di Luciana Castellina
Il Filmfest di Torino garantisce sempre belle scoperte. Questa volta, grazie al documentario Nome di battaglia: donna di Daniele Segre, il bello sta nel film e nelle vite che racconta. Ma c’è anche un lato brutto venuto alla scoperta: in 70 anni di studi storiografici sulla Resistenza, non c’è niente di sistematico e completo sui «Gruppi di difesa della donna e di assistenza ai combattenti». Biografie (o autobiografie) di singole partigiane ce ne sono, ma una vera complessiva documentazione su cosa siano stati, quante e chi vi abbia partecipato, cosa abbiano fatto, questa non è mai stata messa a punto.
Un buco storiografico enorme, che si riflette su tutta la straordinaria vicenda della guerra di Liberazione, perché marginalizzare il ruolo avuto dalle donne significa in qualche modo amputare l’intero fenomeno di una specificità fondamentale: del connotato corale, sociale, ancor prima che tradizionalmente militare, di quella lotta.
Un buco storiografico enorme, che si riflette su tutta la straordinaria vicenda della guerra di Liberazione, perché marginalizzare il ruolo avuto dalle donne significa in qualche modo amputare l’intero fenomeno di una specificità fondamentale: del connotato corale, sociale, ancor prima che tradizionalmente militare, di quella lotta.
Si deve all’Anpi di Torino, e alla sua attuale presidente, Maria Grazia Sestero, se, con il convegno nazionale tenuto alla fine del 2015, dedicato a questa memoria si è fatta finalmente luce su questa ennesima «distrazione» relativa alla presenza delle donne nel mondo. Il film di Segre è una prima correzione.
«Quel nome dei nostri Gruppi, che usa le parole “difesa” e “assistenza”, non mi è mai piaciuto», confessa nel film sin dalle prime battute Marisa Ombra (IX Divisione Garibaldi, operativa nelle Langhe, già a 16 anni partecipe degli scioperi del marzo ’43; poi, e a lungo – quando io l’ho conosciuta – dirigente dell’Udi nazionale e, infine, vicepresidente dell’Anpi). Le donne, infatti, non si difendevano né facevano le crocerossine: combattevano.
Lo raccontano con semplicità, spiritose e grintose, otto donne piemontesi protagoniste del film. Quasi tutte entrate nelle fila della Resistenza in fabbrica, dove molte erano arrivate giovanissime. «Io, a 13 anni, e dovetti falsificare i documenti perché per entrare ne avrei dovuto avere 14 – racconta Enrica Core – Adesso sono grassissima, ma allora ero un fuscello e perciò mi chiamarono Fasulin. La prima volta che presi in mano una mitraglietta cominciò a sparare in aria da sola che sembravo una contraerea. Me la tolsero subito. Poi imparai». Fasulin è entrata a Torino dal Monferrato alla testa della III Divisione Garibaldi il 26 aprile ’45.
«Io invece il mio nome di battaglia me lo sono scelta da sola: quando arrivai in montagna c’era un omaccione che si era ribattezzato Pantera. Allora io ho deciso di chiamarmi Tigre». A parlare è Carla Dappiano, anche lei in fabbrica fin da quando aveva 13 anni, alla Westnghouse. «Il mio – dice – era il solo salario che entrava nella nostra famiglia, poverissima. Capii subito che la Resistenza era la mia parte: per liberarsi dal regime, dai tedeschi, dalla guerra, ma in primo luogo dalla fame».
Operaia-bambina pure Maria Airaudo. Racconta di quando, nel ’40, tutta la popolazione del suo paese del cuneese, proprio vicino al primo fronte, quello italo-francese, fu chiamata ad adunarsi nel cortile della scuola elementare per ascoltare la dichiarazione di guerra. «Non c’era nessuno, ma proprio nessuno che, nonostante quanto si disse, abbia applaudito», ricorda. La sua guerra di liberazione Maria l’ha fatta in Val Luserna. Ed è lì che è stata ferita.
Nel marzo ’45 catturarono le due sorelle Vera e Libera Arduino. Le portarono alla Caserma di via Asti e dopo averle pesantemente torturate le fucilarono alla Pellerina. Ma il giorno seguente, dopo che Carmen Nanotti, che operava nelle Sap (Squadre di Azione Patriottica) era riuscita a dare la notizia, sul luogo della tumulazione c’erano quasi duemila donne a salutarle. Scappate subito dopo perché stavano sopraggiungendo i tedeschi. Carmen era francese, arrivata in Italia («già comunista», dice ) solo a guerra cominciata, e in fabbrica, le Carrozzerie Fiat, i compagni diffidavano di lei perché temevano facesse finta di non sapere l’italiano per spiare i loro colloqui.
Dalla Francia, perché figlia di un esiliato politico, veniva anche Gisella Giambone. Rientrato in patria per combattere nella Resistenza, il padre, membro del primo Comitato di Liberazione Nazionale del Piemonte, fu fucilato al Martinetto nel ’44. «Ho sentito che dovevo prendere il suo posto e sebbene avessi poco più di 12 anni i compagni della brigata Curiel si fidarono. La mia età, anzi, fu molto utile, nessuno sospettava che portassi armi e volantini in giro per la città».
Maddalena Brunero, invece, la Resistenza l’ha incontrata in parrocchia, nella Gioventù femminile dell’Azione Cattolica (anche questa organizzazione aderiva ai Gruppi di difesa delle donne) di Settimo Torinese dove era sfollata con la famiglia. La madre, operaia alla Manifattura Tabacchi, metteva con le compagne una polvere micidiale nelle forniture di sigarette destinate alle caserme tedesche. Madddalena trasportava armi e volantini in città. Rosi Marino stampava il materiale clandestino con un ciclostile che poi veniva nascosto in un buco del muro. «È ancora lì – riferisce – potrebbe servire di nuovo». A lei i fascisti la presero e si fece molti mesi di carcere. Finì meglio del previsto, perché fu liberata grazie a uno scambio di prigionieri proprio alla vigilia della Liberazione.
Non tuttte le protagoniste di questo straordinario film sono potute venire alla proiezione: Carmen è morta che la pellicola era stata appena finita di girare; Marisa, che abita a Roma, si è ammalata. Fasulin non ce l’ha fatta ad arrivare dal Monferrato. Le cinque novantenni arrivate all’appuntamento hanno fatto al meglio la loro parte nel cinema affollatissimo, aggiungendo dettagli e battute di spirito. Si erano vestite tutte con ricercatezza e persino con qualche civetteria. Ma non serviva, se lo scopo era quello di apparire ancora giovani. Bastava il loro modo di raccontare, i loro giudizi sul presente, a farle apparire per quel che sono: non ex partigiane, ma tuttora partigiane. «Noi eravamo e siamo arrabbiate – ha detto Carla Dappiano – Ai ragazzi di oggi mi sembra manchi proprio la nostra rabbia».
Fonte: Il manifesto
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