La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 26 novembre 2016

Femminicidio e resistenza delle donne curde. E noi che facciamo?

di Barbara Spinelli 
In Medio Oriente è in atto la più grande battaglia del ventunesimo secolo, quella contro il fondamentalismo patriarcale di Daesh. Ad affrontarlo vittoriosamente sul campo le ci sono le YPJ, braccio armato della rivoluzione femminista portata avanti dalle donne curde per garantire spazi di democrazia e diritti umani per tutte le popolazioni “diverse” (per religione, etnia, genere, orientamento politico) fuggite da Daesh che hanno trovato rifugio nel Rojava, l'area siriana al confine con la Turchia, oggi per la maggior parte sotto il controllo curdo.
Ma Daesh non è l'unico nemico in campo: le donne che vivono in Turchia si trovano a dover fare i conti con il fondamentalismo patriarcale di Erdogan, che considera le donne disuguali per natura rispetto agli uomini.
Sono proprio le donne che si ribellano a questo regime ideologico le prime a doverne pagare le conseguenze. Ad agosto 2015, dopo l'interruzione del processo di pace, Ekin Van, combattente delle YJA-STAR che aveva lottato contro Daesh in Siria, è stata torturata e uccisa dalle forze di sicurezza turche a Varto. Il suo corpo, nudo, è stato trascinato per le strade della città, fotografato e condiviso su Facebook. Il trattamento che la Turchia riserva alle combattenti non è diverso dalla repressione che colpisce le attiviste per i diritti umani, le giornaliste e le donne dei partiti che chiedono la ripresa del processo di pace e la fine delle violenze nei confronti dei civili. A maggio 2015 la cantante curda Nûdem Durak è stata arrestata e condannata a 10 anni di carcere per aver cantato e insegnato ai bambini canti in lingua curda. Due reporter di Jinha news, l'agenzia di stampa curda formata esclusivamente da donne, sono state arrestate per aver documentato le violazioni dei diritti umani in atto nel sud-est turco. Dopo le elezioni di giugno, in numerose municipalità curde dove aveva vinto l'HDP, partito di opposizione di sinistra, il Governo ha proclamato lo stato di emergenza. La popolazione civile ha subito per giorni interi il coprifuoco, deprivata della fornitura di acqua e di elettricità e senza alcun accesso ai servizi di reti mobili. Molte persone, uscite dalle abitazioni per soddisfare bisogni elementari, sono stati colpiti dal fuoco dei cecchini, dei blindati o degli elicotteri delle forze di sicurezza turche. Alle ambulanze è stato vietato di soccorrere i civili. A farne le spese sono stati soprattutto donne e bambini.
In questo contesto, le co-sindache curde per il partito DBP/HDP delle municipalità turche di Çatak, Cizre, Nusaybin, Edremit, Batman, Mardin, Diyarbakir, sono state arrestate, e molte altre indagate, con l'accusa di aver tollerato l'istanza di autodifesa della cittadinanza rispetto ai violenti attacchi delle forze di sicurezza. La polizia attacca le marce di donne che scendono in strada per chiedere la pace. Gli arresti e le uccisioni hanno spesso un carattere simbolico, per ribadire che il potere, uccidendo le donne, vuole abbattere ogni istanza di libertà. Il 4 gennaio 2016 a Silopi, cittadina turca al confine con l'Iraq, 3 politiche curde sono state uccise dalle forze di sicurezza nel corso del coprifuoco, che dura ormai da 23 giorni. L'omicidio di Sêvê Demir, parlamentare del partito DBP, di Pakize Nayır, copresidente del Consiglio del Popolo, e di Fatma Uyar, della organizzazione delle donne curde KJA cade a pochi giorni di distanza dalla giornata mondiale contro il femminicidio politico, in cui si commemora l'uccisione a Parigi il 9 gennaio 2013 delle 3 attiviste curde Sara (Sakine Cansız), Ronahi(Leyla Şaylemez) e Rojbin (Fidan Doğan). Una esecuzione simbolica: Sara, cofondatrice del PKK, e Ronahi, attiva con il movimento dei giovani, che rappresentavano il passato ed il futuro del movimento, sono state uccise con un colpo di pistola in testa, mentre Rojbin, responsabile della diplomazia per il KNK, voce del movimento, con un colpo in bocca. Dopo gli stupri di Colonia, non dovremmo sentire così lontane le violenze esercitate ogni giorno sulle donne curde per sconfiggere la loro rivoluzione. A Colonia non sono state colpite le donne europee, ma la libertà delle donne. Chi ha colpito le europee a Colonia, colpisce ogni giorno le nostre sorelle curde, siriane, nigeriane nella nostra indifferenza.
Nel mondo, la maggior parte delle dittature e delle ideologie fondamentaliste condivide con i partiti conservatori delle repubbliche e monarchie occidentali e orientali l'idea che la donna debba continuare ad essere subalterna nel godimento dei diritti fondamentali e limitata nella sua sfera di libertà. Il femminicidio, in tutte le sue forme, viene usato ovunque nel mondo come un freno al cambiamento sociale, del quale le donne spesso sono i soggetti principali, portando avanti con coraggio e determinazione le istanze che sentono proprie di libertà e autodeterminazione. Le donne curde sono in prima linea in un conflitto che ci riguarda tutte, ed ha a che vedere con la scelta se continuare a vivere in un mondo ancora profondamente patriarcale, dove le donne subiscono dagli uomini umiliazioni, discriminazione e violenze in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata, in pace e in guerra, da parte di uomini di ogni religione e nazionalità, oppure se, ognuna a partire dalla propria realtà, possiamo organizzarci e diventare agenti di cambiamento sociale, per rompere gli schemi della mentalità patriarcale e del dominio maschile, per liberare noi stesse e per un miglioramento della società tutta. Non ci può essere pace nei conflitti, ma neanche pace sociale, finché la voce delle donne viene messa a tacere. Non ci può essere democrazia laddove non c'è libertà delle donne. Quando le donne scelgono di lottare per la libertà, lo fanno per tutti: affrancando sé stesse, creano una società libera in cui possono convivere insieme tutte le differenze, di colore, di religione, di classe, di nazionalità, nel rispetto reciproco. E' tempo di provarci! Ci vediamo domani in piazza, partiamo da lì.

Fonte: dinamopress.it 

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