di Carla Busato Barbaglio
La cifra «delle vittime delle vittime» del femminicidio è impressionante, una doppia uccisione della vita. In Italia, ci sono 1628 orfani. Figli che si ritrovano all’improvviso senza i genitori: perdono la madre, uccisa nella maggior parte dei casi dal marito o dal partner, e anche il padre, che finisce in carcere oppure si toglie la vita. I figli affrontano tutto ciò che segue travolti da uno tsunami, profondamente soli. L’onda ha reso tutti attorno protagonisti del «si salvi chi può»: i figli delle vittime sono per lo più abbandonati, spesso anche dalle istituzioni (che dovrebbero essere preposte a creare circuiti di aiuto), quando non immessi in percorsi di aiuto sterili se non dannosi.
PER QUANTO RIGUARDA i femminicidi, l’Italian Journal of Pediatrics ha documentato che dal gennaio 2012 fino al mese di ottobre 2014 sono morte 319 donne e ben 209 su 319 sono state uccise dal marito o ex compagno. In meno di tre anni, gli orfani ammontano a 417, di cui 180 minori all’epoca dei fatti. 52 di loro, di cui 30 minorenni, hanno assistito direttamente al terribile omicidio. Si può sopravvivere alla violenza, intendendo con questo l’atto che arreca morte, come pure il profondo malessere che lo precede e che è impastato di storia dolorosa, a volte abusante, altre di trascuratezza estrema?
Per molti bambini o adolescenti con lutti, la morte fa parte della vita, ma è difficile da tollerare e direziona passaggi complessi e perdite. L’uccisione in sé – e in modo particolare della madre da parte del padre – è qualcosa che segna violentemente (senza possibilità di agganci interni e, purtroppo, neanche esterni) l’essere al mondo di un bambino, un ragazzo, un adulto. Tutto è senza senso e, nello stesso tempo, assume un senso terribile. La persona che nella realtà – così come nell’immaginario – dovrebbe costituirsi assieme alla madre a protezione della crescita, dell’accoglimento dei disagi, delle paure e co-creatore di belle esperienze, si fa assassina. Invece di operare per la vita, quella vita la toglie. Ognuno di noi, di fronte a questo, rimane senza fiato, senza risposte, ma chi lo vive sulla propria pelle quale fiato per sopravvivere può trovare in sé? Come può funzionare la mente di fronte a simile ferocia? Quali stati dissociativi bisogna attivare per poter rimanere in vita e nel tempo fare integrazioni per ripristinare una speranza? Di chi ci si potrà mai davvero fidare?
È IMPORTANTE CERCARE di capire come la mente riuscirà a far fronte a uno stato di impotenza assoluta, in cui si è invasi da colpa, vergogna, senso di frammentazione, senza perdersi o arrestare qualsiasi possibilità di crescita sana.
Prendiamo come esempio un adolescente o un ragazzo che si stia avviando all’età adulta: potrà mai accedere ai livelli di intimità con l’altro? Su che cosa avverrà la costruzione della propria identità? Come potrà integrare in sé la storia che ha portato alla catastrofe con il prendere in mano la sua vita? Non è stato motivo di vita per i suoi genitori, ha creduto in persone che sempre più si sono rivelate inaffidabili per la sua crescita e per il suo essere riconosciuto figlio, l’evento ultimo (il femminicidio, ndr), in fondo, ne è la siglatura.
C’è un altro aspetto, inoltre, da indagare, molto serio. Lo sguardo che su di lui poserà la società. Verrà additato come un diverso. Una volta c’erano i figli di «NN», ora sempre di più i figli di assassini. Sappiamo, sostenuti ormai da molte ricerche, come lo sguardo dell’altro, della società, crei percorsi non solo mentali ma anche cerebrali che segnano traiettorie nel modo di esistere, solchi profondi e inguaribili.
La vita cambia nell’esplosione di questi drammi, ma tutto era in nuce già dall’inizio della coppia, apparteneva alla dinamica famigliare stessa: il delitto rende evidente quanto si è a lungo vissuto e rivissuto. Certamente le risposte sono differenti a seconda dell’età nella quale quei drammi si consumano, dalla qualità delle persone che sono accanto, dal tipo di aiuto che l’ambiente circostante è in grado di fornire.
I bambini che hanno conosciuto orrori spesso non riescono a fermare le immagini violente che si ripresentano in modo intrusivo. Non è ancora chiaro se i contenuti dei ricordi siano la riproduzione esatta del fatto originario, ma ricerche attuali dicono che i soggetti rivivano in modo particolare l’esperienza emotiva legata agli eventi fino a coinvolgere altri sensi, come l’udito e l’olfatto… Si ricorda l’esperienza emotiva del trauma più che la sua rappresentazione fotografica, i dettagli non sono necessariamente precisi, l’evento ritorna come incubo, anche se non si è stati presenti.
PER CONTINUARE LA VITA, va elaborato il dramma vissuto. Che non è mai frutto del caso o di un raptus improvviso, ma accade dopo violenze domestiche ripetute, fisiche e psicologiche spesso mascherate, e a lungo, dalle stesse madri vittime.
Le storie di femminicidio non vivono solo nelle stanze dei poveri o emarginati, ma trasversalmente appartengano a tutti e ciò non è di poco significato. Portano con sé, come conseguenze, esistenze disattese, che poi rischiano di produrre in un ciclo interminabile dolore, drammi, dipendenze, qualità di vita segnata malamente. Si può sopravvivere alla violenza? Certamente, ma a quale prezzo? Molti studi sostengono che i bambini traumatizzati, una volta divenuti adulti, hanno più problemi fisici e psicologici degli altri, specie se non si tratta di un singolo trauma ma di una serie, una sommatoria di esperienze negative.
Cosa offre la società affinché questi ragazzi non finiscano in circuiti pericolosi, affinché si diano comunque «sopravvivenza»? È necessaria una rete di protezione per poter convivere con esperienze tanto infelici.
La società dovrebbe investire, dalla nascita in poi, in tutti i luoghi deputati alla crescita: dai servizi di consultazione, alle cooperative ai reparti di maternità agli asili alla scuola, in ognuna delle sue ramificazioni. Serve un controllo sui mass media, l’informazione, la propaganda occulta, gli spacci ecc. Quale attenzione viene offerta oggi a tutto ciò che è inerente la crescita? Quale formazione, al di là della propaganda agli operatori che lavorano a vari livelli, in situazioni complesse, perché siano veramente capaci di aiutare la vita?
I segni dello tsunami che inizia a montare e a crearsi, se si hanno buoni occhi e sensori raffinati per vedere, sono individuabili molto precocemente. In corso d’opera e non a delitto avvenuto.
Fonte: Il manifesto
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