di Isabelle Garo
La questione del popolo in Marx è complessa, a dispetto delle tesi troppo nette che spesso gli vengono attribuite in proposito. A una prima lettura, in effetti, si è portati a pensare che Marx costruisca la categoria politica di proletariato proprio in contrapposizione a quella classica di popolo, eccessivamente inglobante e soprattutto omogeneizzante, la quale inoltre occulterebbe i conflitti di classe. In tal senso la nozione di popolo sarebbe chimerica, foriera di pericolose illusioni laddove politicamente strumentalizzata.
Tuttavia se Marx diffida di qualsiasi concezione organica di popolo, riprende comunque il termine in svariate occasioni e, in particolare, quando si occupa delle lotte nazionali del suo tempo, in specie se mirano a conquistare l’indipendenza dalle potenze colonizzatrici. E vi ricorre ugualmente se si tratta di definire le specificità nazionali, caratterizzanti i rapporti di forza sociali e politici costantemente singolari, i quali, a suo modo di vedere, vanno sempre analizzati in un tale quadro nazionale. Infine, la parola popolo designa un certo tipo di alleanza di classe in un contesto di conflitti sociali e politici di grande ampiezza.
In queste tre occorrenze, Marx non separa mai il termine «popolo» dalle divergenze sociali, quali che siano, al contrario. Va tenuto a mente come egli lo erediti direttamente dalla Rivoluzione francese e dalle opere politiche che le fanno da cornice, da Rousseau sino a Babeuf e Buonarrotti: secondo questa tradizione, il concetto di popolo indica i gruppi sociali opposti all’aristocrazia, niente a che fare, dunque, col sostantivo indifferenziato valorizzato dagli usi posteriori.
Affronterò questi tre diversi usi marxiani del termine, confrontandoli alla questione del proletariato elaborata da Marx contemporaneamente. Elaborazione nel corso della quale Marx si interessa, in modo specifico, alle lotte di emancipazione e alla colonizzazione, per quanto riguarda India e Cina, impegnandosi attivamente nel sostegno all’Irlanda e alla Polonia.
I. Popolo e proletariato, concetti antagonisti?
Non bisogna dimenticare che la nozione di proletariato ha origini lontane nel tempo. Inizialmente essa non indica il popolo, ma una sua frazione, caratterizzata dalla condizione sociale. Condizione definibile secondo due modalità distinte: sia come deprivazione e povertà; sia come situazione di sfruttamento e dominazione, qualora ci si concentri su un modo di produzione, e quindi una funzione sociale attiva, e non esclusivamente su uno statuto economico subalterno. Schematicamente, è corretto affermare che in Marx tale concetto transita, irreversibilmente, dal primo al secondo significato.
Riprendiamo, brevemente, il corso di questa storia: nel diritto romano i proletari, dal latino proles, "lignaggio", costituiscono l’ultima classe dei cittadini, sprovvisti di qualsiasi proprietà e considerati utili solo per la loro discendenza. A questo titolo essi sono esentati dal pagamento delle imposte. Recuperato dal francese medio, il termine sperimenta un rinnovato interesse nel XIX secolo, allorché si sviluppa la critica sociale, politica, economica del nascente mondo industriale.
In tale contesto il sostantivo "proletariato" appare nel 1832 a indicare l’insieme dei lavoratori poveri, la cui miseria viene percepita come risultato dell’egoismo delle classi dirigenti. È la tesi difesa da colui che lo utilizza per primo, Antoine Vidal, nel primo giornale operaio Francese, L’écho de la fabrique[1]. È in riferimento diretto alla rivolta dei canut [operai tessitori della seta, n.d.t.] lionesi del 1831 che egli inventa il termine nel 1832. A detta di Vidal, «la classe proletaria» è al contempo la più utile alla società e la più disprezzata. Colpisce anche il fatto che egli rivendichi come essa sia «qualcosa», rifacendosi, in tal modo, alle parole e alla tematica di Sieyès in Che cos’è il Terzo stato? [1789], ridefinendo, allo stesso tempo, i confini sociali di una classe popolare che non coincide più con in contorni giuridici del terzo stato dell’antico regime.
In un secondo tempo viene trasposto in tedesco, nel 1842, dall’economista Lorenz von Stein, studioso delle correnti socialiste, in particolare quelle francesi, pur essendo ostile al comunismo. In seguito viene ripreso dal giovane hegeliano Moses Hess, all’epoca vicino a Engels e Marx, tutti e tre comunisti dichiarati. Lo si ritrova nel 1843, negli scritti di Marx, nei quali acquisisce un senso nuovo e un’importanza teorica centrale. Una ridefinizione, quella marxiana, che si articola in tre tappe.
1. Dapprima il termine compare alla fine del 1843, in conclusione della critica apportata dal giovane Marx alla filosofia hegeliana del diritto. Nell’introduzione da lui redatta per il manoscritto di Kreuznach, nel quale viene affrontata la critica della concezione hegeliana dello stato, viene designato il soggetto sociale protagonista dell’emancipazione generale della società civile moderna. Il proletariato, in quanto classe che «subisce l’ingiustizia di per sé», non può che «conquistare nuovamente sé stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo»[2].
2. Ne L’ideologia tedesca [1845] e in seguito nel Manifesto del partito comunista [1848], Marx e Engels affermano il ruolo di motore della storia giocato dalle lotte di classe e definiscono l’antagonismo moderno che contrappone il proletariato e la borghesia. Si precisa in tal modo un’analisi nella quale si era inizialmente impegnato Engels nel suo studio La situazione della classe operaia in Inghilterra. Il proletariato si distingue per il posto occupato in un modo di produzione e nei rapporti sociali corrispondenti. Esso costituisce, allo stesso tempo, la classe che produce la ricchezza senza possedere i mezzi di produzione, e quella chiamata, proprio in ragione di questo fatto, alla trasformazione radicale del capitalismo.
3. Infine, nel Capitale e nel vasto insieme dei manoscritti preparatori, la scoperta del plusvalore e della sua origine: la frazione di tempo di lavoro non pagata della quale si appropria il capitalista, consente a Marx di precisare tale nozione e di esporne la dimensione dialettica. Il proletariato non è innanzitutto povero, bensì espropriato della ricchezza sociale da lui prodotta. In conseguenza di ciò, la sua unità e la sua identità di classe si costruiscono in contraddizione col carattere privato dell’appropriazione borghese, prefigurando il comunismo. Ma, d’altra parte, il proletariato subisce una forma di concorrenza tra i suoi membri, concorrenza favorita dalla classe capitalistica e che costituisce un potente ostacolo alla sua presa di coscienza unitaria e al suo ruolo rivoluzionario.
Il proletariato in senso marxiano è una nozione che si vuole socialmente descrittiva ma allo stesso tempo presenta una dimensione politica e filosofica costitutive. Vorrei insistere soprattutto sul primo momento di tale costruzione.
In effetti, nell’Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, scritta a partire dalla fine del 1843, Marx sviluppa la tesi concernente il ruolo storico del proletariato moderno, e più specificamente del proletariato tedesco. Ora, lungi dal proporre la sostituzione del proletariato al popolo, vi si mettono in relazione dialettica i due concetti. Da una parte, Marx distingue due storie nazionali e due scenari di emancipazione: «Noi infatti abbiamo condiviso le restaurazioni dei popoli moderni senza condividerne le rivoluzioni. Abbiamo subito la restaurazione, in primo luogo perché altri popoli osarono una rivoluzione, e poi perché altri popoli subirono una controrivoluzione»[3].
Qui le nozioni di popolo e di rivoluzione (o di controrivoluzione) si richiamano l’un l’altra. Esistono delle culture politiche popolari, e tali politiche conducono a porsi a favore o contro la rivoluzione, quest’ultima avente come modello la «grande» rivoluzione antifeudale francese. In rapporto a questa prospettiva, la quale coniuga popolo e rivoluzione, Marx utilizza il concetto di proletariato collegandolo a un nuovo tipo di rivoluzione, più avanzata, che può essere qualificata come anticapitalista o comunista, e che radicalizza quella precedente. Ne deriva che le lotte tedesche, per quanto arretrate, presentano comunque una portata universale, allo stesso titolo della Rivoluzione francese a suo tempo.
Successivamente si ritroverà, ben più sviluppata, l’idea per cui le lotte di emancipazione di un popolo sono importanti per la sorte di tutti gli altri. Da tale punto di vista, la solidarietà con i popoli oppressi è molto più della filantropia. Detto in altri termini, essa non è solo di natura morale, bensì di ordine fondamentalmente politico: «E anche per i popoli moderni questa lotta contro la meschinità dello status quo tedesco non può essere priva d’interesse; lo status quo tedesco costituisce infatti l’aperto compimento dell’ancien régime, e l’ancien régime è la tara occulta dello stato moderno»[4].
Così la nozione di popolo conserva la propria validità, a dispetto dei suoi limiti, a causa del persistere dell’ancien régime, ivi compreso nelle nazioni che hanno realizzato la loro rivoluzione antifeudale. Ossia questa rivoluzione parziale e incompiuta si fa matrice di rivoluzioni ben più radicali, nello stesso modo in cui i popoli si determinano come classi popolari, esse stesse, più o meno radicali, essendo il proletariato il nome di una tale radicalizzazione, allo stesso tempo sociale e politica.
È a questo punto che ci si imbatte in una definizione del proletariato estremamente originale: frazione del popolo, lo rappresenta nella sua interezza così come, tendenzialmente, l’umanità stessa, a causa della condizione che subisce e delle esigenze politiche e sociali delle quali è portatrice. Si è dunque ben lontani dal proporre una secessione sociale, che isolerebbe il proletariato dalle altre componenti, facendone un’avanguardia sociale e politica; viceversa, è come rappresentante universale, rappresentante di fatto della sofferenza, dello sfruttamento e della volontà di emancipazione, che il proletariato si distingue in quanto classe offensiva capace di organizzarsi politicamente.
Tuttavia è necessario precisare che esattamente in virtù di questa dimensione universale la rivoluzione a venire non è, e non sarà, una semplice rivoluzione politica. «Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca?» è l’interrogativo posto da Marx. Interrogativo al quale così risponde: «nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda un carattere universale [...] che non possa più appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano [...], una sfera, infine, che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo. Questa decomposizione della società, in quanto classe particolare, è il proletariato»[5].
Marx non cambierà idea riguardo al carattere umano, vale a dire universalmente umanizzante, dell’emancipazione sociale. Ciononostante, dopo essere entrato in quello che definisce il «laboratorio della produzione», ossia dopo essersi impegnato nella critica dell’economia politica, svilupperà una concezione più complessa e meno ottimista del proletariato come classe offensiva, lasciando sempre maggior spazio alle contraddizione che lo dividono. La concorrenza operaia è inscritta nei rapporti di produzione capitalisti e sistematicamente strumentalizzata dalla borghesia, in particolare dalla sua componente industriale. Ma Marx insisterà ugualmente sull’emergere, nel quadro della nascente grande industria, del lavoratore combinato complessivo, portatore di una cultura e di facoltà umane sviluppate, lontano da ogni miserabilismo e da qualsiasi «vittimizzazione». Infine, lascerà posto alla complessità del processo politico che dovrebbe condurre all’abolizione dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, e dunque al comunismo.
Ad ogni modo, la concezione del rapporto tra proletariato e popolo si rivela sin dall’inizio contraddittoria, o più esattamente: eminentemente dialettica, il che è assai differente. Poiché Marx, che si occupi di politica o economia, non cessa mai di essere filosofo. Qui la singolarità è il luogo nel quale emerge l’universale, e non il luogo della formazione di un’identità separata e chiusa in se stessa. Lo stesso vale per le nazionalità: suddivisione dell’umanità in entità politiche mai completamente isolate, le nazioni sono in alcuni casi, e in determinati momenti, espressione di una storia emancipatrice che le rende universali.
II. Popoli in lotta e liberazione nazionale
Così, parallelamente alla specificazione sociale e politica delle classi nel quadro del modo di produzione capitalista, la nozione di popolo continua essere utilizzata da Marx per pensare delle realtà nazionali diverse, irriducibili, nelle quali si specificano singolarmente i rapporti di classe. Anche su tale punto spesso viene imputata a Marx una sottovalutazione profonda della questione delle nazionalità e delle differenze nazionali, in previsione di un proletariato mondializzato, costituito di operai che «non hanno patria», come proclama il Manifesto del partito comunista[6] nel 1848, alla vigilia della «primavera dei popoli», nel momento in cui si risvegliano le coscienze nazionali. Ancora una volta, l’analisi marxiana è ben più complessa di quanto si pensi abitualmente.
Da un lato Marx e Engels riconoscono questa dimensione nazionale, costitutiva della costruzione di distinti movimenti operai, funzione di un grado di sviluppo economico e sociale determinato, così come di un livello di cultura politica determinata: «sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia»[7].
Qui l’idea di nazione tende a rimpiazzare quella anteriore di popolo, definita in base al suo antagonismo con l’aristocrazia. La nazione è il quadro di un rapporto sociale che coinvolge tutte le classi, che siano dominanti o dominate. Ma l’analisi prosegue anche su un altro livello: da una parte si sofferma sulla capacità uniformante del mercato mondiale, la quale entra in contraddizione, dall’altra parte, col mantenimento, e il rafforzamento, delle specificità nazionali. In tal modo Marx e Engels per un certo tempo continuano a pensare che la rivoluzione tedesca, prima antifeudale e poi borghese, «non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria»[8]. Uno scenario, quest’ultimo, che verrà profondamente modificato in seguito, e ripetutamente.
Se la dimensione nazionale viene presa infatti in considerazione, Marx e Engels affermano contemporaneamente la forza di espansione mondiale del capitalismo, forza ritenuta inizialmente omogeneizzante, tesi corretta da Marx in seguito. Si potrebbe supporre che in un testo pensato quale manifesto politico, Marx e Engels si impegnino a far valere una prospettiva che in seguito verrà qualificata come «internazionalista», della stessa ampiezza del mercato mondiale in via di formazione, ma latrice di tutt’altra prospettiva. Di fatto il testo che segue alla celebre affermazione «Gli operai non hanno patria» aggiunge: «Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché non certo nel senso della borghesia»[9]. Evidentemente si potrebbe chiosare: in alcun modo nel senso inteso in seguito dai nazionalismi sciovinisti.
Marx e Engels così proseguono: «L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa rispondenti. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più». E poche righe dopo leggiamo: «Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi nell’interno della nazione scompare l’ostilità fra le nazioni stesse»[10]. Internazionali, sebbene anticipatamente, le lotte dei proletari nazionali hanno la nazione come quadro ma non come obiettivo.
Il proletariato rappresenta qui, seppur temporaneamente, la figura del popolo, o più esattamente la sua riconfigurazione sociale e politica? Sì e no. No riguardo all’argomentazione da me chiarita, sì invece, nel quadro delle lotte nazionali miranti all’emancipazione. In questo caso un parallelismo emerge tra la lotta del proletariato, in un contesto nazionale quale che esso sia, e quella di alcuni popoli, ai quali l’oppressione subita conferisce un ruolo storico di primo piano, e ancora una volta una portata universale.
La parola "popolo" vede allora coincidere i suoi due significati, fusi in un’inedita definizione. Il popolo è un’entità politica delimitata nazionalmente, ma allo stesso tempo è quell’entità sociale in lotta con e contro altri sul piano internazionale: possiamo affermare che la valenza descrittiva o analitica del termine recupera di nuovo la propria dimensione politica, aperta alla radicalizzazione. Se la nozione di "popolo" non diviene occasione di una teorizzazione separata, essa non scompare dal dizionario marxiano poiché è la sola a consentire di comprendere i movimenti di indipendenza nazionale in quanto lotte anch’esse universali, e ciò anche al di là della loro componente proletaria. È il caso, beninteso, dei contadini in lotta contro una potenza coloniale.
Questa ripresa apre a una riflessione nuova e assolutamente essenziale circa le prospettive di rivoluzione comunista. Infatti da questo momento in poi Marx si orienta verso scenari che sfuggono a qualsiasi linearità, i quali non fanno della costituzione di un proletariato nazionale la condizione sine qua non dell’emancipazione. Altrimenti detto, diviene possibile la possibilità di pensare l’approdo al comunismo senza passare necessariamente per la via capitalista. E la nozione di popolo appare di nuovo come la più adeguata al fine di pensare tali processi differenziati.
In effetti Marx inizia a abbandonare, nel corso degli anni Cinquanta del XIX secolo, la tesi della portata civilizzatrice della colonizzazione, della quale si trova traccia nei suoi scritti precedenti. Alla luce in particolare delle situazioni indiana e cinese, che egli studia in quel periodo, Marx ritiene che la peggiore barbarie si trovi dalla parte dei britannici. Parallelamente crescono l’interesse e l’impegno per la Polonia e l’Irlanda, nonché a favore degli antischiavisti americani, prima di rivolgersi alla Russia.
Il caso dell’Irlanda è particolarmente interessante, per ciò che concerne il rapporto tra popolo, classe operaia e nazione così come Marx cerca di concepirli, modificando nel corso del tempo il proprio punto di vista iniziale. Mi appoggio in proposito alla notevole opera di Kevin Anderson: Marx at the margins[11]. Nei suoi articoli e dichiarazioni sull’Irlanda, in questo periodo, Marx lavora per combinare le questioni di classe, identità etnica e delle realtà nazionali, già affrontate precedentemente.
In Irlanda il proletariato si presenta come frazione del proletariato britannico, frazione super sfruttata e dominata. Contemporaneamente l’Irlanda si presenta come colonia britannica in lotta per la propria indipendenza nazionale. A fronte di tale complessa situazione Marx e Engels consigliano ai rivoluzionari irlandesi di attribuire alle questioni di classe tutta la loro importanza, rimproverando loro il ricorso alla violenza come la fissazione religiosa e identitaria.
D’altra parte Marx giunge gradualmente a considerare il movimento irlandese come punto d’appoggio delle lotte operaie inglesi, e non viceversa. In una lettera a Engels del 10 dicembre 1869 scrive: «Per lungo tempo ho pensato che fosse possibile abbattere il regime irlandese mediante l’ascendancy della working class inglese [...] uno studio più approfondito mi ha convinto ora del contrario. La working class inglese non farà mai nulla, before it has got rid of ireland ["prima che si sia liberata dell'Irlanda"]. Dall’Irlanda si deve far leva. Per questo motivo la questione irlandese è così importante per il movimento sociale in genere»[12].
Presente anche su suolo inglese, la classe operaia irlandese è occasione di dissensi interni al movimento operaio, i quali paralizzano quest’ultimo e vengono scientemente favoriti dal padronato inglese, sul modello del razzismo e dello schiavismo nordamericani. Su questo punto Marx riconosce una coscienza ben superiore alla classe capitalista, infatti laddove la classe lavoratrice, sia essa inglese o irlandese, non perviene a superare i propri antagonismi, la lotta delle razze e la xenofobia hanno la meglio sulla lotta di classe, la quale dovrebbe logicamente federare proletariato britannico e sottoproletariato irlandese.
Per concludere, in merito alla considerevole rilevanza politica di tali riflessioni, due osservazioni sulla questione del popolo mi sembrano importanti.
La prima riguarda il famoso dibattito che vedrà contrapporsi Marx a Bakunin in seno alla Prima internazionale. È nota l’accusa di autoritarismo e statalismo rivolta da Bakunin a Marx. Meno noto è il fatto che tale contrasto concerne anche la situazione in Irlanda. Del tutto diversiva, a detta dei bakuniniani, la causa irlandese nuocerebbe a quella rivoluzionaria. Secondo Marx, essa ne è invece una componente, l’emancipazione dei popoli oppressi contribuendo a quella operaia, e più largamente, all’emancipazione umana.
La seconda concerne la specificità della società irlandese: l’Irlanda è innanzitutto una colonia agricola dell’Inghilterra, il che spinge gli indipendentisti a fare dell’insurrezione contadina il punto di partenza della rivoluzione nazionale. È prima di tutto contro l’oligarchia agraria inglese che lotta il popolo irlandese, il che porta Marx a attribuire alla questione della proprietà della terra un ruolo politico chiave, come base di partenza di una rivoluzione sociale nella stessa Inghilterra.
Questo pone a sua volta il problema delle alleanze di classe, in particolare quello dell’alleanza tra la classe operaia e i contadini, assi lontano dall’idea che il proletariato sarà la sola classe a condurre la storia e le rivoluzioni. Per altro una tale analisi si inscrive nella riflessione sempre più raffinata intrapresa da Marx sui percorsi di sviluppo non capitalisti. In questi casi, riguardanti numerose società nel mondo, e che egli analizza più o meno precisamente (Cina, India, Russia, Messico, Perù, Algeria, ecc.), la rivoluzione comunista non ha come precursore necessario l’industrializzazione comunista e la formazione di una classe operaia.
Sparisce dunque qualsiasi linearità storica, e la successione obbligata dei modi di produzione cede il posto all’attenzione portata alle forme di proprietà tradizionali, comunitarie. Secondo Marx, tali forme persistenti potrebbero fornire un punto di partenza concreto per una riorganizzazione economica e sociale egalitaria, risparmiando o attenuando per certe popolazioni il passaggio attraverso il capitalismo e le sofferenze da esso implicate.
Conclusione
Come si può vedere la figura del proletariato è complessa. Al fine di afferrarla è necessario prendere in considerazione la specificità della sua formazione nazionale e, dunque, porla in relazione con l’idea di popolo. Ma per Marx è necessario anche, in ultima analisi, mirare verso un’emancipazione in grado di oltrepassare le barriere nazionali e gli antagonismi, senza per ciò unificare le vie politiche, e le culture, in uno scenario unitario, prescritto, di superamento del capitalismo. L’attenzione alla periferia non occidentale del capitalismo, la cui posta in gioco si rivelerà a pieno nel quadro della decolonizzazione del XX secolo, si trova già in Marx stesso, il quale non esclude che delle società possano transitare al comunismo senza passare per il capitalismo, evitando in tal modo la sua violenza sociale e la sua barbarie coloniale.
Nel complesso se ne può trarre la conclusione che il proletariato non è una categoria sociologica stabile, tanto meno il nome di un soggetto della storia unificato, bensì una costruzione dinamica, continuamente definita dal suo antagonismo rispetto a certe classi sociali e alle sue alleanze con altre. Un antagonismo, così come delle alleanze, da concepire innanzitutto come costruzioni politiche, secondo una prospettiva strategica, che a volte difetterà nel marxismo successivo ma che sarà ripresa da alcune sue componenti.
E proprio in ragione della plasticità di tale nozione la categoria di popolo si mantiene, in vista di pensare il carattere sempre nazionale di una simile costruzione. Tuttavia il popolo non costituisce mai un’entità sostanzialistica o fissa. Dunque è sempre la dialettica proletariato-popolo, sottoposta all’esame di ciò che essa è in ogni situazione storica, a contare, poiché apre (o chiude) le prospettive politiche di emancipazione, le quali, in fin dei conti, riguardano l’umanità tutta.
Note
1. Jacques Guilhaumou, De peuple à prolétaire(s): Antoine Vidal, porte-parole des ouvriers dans L’Echo de la Fabrique en 1831-1832, «Semen», n. 25, 2008, pp. 101-115.
2. Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1971, p. 70.
3. Ibid., p. 59.
4. Ibid., p. 61.
5. Ibid., p. 70.
6. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, cit., p. 310.
7. Ibid., p. 303.
8. Ibid., p. 326.
9. Ibid., p. 310.
10. Ibid., pp. 310-311.
11. Kevin B. Anderson, Marx at the Margins. On Nationalism, Ethnicity and Non-Western Societies, Chicago, The University of Chicago Press, 2010.
12. In Renato Monteleone (a cura di), Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, Loescher, 1982, p. 51.
*Isabelle Garo è una filosofa marxista, ha pubblicato L’idéologie ou la pensée embarquée (La fabrique, 2009), Foucault, Deleuze, Althusser. La politique dans la philosophie (Demopolis, 2011) e L’or des images. Art – Monnaie – Capital (La ville brûle, 2013).
Fonte: Taduzioni Marxiste
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