di Dante Barontini
L'equivoco si va sciogliendo e Matteo Renzi appare ora per quel che è: un Berlusconi senza soldi propri. L'imprevisto endorsement de The Economist per il NO al referendum sulla riforma costituzionale, chiarisce senza ombra di dubbio la natura del conflitto che oppone il capitale più multinazionalizzato (a partire dalla finanza) e il piccolo mondo antico dei “furbetti del quartierino”, che costituisce ancora oggi il nerbo della presunta “classe dirigente” italica.
Cosa dice la bibbia settimanale del capitalismo multinazionale? L'Italia ha urgente bisogno di “riforme” strutturali, ma "ma non quelle proposte" da Renzi nel referendum. Viene intanto bucato il palloncino della “comunicazione”, per cui Renzi e la sua banda sarebbero i campioni del cambiamento in quanto capaci di elaborare e imporre riforme, senza mai entrare nel merito di che tipo di cambiamento o di riforme si stia parlando. Anche passare dalla democrazia alla dittatura può essere descritto come un cambiamento o una riforma, in effetti. E il settimanale britannico analizza la riforma costituzionale con argomenti critici che chiunque di noi potrebbe sottoscrivere: "il rischio che, cercando di mettere fine all'instabilità che ha dato all'Italia 65 governi dal 1945, si crei un uomo forte. Questo è il paese che ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi ed è vulnerabile in modo preoccupante al populismo".
Ed anche “il Senato che non sarebbe eletto" ma infarcito di consiglieri regionali e sindaci, ovvero il livello politico più corrotto (sembra di sentire Travaglio o i grillini…). E non poteva passare inosservato il fatto che la riforma concede al partito di maggioranza alla Camera "un immenso potere, dando al maggiore partito il 54 per cento dei seggi e la garanzia di governare cinque anni". Vero è che The Economist teme soprattutto che possa diventare premier qualcuno come Beppe Grillo, ma in ogni caso trovarsi davanti un primo ministro eletto da una minoranza estrema del paese è prospettiva che preoccupa, proprio dal punto di vista della stabilità politica.
Un giudizio definitivo, infine, sui princìpi che informano il testo governativo nel suo insieme: "i dettagli della riforma insultano i principi democratici". Inevitabile la conclusione: fossimo italiani, voteremmo NO. E chi se ne frega se il governo cade, se ne può sempre fare uno “tecnico”, non casca il mondo, ci siete abituati, no?
Naturalmente all'Economist sono piaciute riforme come il Jobs Act, l'abolizione dell'art. 18, la precarizzazione del lavoro e tante altre che hanno dato alle imprese il potere di disporre a piacimento della forza lavoro. E' pur sempre la bibbia del capitale multinazionale.
E allora perché questa contrapposizione? Perché questa bocciatura così esplicita di una classe politica “giovane”, “innovativa”, market oriented?
Nemmeno il “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli metteva in discussione la prima parte della Costituzione antifascista, quella relativa ai diritti dei cittadini e alla partecipazione alla cosa pubblica. Anche perché quella parte non è mai stata attuata, neanche negli anni '70. Dunque non c'è necessità di forzare la mano su articoli ridotti di fatto a pure petizioni di principio.
La riforma Renzi-Boschi – esattamente come il piano piduista – si concentra invece sulla struttura dei poteri dello Stato, sulle funzioni istituzionali, per disegnare un potere inattaccabile sia dalla mobilitazione popolare che dal conflitto parlamentare. E' il vecchissimo tic autoritario del capitalismo all'italiana, debole sul piano dei capitali e dunque ferocissimo con i “sottoposti”, che li vorrebbe imbavagliati e legati, disponibili a subire ogni vessazione e senza alcuna possibilità legale di reazione. Basta insomma con il diritto di associazione politica alternativa al sistema esistente; basta con il diritto a manifestare (la logica delle “zone rosse” è esattamente questa, e sta preparando da anni qesta “svolta”); basta con il diritto di sciopero (che si vorrebbe lasciare formalmente in mano soltanto ai sindacati complici, che di fatto non lo esercitano più).
Il capitale più multinazionalizzato non è in linea di principio contrario ad un'evoluzione autoritaria del genere (magari qualche liberale coerente può ancora esserlo, ma non è decisivo..), semplicemente non la vede prioritaria.
Una centralizzazione dei poteri dagli enti locali allo Stato è considerata importante perché ridurrebbe la costosa complessità di una serie di adempimenti per le imprese. Ad esempio, “ci sono regole diverse in ogni regione d'Italia riguardo al consumo di acqua, il riciclaggio dei rifiuti, il controllo dell'inquinamento, le modalità di funzionamento degli impianti di energia, la molteplicità di enti che devono rilasciare permessi, ecc”. E questa parte – il Titolo V, sostanziamente – non dispiace neanche all'Economist.
Dal punto di vista di questo capitalismo globalizzato bisognerebbe invece fare le altre “riforme”. Quelle indicate dalla “lettera dei presidenti della Bce” dell'agosto 2011, per cui era stato necessario far cadere Berlusconi e portare Mario Monti a Palazzo Chigi. Ovvero i tagli alla spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione), riduzione delle tasse per le imprese, eliminazione dei contratti collettivi nazionali, riforma della giustizia civile e garanzie sugli appalti, controllo dell'evasione fiscale… Insomma, molto di quel che serve al capitaluccio “nazionale” per cavar fuori plusvalenze senza troppa fatica, maneggiando poteri statali o comunque amministrazioni pubbliche permeabili – soprattutto a livello dirigenziale – alla corruzione.
E' questa la parte di “riforme” che in Italia risulta impossibile realizzare. Il lavoro dipendente è stato così massacrato che non c'è più moto da togliergli; anche il salario, tra voucher e “volontari”, è diventato un optional…
Su questo fronte Matteo Renzi, dopo tre anni di governo, si è dimostrato altrettanto inaffidabile di Berlusconi. E ora se ne stanno accorgendo anche a livello internazionale.
Diventa dunque chiaro che quel milieu momentaneamente affondato dalla presa diretta di governo da parte dell'Unione Europea – con Monti, ma anche in parte con Enrico Letta – è riuscito a “scalare” il Pd e servirsene come silenziatore sociale durante la rottamazione dei diritti del lavoro. Ma non sa e non può andare oltre, nella direzione chiesta dai “mercati”, perché dovrebbe deforestare l'ingorgo di rami che portano linfa vitale per la propria riproduzione.
Il NO dell'Economist, insomma, è propedeutico a una ripresa diretta di controllo – col “governo tecnico” – delle autorità sovranazionali sul governo italiano. Un NO diametralmente opposto al nostro. Che ha l'unico merito di svelare quanto reazionaria e retrograda sia la banda di “pischelli” coltivata alla Leopolda. Magari non sono choosy, ma restano inadeguati.
Fonte: contropiano.org
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