di Sandro Moiso
Ho appena finito di leggere il libro di David Gilbert (AMORE E LOTTA. Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti, a cura di Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia, MIMESIS 2016, pp. 400, € 26,00) e un brivido di commozione e, forse, di rabbia mi percorre tutto dalla nuca al resto del corpo. E’, senza ombra di dubbio, una delle testimonianze più sincere e commoventi che sia mai uscita dalla penna di un rivoluzionario. Rivoluzionario inteso nel senso più ampio del termine e, per giunta, condannato alla detenzione ben oltre la fine dei suoi giorni.
Condannato a settantacinque anni di reclusione il 6 ottobre 1983, quando aveva 39 anni, David dovrebbe infatti finire di scontare la sua pena nel 2058, all’età di 115 anni. Basterebbe questa sola considerazione a dimostrare quanto folle, oltre che iniquo, sia un sistema giudiziario, quello statunitense, che si vorrebbe equo e moderno. Ma che nei fatti non lo è e che si dimostra ancora una volta crudele (ai limiti del sadismo oppure addirittura superando gli stessi), classista, razzista e inumano oltre ogni dire.
Condanna arrivata a seguito di una rapina finita male, molto, con alcuni militanti, una guardia giurata e due agenti di polizia uccisi, messa in atto dal BLA (Black Liberation Army) il 20 ottobre 1981 e di un processo che definire “farsa” sarebbe ancora troppo poco. Fatti che costituiscono la trama degli ultimi, terribili otto capitoli delle memorie dell’autore e che hanno segnato in maniera drammatica la sua vita e le sue scelte, non solo politiche.
Un autentico disastro umano e politico per un militante che, oltre a non essere presente sul luogo della sparatoria nel corso della rapina del 1981, aveva precedentemente aderito ai Weather Underground proprio per la loro scelta di evitare al massimo lo spargimento di sangue nel corso delle loro azioni dimostrative.
Una vita, comunque, quella di Gilbert, pienamente travolta dalla corrente di lotte che dalle iniziali mobilitazioni per i diritti civili degli afro-americani e delle altre minoranze etniche presenti sul territorio degli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni ’50 e dai primi anni ’60, lo avrebbe portato ad una piena coscienza anti-imperialista, attraverso la lotta contro la guerra in Vietnam, e alla scelta della lotta armata fatta dai Weathermen, poi Weather Underground, fin dal 21 maggio del 1970 quando Bernardine Dohrn emise la sua “Dichiarazione di guerra” contro l’imperialismo.
Ma se la lettura del testo può essere fatta in parallelo a quello di Bill Ayers, recentemente ripubblicato in Italia,1 è anche vero che allo stesso tempo ne costituisce un po’ il contraltare.
Tanto la ricostruzione di Ayers risulta infatti essere “epica”, tanto la lettura dei fatti e delle scelte data da Gilbert risulta “problematica”. E, quindi, sotto molti punti di vista, più utile.
Il percorso di quella organizzazione appare, nelle sue pagine, più tortuoso e più complesso di quello precedentemente dipinto. Qui la scelta classista appare spesso contraddittoria e di minor importanza rispetto alle scelte anti-imperialiste, anti-razziste, anti-machiste e femministe.
Contraddittoria non per i dubbi sulla sua valenza generale, mai significativamente messa in discussione, ma per le difficoltà che già in quegli anni si rilevavano nell’inquadrare o anche solo nel comunicare con il proletariato bianco, con la working class bianca con un discorso di carattere rivoluzionario.
Da questo punto di vista il testo di Gilbert si rivela oggi di grande importanza, soprattutto per comprendere anche le radici di un fenomeno, quello della vittoria elettorale di Trump, che ha stupito soltanto coloro che erano in malafede oppure molto poco informati sulla situazione economica, sindacale e politica della classe operaia bianca negli Stati Uniti.
Afferma ad un certo punto l‘autore: ”ogni volta che avevo visto dei radicali bianchi addentrarsi sul serio nel marxismo-leninismo, li avevo visti scivolare verso un ruolo predominante dato al proletariato, per lo più bianco, sulle lotte di liberazione nazionale in veste di maggior forza rivoluzionaria; e, accanto a tutto ciò, un glissare sulle problematiche dell’egemonia bianca e del privilegio imperialista per cercare una base di sostegno già pronta, cosa che comunque non si ottenne mai, nel proletariato. […] Capii che il problema non era tanto la teoria quanto il passato ben radicato del privilegio bianco (con i benefici materiali che ne conseguivano) e i vantaggi tratti dall’imperialismo. Le ripetute virate verso l’opportunismo bianco caratterizzavano anche movimenti che non si ispiravano affatto al marxismo-leninismo, come il populismo e il movimento suffragista. La teoria non era la causa del problema quanto piuttosto una sua razionalizzazione assunta da gruppi che volevano appropriarsi della bandiera ‘rivoluzionaria’ senza schierarsi fermamente a fianco dei popoli di colore che erano sotto un attacco omicida.” (pag.262)
Durante la guerra in Vietnam la classe operaia bianca delle grandi fabbriche fu toccata solo marginalmente dalle lotte contro di essa e soltanto là dove furono, come a Detroit,2 gli operai Neri a prendere l’iniziativa sia sul piano salariale che organizzativo e politico.
Così la scelta classista per i Weather apparirà prioritaria soltanto a partire dalla fase “finale” della loro storia, quando il movimento giovanile, anti-razzista e contrario alla guerra in Vietnam comincia ad arretrare, sia per il venir meno delle sue ragioni (la fine della guerra indocinese) quanto per i colpi subiti (l’uccisione e la reclusione di centinaia di militanti Neri legati al Black Panther Party e/o affini), sia ancora per le divisioni di ordine ideologico che iniziavano a prendere il sopravvento all’interno dei movimenti sia giovanili che afro-americani.
E’ questa la fase che si apre con la pubblicazione del testo più celebre prodotto dalla direzione del Weather Underground, quel “Prateria in fiamme”,3 che presentava comunque una versione ”marxista-leninista” di quell’esperienza che non sempre combaciava con la realtà della storia e dell’evoluzione della stessa organizzazione.
Proprio le riflessioni di Gilbert, che quell’impostazione allo stesso tempo criticò e finì poi col condividere per un periodo, ci permettono ancora una volta di verificare come la scelta partitica spesso, nel corso delle lotte del secondo dopoguerra o almeno dal ’68 in avanti, sia avvenuta in seguito alla sconfitta o all’arretramento dei movimenti, nel tentativo disperato e troppo spesso inutile di ridare vita a qualcosa che già non poteva più esistere. Aggravandone la crisi con scelte o dispute di carattere ideologico sempre più distanti dai “movimenti reali”.
Se, infatti, una miriade di gruppuscoli ha sempre cercato, sia durante l’esplodere delle lotte che alla loro fine, di contendersi la direzione oppure le spoglie mortali delle stesse, è sicuramente vero che tale pratica magari non è riuscita a deviarne le forze mentre queste erano in attività, ma ha contribuito a deturparne o a modificarne la memoria e l’indirizzo con le forzature interpretative successive. In questo senso l’accuratezza e l’onestà della ricostruzione degli eventi americani di quegli anni, insieme ad una autocritica a tratti spietata e feroce, fanno delle riflessioni di Gilbert un insegnamento irrinunciabile e severo.
Per quanto la gentilezza e la mitezza dell’autore, che già traspariva nella sua intervista contenuta in coda al documentario di Sam Green e Bill Siegel The Weather Underground,4 contribuiscano a rendere più leggere le descrizioni delle dispute, delle battaglie e dei passaggi che hanno accompagnato la nascita e il declino dei movimenti armati statunitensi,5 ciò non toglie certo una certa durezza e implacabile lucidità al discorso condotto da Gilbert.
L’uomo che nel settembre del 1982 ebbe a dichiarare, durante il processo che lo avrebbe condannato alla ‘morte’ carceraria: “Il governo che ha rovesciato napalm sul Vietnam, che fornisce le bombe a grappolo che uccidono civili in Libano, che addestra torturatori in Salvador ci chiama ‘terroristi’. I governanti che si sono arricchiti con generazioni di schiavi che lavorano e lavoratori resi schiavi…ci etichetta come ‘criminali’. Le forze di polizia dell’Amerika che hanno ucciso 2000 persone di colore negli ultimi cinque anni e che imbottiscono di droga le comunità ci dicono che ‘non abbiamo rispetto per la vita umana’. Noi non siamo né terroristi né criminali. E’ proprio perché amiamo la vita, perché gioiamo di fronte allo spirito umano, che siamo diventati combattenti per la libertà contro questo sistema razzista, imperialista e mortifero.” (pag. 339)
Quest’uomo non fa sconti, né a se stesso, né a tutte quelle azioni o scelte che, troppo spesso, si sono trasformate nel contrario di ciò che avrebbero voluto, comprese le lotte di liberazione nazionale, per cui era sceso sul sentiero di guerra. E, soprattutto, non fa sconti al sessismo e al razzismo che troppo spesso hanno caratterizzato i comportamenti, anche involontari, di leader e militanti della sinistra radicale.
Valga come esempio il fatto che la stessa rapina che finirà con il segnare tragicamente la vita dell’autore deriva dalle differenti difficoltà di finanziamento incontrate dai gruppi radicali neri rispetto a quelli bianchi. Mentre per i secondi infatti era più facile ricevere aiuti e finanziamenti anche dai settori meno impegnati o liberal del movimento, per i primi le rapine o gli espropri per l’auto-finanziamento erano pressoché inevitabili. Con il conseguente aumento dei rischi legali e fisici per i militanti coinvolti.
Ci sono parole che fanno male nella sua lettura, ma che allo stesso tempo aiutano a comprendere, davvero, gli errori propri e non solo altrui. La lotta contro l’imperialismo e contro la schiavitù economica, sessuale e razziale da esso prodotta non può svolgersi un passo alla volta oppure privilegiando un aspetto, una classe, un sesso o una razza rispetto agli altri. Tutto deve essere portato avanti insieme. Questo è l’insegnamento principale che possiamo e dobbiamo trarre dalle sanguinanti pagine del libro e che già i movimenti più importanti di oggi sembrano aver intrapreso oppure iniziato a ri-tracciare.
Così sarebbe opportuno pubblicare un’antologia dei suoi scritti, per esempio tratti da quel No Surrenderche già è stato pubblicato negli USA nel 2004. Proprio perché quello slogan, tratto dall’esperienza della resistenza vietnamita, con cui ho intitolato questa recensione continui ad avere come per David un senso. Mentre per ora i lettori dovranno accontentarsi della bibliografia, proposta dai curatori in chiusura, che propone un’ampia scelta di testi di Gilbert rintracciabili on line.
L’unico appunto che si può fare, a questa edizione del testo del militante americano, è dovuto al fatto che i curatori, pur avendo svolto un lavoro egregio, avrebbero in alcuni casi dovuto curare di più la traduzione e/o la spiegazione dei riferimenti al contesto politico-culturale in cui si sono svolti i fatti narrati. David Gilbert usa un linguaggio piano e colloquiale, ma ciò fa sì che l’autore, rivolgendosi ad un pubblico principalmente americano, per forza di cose abbia dato per scontate conoscenze che non appartengono obbligatoriamente al lettore italiano.
Faccio qui di seguito qualche esempio:
1) Quando si parla di football negli Stati Uniti non si intende il calcio (soccer), ma football americanoquello giocato con la palla ovale. Si veda, nel testo il passaggio sulla squadra dei Broncos di Denver, un club molto famoso di football americano.
2) Così come è difficile che una guardia carceraria impugni un doppietta a canne mozze. Shotgunandrebbe tradotto con fucile a canna liscia, spesso azionato a pompa per espellere la cartuccia (shot) esplosa ed inserire nella camera di scoppio quella nuova, con un unico movimento della mano; un’arma spesso utilizzata dalle forze dell’ordine, tanto è vero che talvolta è anche denominato riot shotgun.
3) Il libro di Sam Greenlee, The Spook Who Sat by the Door, è stato tradotto in Italia da Garzanti, nel 1970, nella collana Romanzi moderni con il titolo Il negro seduto accanto alla porta, a differenza di quanto erroneamente segnalato in nota.
4) Dire che uno dei protagonisti della lotta e compagno di carcere di Gilbert, Kuwasi Bagaloon, ha fatto parte inizialmente dei Last Poets significherebbe anche segnalare che quel primo gruppo rap afroamericano, fu fondato il 19 maggio 1968 (data del compleanno di Malcolm X), nel quartiere East Harlem di New York. I membri fondatori del gruppo furono Felipe Luciano, Gylan Kain e David Nelson.
I Last Poets continuarono ad evolversi attraverso un gruppo di scrittori di Harlem conosciuti come “East Wind” composto da Jalal Mansur Nuriddin, ex- paracadutista ed ex-detenuto per aver rifiutato di servire l’esercito degli Stati Uniti in Vietnam e convertitosi all’Islam mentre era in carcere, e da Omar Ben Hassan e Abiodun Oyewole, avrebbe anticipato sia il poeta-cantante Gil Scott-Heron, attivo dagli anni settanta, che Grandmaster Flash and the Furious Five, con il loro brano The Message (del 1982), che avrebbero ridato fiato alla coscienza nera all’inizio degli anni ’80.
Tutto ciò, però, non offusca in alcun modo il lavoro svolto per far conoscere al pubblico italiano un testo così stimolante e significativo. Non solo per la storia passata dei movimenti di lotta americani.
Fonte: Carmilla online
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