioni del No come contradditorio perenne – ha minato la serenità di una campagna referendaria che i promotori del sì immaginavano liscia e trionfale. È questa la prima dimensione di una rinnovata politicità innescata da uno scontro politico che, dopo tanto tempo, si socializza in maniera allargata, oscillando, come sempre quando il confronto politico diventa patrimonio sociale, tra la messa in crisi della gestione tecnica del fenomeno e la sua indispensabile semplificazione: il No è prima di tutto No a Renzi. In questo troviamo un universo, ma anche la chiave di una scommessa politica...
Allo stesso tempo, sebbene costellata da una continuità di presa di parola contro il Sì e per quanto i sondaggi diano il No avanti di 7 punti, a oggi la dimensione della polarizzazione sociale ancora non si è trasformata in partecipazione diffusa e di massa. Il No, lo abbiamo espresso in più occasioni, ha una sua stratificazione profonda e, attualmente, la latenza sociale che usa il No per esprimere un'istanza di attacco e trasformazione sui livelli alti del dominio sulla società, serpeggia come un fiume carsico in cerca di un varco nel terreno. Lo scontro strategico, su un fronte e sull'altro, si gioca interamente sulla natura della forza che sintetizzerà politicamente queste pulsioni. Queste sono ora prese nella contradditorietà di un groviglio dove la dimensione del risentimento di classe si fonde con un bisogno di contrapposizione non per forza orientato verso l'alto e che confina, inoltre, con la crisi di mediazione di un ceto medio ostinato a difendere le garanzie formali di vecchi patti sociali per tentare di scongiurare il processo violento di definitivo declassamento operato anche tramite il progetto di riforma costituzionale. Il No vive di questi mondi, eppure se interpretassimo questo scontro come un'alternativa tra una democrazia inservibile e il mostro del populismo sbaglieremmo bersaglio, attestandoci su una lettura che tiene conto solo di ciò che oggi è manifesto nelle forme politiche, rinunciando a guardare ai processi possibili che il passaggio del 4 dicembre offre per la trasformazione stessa dei caratteri di classe che informano l'opzione del No come occasione per cacciare Renzi.
Cosa mette in connessione con questo magma di pulsioni ambigue e ambivalenti che passano per il No? Cosa ci permette di azzardarne una curvatura? E' questo ciò che teme di più Renzi, ciò che maggiormente danneggerebbe il Sì. La retorica dello scontro tra innovazione e conservazione – che articola il livello più strategico della spinta “riformatrice” - torna utile alla propaganda renziana solo a condizione che le forze del No vengano recintate al quadro politico esistente. Il No che va da Berlusconi a Salvini e che allunga i suoi tentacoli fino all'opposizione interna al PD ha certamente caratteri conservativi, o meglio, dell'autoconservazione di un quadro politico come livello invariante di dominio rispetto al quale il gioco della democrazia rappresenta la farsa della sua riproduzione. Questo No istituzionale e a noi nemico può catalizzare un suo Popolo e in parte già ne orienta i caratteri anche alle altezze dei sentimenti proletari: piazza Santa Croce a Firenze riempita da Salvini lo testimonia. Ma su proporzioni più ampie, su quelle che contano, possiamo affermare che a oggi il fronte del Sì ha ricomposto esplicitamente una serie di interessi ben definiti (l'ultimo ad accodarsi al lungo elenco che annovera Jp Morgan e Confindustria è stato De Luca con il suo appello agli amministratori locali per sostenere il sì e “continuare a far arrivare fiumi di quattrini”), mentre sul versante del No, all'insufficienza del polo istituzionale corrisponde un polo fantasma del No che ancora deve trovare le forme della sua espressione politica esplicita.
Possiamo qui mettere un primo punto fermo: perché attorno al No si ricomponga una dimensione politica esplicita, con dunque il suo peso specifico e il suo carico di minaccia, occorre che il consenso al No si traduca in attivazione e partecipazione reale. Paradossalmente la forza politica che negli ultimi anni ha annoverato più accuse di populismo tra tutte, il Movimento 5 stelle, evita come la peste di tradurre il suo No in una convocazione di popolo reale. Serpeggia in loro proprio la paura di una torsione populista del popolo – del web, italiano e italiota - che comprometterebbe la compatibilità del movimento con una candidatura di governo perché, in primo luogo, la dimensione del populismo che inquieta le élite politico-finanziare è quella di una società non immediatamente reintegrabile che, in quanto tale, rappresenterebbe un indebolimento delle istituzioni e della loro capacità di dialettizzare i conflitti. Un'istantanea di un passato recente suggerisce scenari futuri possibili: la rielezione di Napolitano a Presidente della Repubblica vide l'autosabotaggio delle proprie convocazioni di piazza da parte del 5 stelle per timore che aumentasse la fiducia del ribaltare il golpe bianco di Re Giorgio. E ora? La manifestazione del 27 novembre a Roma rappresenta al momento l'unico momento collettivo in cui misurare una possibilità di attrezzare un avvertimento contro il golpe costituzionale. Per farlo si è posta un obiettivo semplice: riempire piazza del Popolo a una settimana dal voto per consolidare una fiducia e aprire a nuove possibilità dalla sera del 4 dicembre in avanti.
Ma cosa significa oggi, per noi, guardare alle forme non ancora manifeste dei comportamenti politici a venire? All'ignoto che avanza anche e soprattutto nelle forme di contrasto a questa forma di democrazia come espressione dell'invarianza del comando politico innestata su una dialettica apparente e mistificata tra resistenza e innovazione? Bisogna qui porre un altro punto fermo: il passaggio del referendum costituzionale del 4 dicembre intensifica la crisi delle forme politiche esistenti; di tutte. Questa crisi è voluta e ritenuta amministrabile a livello capitalistico a condizione che lo scontro tra il Sì e il No si configuri come conflitto tra innovazione capitalistica e resistenza a questa. “Se vince il No il Pil va giù e sale lo spread”, dice Renzi; Confindustria lancia il campanello d'allarme e si allinea con il governo: se non passa la riforma il Pil cala dell'1,7% e gli investimenti del 12,1%... come dar loro torto? In questo senso esiste un No impossibile: quello che guarda alla difesa della carta costituzionale come strumento tradito e da applicare nell'orchestrare una dialettica democratica e progressista del conflitto tra lotte e sviluppo. Ma, al livello attuale della crisi e della progettualità capitalistica al suo sviluppo di finanziarizzazione, è questa stessa dialettica tra lotte e sviluppo a collassare. Poiché si attestano su questa dialettica come ricetta di uscita dalla crisi, le forme del No circoscritte al già noto e dunque al quadro istituzionale, sono forze della resistenza all'accelerazione capitalistica ma soggette a un recupero. Qualsiasi destra no-global o sinistra neo-keynesiana si spappola nel tentativo di restaurare un controllo della politica a questo livello della crisi per gestire le forme dell'integrazione sociale nel rapporto di capitale. La lezione greca di un anno e mezzo fa ha da dire molto su questo aspetto. Il nodo per un prospettiva nostra resta il medesimo: non quanta forza abbia un No in quanto tale, circoscritto alle sue condizioni politiche date, ma quali forze possa attivare per aprire nuove possibilità contro gli equilibri vigenti.
Nello scontro tra il No e il Sì, la linea tangente al conflitto tra resistenza e innovazione capitalistica si può sviluppare come un motore di aspettativa collettiva che contro una fase di instabilità sociale, incertezza e impoverimento, aspira ad una fase di destabilizzazione sociale e politica come occasione di trasformazione di assetti sistemici complessivi. Questo passaggio, non ce lo siamo mai nascosti, non può darsi senza la vittoria del No la sera del 4 dicembre e senza l'attivazione di quella composizione mediana che non accetta le condizioni dell'integrazione attuali e che cova la disillusione rispetto alla promessa di innovazione capitalistica, oggi incarnata dalla farsa del renzismo. I dati statistici sulle intenzioni di voto definiscono uno spaccato chiaro: attorno al No si aggruma una gioventù piegata dai voucher, un meridione disilluso, ceti medi impoveriti che pure riposero nella speranza democratica e renziana la loro residua fiducia negli apparati politici. Esiste una curvatura possibile in senso antagonista di queste dimensioni interne alla classe ma governate da interessi contrastanti, spesso orientati dall'alto? Pensiamo di sì, che ci siano i margini per questa possibilità a condizione anche di contemplare un attraversamento della simbologia – dalla difesa della costituzione alla democrazia - che oggi innerva le pratiche discorsive e i codici di resistenza al progetto renziano. Chi è preoccupato da questa accozzaglia?
Lo capiremo meglio la sera del 4 dicembre...
Fonte: infoaut
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