di Michele Prospero
Il pregio del libro di Mario Dogliani (Costituzione e antipolitica, Ediesse, pp. 244, euro 13) è di affrontare i risvolti tecnici delle riforme istituzionali con un approccio che penetra i nodi politici di più ampia ricaduta. Accanto alle questioni di organizzazione dei poteri (affrontate in aggiunga da un saggio di Roberta Calvano) lo sguardo perciò si rivolge ai fondamenti di cultura politica e costituzionale che si rintracciano nelle revisioni del bicameralismo. Gli accadimenti degli ultimi anni, con la riforma imposta da una minoranza insensibile alla evocativa scena di aule parlamentari deserte, segnano un restringimento obiettivo dello spazio democratico.
Un governo che dichiara di aver ricevuto dal Colle un esplicito mandato di maggioranza per rivedere la Carta, è già una profonda anomalia rispetto al quadro di una democrazia costituzionale.
Un governo che dichiara di aver ricevuto dal Colle un esplicito mandato di maggioranza per rivedere la Carta, è già una profonda anomalia rispetto al quadro di una democrazia costituzionale.
E ancor più inedito è il tragitto prescelto, che vede il leader infilzare le opposizioni (anche quelle interne al Pd) per poi giocarsi la legittimazione al comando personale in uno scontro definitivo.
Tutto ciò tramuta il referendum, da strumento oppositivo e di garanzia per la minoranza, in un plebiscito per l’approvazione ex post della leadership che si propone alla folla come fonte alternativa rispetto ai riti della mediazione e della rappresentanza.
Le parole di Dogliani sono non reticenti: «l’appello al popolo contro la costituzione è l’atto massimamente eversivo che in un ordinamento costituzionale possa essere compiuto».
La posta in gioco di Dicembre non è solo la ripartizione procedurale delle competenze, è anzitutto connessa alla qualità democratica del sistema. Il revisionismo di governo sollecita pulsioni antipolitiche primitive (i costi, le poltrone, la velocità) per edificare un confuso ordine plebiscitario.
Accanto agli istinti ancestrali della folla, sedotta dal gran gesto del capo, il potere confida nel conformismo della cultura italiana. Tra le abbondanti fila di intellettuali con «le schiene ricurve», Dogliani individua le sembianze di filosofi di grido che prima hanno definito la Carta «un feticcio mineralizzato» e ora invitano la massa a dire sì a riforme che loro stessi giudicano «una puttanata». Solo in un’ottica irriflessiva e illiberale di acclamazione si può giustificare la volontà di sostenere la potenza del palazzo nella sua richiesta di un sì che va concesso senza motivo, senza un briciolo di giustificazione critica.
È chiaro che il consolidamento di un caotico ordine plebiscitario comporta l’umiliazione della rappresentanza e la sepoltura degli organi di controllo e di garanzia. La costituzione di maggioranza, cucita su misura di un capo alla testa di una fazione agguerrita che vede «l’emergere di cerchi magici che privatizzano il potere pubblico», segna il declino della Repubblica. La retorica delle riforme, come competenza arbitraria di ogni occasionale maggioranza, secondo Dogliani comporta la drastica «caduta del riconoscimento della normatività della costituzione».
La strada verso la catastrofe pare già segnata dinanzi alla irresponsabile condotta di chi, per arginare l’antipolitica, enfatizza proprio i ritrovati dell’antipolitica che schiaffeggia il sistema parlamentare e coltiva «lo schiacciamento della leadership politica sull’evento, sull’attimo, sulla costruzione mediatica del gesto» indifferente al pensiero.
Proprio in situazioni critiche, con forze oscure in agguato, a parere di Dogliani bisognerebbe riconciliarsi con la costituzione come norma condivisa e assumerla di nuovo come «l’Arca dell’Alleanza» capace di fornire senso.
La strategia di recupero della normatività della Carta è però destinata alla sterilità se non ricostruisce le trame di una soggettività sociale, cioè se non ritrova quel «nucleo pre-liberale», lo chiama Dogliani, che collega costituzione e vita buona.
La scorciatoia carismatica non è certo socialmente neutra. Essa è anzi il corredo di una spicciola democrazia di investitura nella quale il potere economico esprime un capo che viene «poi acclamato, con una delega assoluta, da maggioranze irrazionali».
Dinanzi alla carenza dei canali di mediazione, con forze sfregiate e ridotte a «partiti artropodi», il libro sostiene che tocca al popolo sovrano, convocato nel plebiscito, reagire al populismo di governo per ristabilire le condizioni minimali della effettività e della normatività della costituzione.
Fonte: il manifesto
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