La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 24 novembre 2016

Produttività del lavoro e precarietà: il circolo vizioso dell’economia italiana

di Andrea Fumagalli 
Sul Corriere della Sera del 21 novembre 2016, Alesina e Giavazzi tornano a colpire per ribadire la necessità di politiche neoliberiste e per dar man forte al governo Renzi, lodando la riforma del mercato del lavoro targata Jobs Act. Lo spunto è di estrema attualità e riguarda lo scarso trend della produttività oraria del lavoro in Italia, soprattutto se comparato a quello degli altri paesi europei e Usa. Come scrivono i due autori: “In un ventennio la produttività oraria nelle aziende italiane è cresciuta in tutto del 5 per cento. Negli Stati Uniti, nel medesimo periodo, otto volte di più: 40 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania sei volte di più. Anche Spagna e Portogallo hanno fatto meglio: + 15 per cento in Spagna, tre volte più che noi, e + 25 per cento in Portogallo, cinque volte di più”.
Alesina e Giavazzi forniscono spiegazioni per tale deludente risultato. Un risultato che di per sé, dal momento che la produttività oraria, se riferita al solo fattore produttivo lavoro, è un indicatore del tasso di sfruttamento, non sarebbe del tutto negativo, se fosse derivato da un rallentamento dei ritmi e da migliori condizioni lavorative. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che non è così. Anzi, in Italia negli ultimi anni, lo sfruttamento è aumentato, sino a diventare più pervasivo e ad avvolgere parti crescenti del tempo di vita e non solo quello di lavoro. Nonostante ciò, c’è ancora chi imputa tale scarsa performance alla mancanza di attitudine stakanovista dei lavoratori italiana, soprattutto se giovani, denominati, ora bamboccioni, ora fannulloni, ora choosy e via dicendo.
Alesina e Giavazzi si guardano bene dal dirlo, anche se poi il loro ragionamento, come vedremo, allude alla carenza di efficienza per un eccessivo protezionismo sociale e a una serie di concause.
La prima è il “nanismo” delle imprese italiane. Si suppone che “le aziende piccole tendono — in media, non tutte — ad essere meno produttive di quelle grandi”. Ciò che era stato negli anni passati un “supposto” punto di forza dell’economia italiana, tradotto nello slogan “piccolo è bello” (maggior flessibilità del lavoro, duttilità di organizzazione, assenza del sindacato, più liberismo di impresa) diventa oggi una palla al piede. Possiamo anche concordare in tale interpretazione se ci si riferisce, però, al solo settore manifatturiero (che pesa intorno al 30% dell’intero economia). Nei settori dei servizi, infatti, – soprattutto quelli a più alta intensità cognitiva -, diversi studi e l’evidenza statistica mostrano che i settori a più alto valore aggiunto per ora lavorata sono proprio quelli con la dimensione d’impresa inferiore (Appendice Relazione Banca d’Italia, maggio 2016, tab. A6.3, pag. 38).
Di conseguenza il “nanismo” delle imprese non è una spiegazione sufficiente. E infatti, in modo più che corretto, i due autori, affermano che c’è una seconda ragione, in parte collegata alla prima: la struttura proprietaria delle imprese italiane. “L’86 per cento circa delle nostre imprese è di proprietà familiare. In Germania sono anche di più: circa il 90 per cento. Ma mentre in Germania meno del 30 per cento delle imprese familiari è gestito da membri della famiglia — e tutte le altre da manager professionisti — in Italia quasi il 70 per cento è gestito in famiglia”. Vari studi confermano che le imprese a gestione familiare sono in media meno produttive di quelle a gestione professionale e rimangono, in media, più piccole, proprio per “tenere tutto in famiglia”. Sulla scarsa dinamica della produttività incide quindi una carenza di managerialità. D’altra parte è noto che in Italia quella “rivoluzione manageriale” che è avvenuta negli Stati Uniti negli anni Venti del secolo scorso, ben descritta da Rudolf Hilferding in “Il Capitale finanziario” e che ha accompagnato la diffusione del taylorismo, in Italia non si è mai verificata: anzi la crescita del capitalismo nazionale (al pari del “non-welfare”) si è sempre basata su un forte apparato collusivo con il potere bancario e politico in una logica di arretratezza bigotta e corporativa (altro che mito del “made in Italy”).
Ma tale spiegazione, che punterebbe il dito verso una classe imprenditoriale impreparata e incapace, ha a sua volta una causa nascosta: l’allocazione delle risorse produttive è inefficiente. “Cioé non c’è stato abbastanza ricambio. Le imprese meno produttive non sono uscite dal mercato, così lasciando spazio a quelle più produttive. Questo è uno dei risultati delle politiche che per decenni, fino al Jobs Act, hanno difeso il posto di lavoro invece che il lavoratore. Un sistema di protezione sociale fortemente voluto dai sindacati e che ha obbligato a mantenere in vita imprese poco produttive, anziché facilitarne l’uscita dal mercato proteggendo temporaneamente il disoccupato, finché quest’ultimo non abbia trovato lavoro in una impresa più produttiva”.
Detto in altri termini: la scarsa capacità imprenditoriale media delle imprese italiane è causata dalla eccessiva presenza dei sindacati e da un eccessivo sistema di protezione sociale. Per fortuna, gli interventi “de-regolatori” introdotti con il Jobs Act (liberalizzazione dei licenziamenti ma accompagnati da forti incentivi fiscali e l’esplodere dei voucher) pongono fine a queste rigidità sindacali e sociali, che hanno impedito alla libera concorrenza di selezionare le impresi più efficiente a scapito di quelle inefficienti e meno produttive.
Ancora una volte la fede nella potenza taumaturgica del libero mercato di allocare in modo ottimale le risorse economiche in modo meritocratico si libra nell’aria.
Certo, tale potenza liberatrice ed efficiente del mercato poi incontra difficoltà perché non c’è un adeguato livello di “capitale umano” per via dell’università pubblica (forse, perché non sufficientemente “privatizzata”?) che fa sì che l’Italia sia il finalino di coda in Europa per numero di laureati e per il fatto che “il 40% dei nostri studenti universitari si è laureato in materie umanistiche o in giurisprudenza. Solo il 29% in ingegneria, chimica, biologia e altre discipline scientifiche”[1]. Un insegnamento troppo criticamene teorico e meno applicativo è quindi concausa della minor produttività italiana.
Questo articolo di Alesina e Giavazzi, riconosciuti esponenti del pensiero economico mainstream, è paradigmatico sia dal punto di vista del metodo che dal contenuto ideologico.
Si parte da un problema reale – la bassa produttività dell’economia italiana è fuori discussione – per arrivare a sostenere tesi che portano acqua al mulino del potere politico in carica. La conclusione politica dell’articolo è eloquente: “Deve essere chiaro a tutti che se dopo il 4 dicembre non ci rimboccheremo le maniche e accelereremo le riforme che il governo Renzi ha finalmente incominciato a fare, come il Jobs Act appunto, saremo destinati ad uno straordinario declino”, quasi a sostenere che è il rischio che le cosiddette “riforme” renziane (e la revisione della Costituzione è una di queste) non passino a essere la causa della scarsa produttività.
Da questo punto di vista, a nostro parere l’analisi di Alesina e Giavazzi è esempio di come si possano confondere le cause con gli effetti nello spiegare un fenomeno reale per fini ideologici.
Vediamo perché.
In primo luogo, il dato relativo alla produttività del lavoro deve essere scomposto in più fattori, a partire da quella del capitale e dalla produttività totale dei fattori (quella derivante dall’utilizzo congiunto di macchine e forza lavoro).
Tra il 1995 e il 2015 la produttività del capitale, definita come rapporto tra il valore aggiunto e l’input di capitale, ha registrato una significativa diminuzione pari a -0,9% in media annua, risultante da un aumento dell’input di capitale (+1,5%) superiore a quello del valore aggiunto (+0,5%). Scomponendo il capitale per tipologia, l’input della componente che incorpora le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Information and Communication Technology – ICT) è aumentato in media d’anno del 2,4%, la componente immateriale non – ICT (che comprende la Ricerca e Sviluppo) del 3,2% e la componente di capitale materiale non -ICT dell’1,2%. Di conseguenza la produttività del capitale ICT è diminuita dell’1,8%, quella del capitale immateriale non – ICT del 2,6% e quella del capitale materiale non -ICT dello 0,6% (qui le fonti statistiche).
Da questi dati, è evidente che la dinamica insoddisfacente sella produttività oraria dipende dalla scarsa produttività del capitale, sia tangibile che, soprattutto, intangibile.
In altre parole, è l’incapacità di sfruttare al meglio le economie di scala dinamiche interne ai processi di apprendimento e di rete a spiegare meglio di qualsiasi altro fattore tali deludenti risultati.
È l’esito, insomma, di una inadeguatezza tecnologica e di una strategia imprenditoriale che privilegia logiche di breve periodo che si basano sulla riduzione dei costi di produzione e sul non rinnovamento del capitale, soprattutto intangibile, invece che sul miglioramento qualitativo della produzione. La specializzazione produttiva dell’economia italiana poi fa il resto: si punta su produzione tradizionali a basso contenuto tecnologico e a scarso valore aggiunto invece che sui comparti in grado di produrre maggior ricchezza. Ma, a differenza di quanto pensano Alesina e Giavazzi, tale dinamica non dipende dal fatto che il “capitale umano” (ovvero, il bacino di competenze e il livello medio dell’istruzione) sia scarso – anche se non adeguatamente diffuso -, tanto è vero che l’Italia esporta più cervelli di quanto ne importi (dando luogo a una nuova forma di migrazione intellettuale e giovanile che non ha paragoni nel resto d’Europa), ma dal fatto che tale capitale umano non ha la possibilità di esprimersi perché stretto dalla morsa della precarietà e dai bassi salari.
Ed è proprio la diffusione della condizione precaria (condizione che per Alesina e Giavazzi non esiste, presi come sono a denunciare ancora l’eccessiva protezione sociale garantita dai sindacati – ???) con il connesso bagaglio di ricattabilità di reddito, intermittenza di apprendimento e di rete a non consentire il necessario adeguamento tecnologico e la crescita della produttività.
Sono questi i fattori principali che spiegano il circolo vizioso dell’economia italiana e il perdurante fallimento delle politiche economiche degli ultimi 20 anni: politiche economiche che, in nome degli interessi del profitto e della rendita, hanno sempre privilegiato il lato dell’offerta via incentivi, regalie e riduzione di tasse per il sistema delle imprese, con l’illusione che lo smantellamento dei diritti del lavoro e il peggioramento delle condizione di reddito potessero agevolare l’aumento degli investimenti.
Come ha dimostrato Riccardo Realfonso, facendo ricorso al database messo a disposizione dall’OCSE per calcolare l’Employment Protection Legislation Index (EPL), che misura il grado di protezione generale dell’occupazione previsto dall’assetto normativo-istituzionale di ciascun Paese, già nel 2013 – quindi ben prima dell’introduzione del Jobs Act – per l’Italia tale indice era inferiore a quello tedesco e francese. Figuriamoci ora, nel 2016.
Anzi, il Jobs Act, precarizzando ulteriormente il lavoro (e quindi i redditi) non solo non ha favorito gli investimenti ma ne ha peggiorato la qualità, con l’effetto di incidere ancor più negativamente su un trend della produttività già scarso.
Non è quindi la bassa produttività a spiegare i bassi salari e la scarsa efficienza del sistema economico italiano, ma l’opposto. È l’eccesso di precarietà a spiegare, meglio di qualsiasi altro fattore, gli andamenti. Chi di precarietà ferisce, di precarietà perisce.

NOTE

[1] Chissà in quale settore Alesina e Giavazzi collocano gli studi economici.

Fonte: Effimera 

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