La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 25 novembre 2016

Benedetto Croce 150 anni dopo. Un’introduzione

di Francesco Postorino
La figura di Benedetto Croce è sostanzialmente caduta nell’oblio. In occasione del centocinquantesimo anniversario dalla nascita, ci sembra doveroso rivisitare il pensiero del più autorevole filosofo italiano del XX secolo. Croce nasce a Pescasseroli il 25 febbraio 1866. La madre, Luisa, gli trasmette fin da subito la passione per la letteratura e il padre, Pasquale, la cultura del lavoro. Benedetto trascorre l’infanzia con serenità, ma il terremoto di Casamicciola, avvenuto nel 1883, sconvolge la sua esistenza. A soli 17 anni si ritrova infatti senza genitori e si trasferisce a Roma, insieme al fratello, in casa dello zio Silvio Spaventa.
Durante il soggiorno romano cade in una forte depressione. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, solo che il diritto inculcato da giusnaturalisti e positivisti non rientra fra le sue priorità. Abbandona gli studi universitari, ma segue con vivo interesse le lezioni romane di filosofia impartite da Antonio Labriola. A Napoli ritrova stabilità emotiva. Viaggia molto e scopre la politica. Nel 1910 viene nominato senatore per censo e più tardi sarà ministro della pubblica istruzione del governo Giolitti (1920-1921). Su invito di Giovanni Amendola, scrive un importante “Manifesto degli intellettuali anti-fascisti”, pubblicato sul quotidiano «Il Mondo» il 1 maggio del ’25, in risposta al documento redatto poco prima dal suo ex-amico Giovanni Gentile. Nel ’43 rifonda un Partito Liberale permeato di immanentismo assoluto e di filosofia dello spirito. Si spegne nel ’52, all’età di 86 anni.
Nel 1893 esordisce nel panorama filosofico con una piccola memoria dal titolo La Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Già il titolo racconta nell’essenziale la sua prima teoria della storia. Il giovane Croce rifiuta di incorniciare il linguaggio storico nei luoghi asettici delle scienze fisiche. La storia ha il compito di «narrare i fatti», non di riaffermare indebitamente i caratteri scientifici della «generalità» e della «costanza». Egli denuncia la dottrina positivista e inserisce la storia nella categoria dell’arte. La storia non coincide con l’estetica, ma vi rientra. L’arte si nutre di immaginazioni, di sogni, di possibilità; la storia si fonda invece su quel fatto realmente accaduto che tuttavia non andrebbe incastrato nelle maglie onnicomprensive della scienza sociologica. Quando Croce, negli anni successivi, maturerà l’idea di una netta separazione tra filosofia e scienza, la storia cercherà riparo altrove.
Prima andrebbe rievocato che nel 1898 il filosofo comunica a Gentile il desiderio di scrivere un trattato di estetica al fine di combattere Platone, Cartesio e il panlogismo d’ispirazione hegeliana. E così il nuovo secolo si apre con una splendida pagina per la filosofia e la cultura. L’Estetica non è più un impulso da relegare nel fiume caotico dei sensi. Fuori da ogni paradigma riduzionista e meccanicista, l’arte diviene la scelta consapevole di vivificare l’intrinseco a colpi di fantasia, di ripulire le emozioni indisciplinate con un’intuizione formale tanto cara al suo punto di riferimento Francesco De Sanctis.
L’Ottocento, com’è noto, è il secolo di Comte e del romanticismo, ovvero l’epoca dei numeri, delle formule astratte e al contempo di una sopravvalutata affermazione del sentimento. Croce cerca di correggere le derive estremiste dell’illuminismo scientista e degli allievi dello Sturm und Drang inventando una nuova concezione dell’arte. Un’arte che non può dimenticare il travaglio interiore che investe i suoi protagonisti e parimenti il suo limite categoriale. Non può ad esempio sconfinare nella dimensione razionale della vita, ma deve pronunciare il nome del sentimento maturo, l’ingenua espressione, e conquistare la parola interna aprendo le porte, per dirla con Gaston Bachelard, all’incanto della rêverie. Una tesi trascurata da accademici e professionisti di Estetica, sebbene parzialmente ripresa, in questi ultimi anni, dal critico letterario statunitense Harold Bloom.
Nella sua Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902, Croce chiarifica il linguaggio conoscitivo dell’arte e abbozza il suo sistema. La vita ospita quattro «distinti»: la categoria dell’Estetica si aggiunge a quella della Logica, ed entrambe rappresentano il versante teoretico del reale, mentre la sfera dell’Utile e quella della Morale mettono in luce la situazione pratica dello spirito. I quattro gradi, continua Croce, non litigano fra di loro perché sono autonomi e relativamente indipendenti. Il «bello» (arte) interloquisce con il «vero» (logica) anticipando con ritmo circolare il rapporto fra la natura dell’agire individuale (utile/economico) e la volontà universale (etica), che a loro volta influenzano la duplice sezione conoscitiva; quest’ultimo aspetto viene argomentato con più chiarezza nel terzo volume della filosofia dello spirito, quando cioè in Filosofia della pratica del 1909 avanza una tesi originale incentrata sull’«accadimento» e sull’interrelazione tra la storia adempiuta e la poetica ispirazione di chi versa nella prima cornice trascendentale: l’arte.
Sempre nel 1909 pubblica la sua seconda edizione della Logica, ove emerge una novità importante. Oltre ad aver riabilitato il «pensiero» come antidoto alle invasioni del metodo scientifico, qui Croce decide di trasferire la storia. Essa non rappresenta più la compagna dell’arte, quanto la peculiare esaltazione del Concetto entro una situazione determinata. In altri termini, la storia diviene quel soggetto rappresentativo che sfugge alla preziosa ingenuità dell’arte e confluisce nella sfera della logica razionale. Quando si parla di un Croce interprete dello «storicismo assoluto», occorre sottolineare che la base filosofica del suo convincimento culturale si ritrova già in questa novità, vale a dire nell’insolita identificazione fra storia e logica, particolare e universale, tempo e eterno, giudizio individuale e giudizio definitorio, riscontro speculativo dei fatti e concetto puro. Un’«incoerenza» significativa, che peraltro non si arresta giacché la storia delineata da Croce continua a viaggiare e nella sua Storia come pensiero e come azione del ‘38 si muoverà, per l’appunto, tra pensiero e azione.
La dimensione spirituale dell’utile assume un grande rilievo nel quadro sistematico tracciato da Croce, e ciò grazie al Marx rielaborato dal suo unico maestro e anti-positivista Labriola. Croce è affascinato da intellettuali borghesi che sposano la causa degli ultimi, e le sue fatiche, maturate nell’ultimo quinquennio dell’Ottocento, influenzano la scuola revisionistica guidata da Sorel in Francia e da Bernstein in Germania. Al pari del suo maestro, condanna le «definizioni belle e fatte», la cultura scientista e il democratismo egualitario. Inoltre, come dirà nella terza edizione del 1917 del suo Materialismo storico ed economia marxistica, ringrazia il marxismo per averlo avvicinato alla nobile tradizione della scienza politica italiana inaugurata da un altro suo autore, Niccolò Machiavelli, e per averlo reso insensibile ai principi illuministici dell’89. Apprezza ancor di più Hegel e la sua dialettica, Vico e il suo verum et factum convertuntur, ma in questi autori, incluso Marx, non mancano residui metafisici che il suo storicismo cerca di frenare.
L’impianto speculativo di Croce preannuncia la sua «religione della libertà». Il suo coraggioso rimprovero al determinismo marxista si sviluppa in nome di una fede liberale che collima con lo spirito, con la coscienza morale, con la storia. In un lavoro pubblicato nel ’25, il filosofo di Pescasseroli stigmatizza il pigro conservatorismo e la vulgata progressista. In La concezione liberale come concezione della vita del ’27, sostiene che il vero liberalismo è «metapolitico»; anzi, dirà nella sua Storia d’Europadel ’32 che la libertà si rivolge all’eterno. In un saggio del ’28, contenuto in Etica e Politica, Croce distingue il liberalismo etico dal liberismo economico, e dà avvio a una lunga polemica con Luigi Einaudi. Il primo sostiene che la libertà, nel suo afflato morale, non può esaurirsi nelle istituzioni liberal-democratiche o nei regimi della libera concorrenza e del profitto. Con qualche imbarazzo teoretico, l’utile crociano risiede al confine tra il profilo «sintetico» dello spirito e la voce empirica dello «pseudoconcetto»; ciò significa che il liberismo, il respiro democratico e le attività socialistiche non godono di un pieno diritto di cittadinanza entro il suo nucleo liberale. In merito al confronto con Einaudi, Bruno Leoni ricorda che l’economista aderisce a un altro indirizzo epistemologico e perciò il loro dialogo ventennale si fonda su parametri differenti. Fedele, infatti, al modello dell’adaequatio rei et intellectus, Einaudi, contrariamente all’«idealismo» crociano, insiste sulla stretta equiparazione tra libertà etica, politica ed economica.
Croce, in età matura, revisiona molti punti tutt’altro che marginali e il circolo dei distinti inizia a vacillare. La sua dialettica non incontra mai con convinzione il volto del «negativo», anche se sfiora la trama della decadenza, del male, dell’«Anti-Cristo». La sua libertà religiosa, ben custodita all’interno del nuovo Partito Liberale, si allea con il motore incessante del divenire, ma si distrae dalla sofferenza sociale, superficialmente depositata nel campo elusivo dello pseudoconcetto. Croce pensa ad altro. Si occupa del sistema, delle «opere» produttive e dell’universale concreto. Il suo liberalismo atypique, prezioso nel contrasto a un qualunque regime totalitario, ignora la presenza di una grande massa di donne e uomini che, come direbbe il suo critico azionista Guido Calogero, può vantare soltanto la «libertà di morire di fame».

Fonte: pandorarivista.it 

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