di Lorenzo Caffè
Ci avviciniamo alla consultazione referendaria sulle modifiche costituzionali del prossimo 4 dicembre e, in questo particolare momento per il nostro paese, nonostante le acclamate “riforme” del governo Renzi, ci troviamo dinnanzi a dati che testimoniano una situazione tutt’altro che incoraggiante in ambito economico e sociale. Basti sottolineare i dati Inps sull’utilizzo spropositato dei voucher, 347 milioni dal 2008 ad oggi, 70 milioni nel primo semestre di quest’anno, oltre al terrificante dato Istat relativo agli italiani sotto la soglia di povertà, pari a 4 milioni e 598 mila. Inoltre, degna di nota è anche l’ultima analisi condotta dalla Censis, la quale constata che ben 11 milioni di italiani ormai rinunciano a curarsi.
Eppure, secondo i principi fondamentali della nostra carta costituzionale, lo Stato, mediante delle specifiche politiche in ambito sociale dovrebbe assicurare fondi all’effettiva realizzazione del cosiddetto “welfare state”. Infatti, propriamente, “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art.3 della costituzione italiana, seconda parte).
Nonostante lo scenario di crisi economica e sociale in cui quotidianamente ci imbattiamo, tuttavia, il nostro Presidente del Consiglio non ha avuto niente di meglio da proporre agli italiani che una riforma – si fa per dire – della Costituzione che sta fortemente lacerando l’opinione pubblica. Ergo: proprio in un momento in cui servirebbe una maggiore coesione nazionale, si sta tentando di apportare delle modifiche a 47 articoli della nostra Costituzione in un colpo solo, senza alcuna possibilità di decidere per singoli aspetti.
L’unica azione possibile sarà, a questo punto, pronunciarsi in maniera favorevole o contraria a questa riforma.
Nel maggio del 2013, JP Morgan, tra le principali banche d’affari su scala globale, concepì un dossier di sedici pagine all’interno del quale evidenziò alcuni elementi “critici” - per il liberismo economico si intende – contenuti nelle Costituzioni dei paesi del sud Europa, quelle, per intenderci, nate da lotte antifasciste e dal concorso del movimento operaio: «I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo».
E’ a questa esigenza che risponde la riforma di Renzi?
Il cosiddetto “combinato disposto”, Italicum e riforma costituzionale, se dovesse vincere il sì, trascinerebbe il nostro paese sempre più verso un premierato assoluto considerando la maggioranza precisamente del 54% dei seggi alla camera, destinata al partito vincitore della competizione elettorale. Nello specifico, il vigente Italicum, fino a pochi giorni fa considerato dall’area di governo una eccellente legge elettorale, mentre ora spiegano che nell’eventualità potrà subire modifiche in virtù della sua forma giuridica (legge ordinaria), ha come soglia per il premio di maggioranza il 40%. In alternativa avverrà il ballottaggio fra i primi due partiti più votati. Ovvero, anche se dovesse andare a votare una minoranza del paese, essa sarà l’artefice, malgrado un’eventuale differenza di pochi voti, della futura composizione della Camera dei Deputati, quest’ultima composta per quasi 2/3 da nominati, visto il sistema dei capilista bloccati e delle candidature multiple.
La nuova riforma costituzionale viene descritta dal fronte per il sì come una riforma che va a semplificare il procedimento legislativo e la nostra Costituzione. L’esempio lampante che testimonia l’esatto contrario è l’art. 70, oggi composto da 9 parole, che, con l’eventuale modifica, sarà composto da 440 parole, con una moltiplicazione dei procedimenti stessi (fino a 12).
Dicono di voler eliminare il bicameralismo paritario, ma l’unica cosa che sarà eliminata sarà la possibilità di votare i senatori, scelti tra sindaci e consiglieri regionali, ai quali sarà perfino riconosciuta l’immunità parlamentare. Il Senato della Repubblica infatti sarà composto da 100 membri, 74 Consiglieri regionali, 21 Sindaci e 5 senatori indicati dal Capo dello Stato. Inoltre il Senato eleggerà 2 membri della corte costituzionale.
Dicono che i tempi per l’approvazione di una legge siano lunghissimi. Falso. Il nostro Paese è il secondo in Europa in quanto a produzione legislativa. Poi ci sono i casi come la conversione in legge del decreto Fornero, avvenuta in 16 giorni! Più in generale, valga il dato per cui, delle ultime 391 leggi approvate dal Parlamento italiano, 301 sono state approvate senza passaggi multipli tra Camera e Senato, e solo 3 disegni di legge hanno subito più di 4 letture prima di diventare legge.
Inseriscono la “clausola di supremazia”, con la quale, in nome della cosiddetta “tutela dell’interesse nazionale”, limitano l’autonomia dei territori su scelte di grande interesse, a cominciare da quelle ambientali.
Si triplicherà il numero di firme necessario per le proposte di legge di iniziativa popolare, da 50.000 a 150.000.
Il tutto alzando la bandiera della riduzione dei costi della politica.
Ma è così?
La stessa ragioneria dello Stato precisa che si potrà arrivare ad un risparmio di circa 50 milioni di euro, pari alla diminuzione del 10% dell’indennità degli attuali parlamentari.
E se parliamo di costi, come mai il Pd ha votato contro una proposta recente sostenuta da gran parte degli schieramenti di opposizione per il dimezzamento dell’indennità? Si può barattare per 0,80€ circa il proprio diritto al voto?
Si aggiunga che l’attuale Parlamento è stato eletto con una legge elettorale dichiarato incostituzionale della Corte costituzionale. La Corte fa riferimento al “principio di continuità”, ma per predisporre una nuova legge elettorale, non per modificare 47 articoli della Costituzione.
Sul piano politico emerge un fatto di rilevante gravità: la coalizione “Italia. Bene Comune” non prevedeva di certo nel suo programma elettorale questo tipo di riforma costituzionale, come del resto non prevedeva l’abolizione dell’art. 18, la “cattiva scuola” o lo “sblocca Italia”. Peraltro, colui che oggi ritiene di tenere a cuore la governabilità del Paese, ricordiamo che è stato nominato Presidente del Consiglio dopo il celebre #Lettastaisereno, con una manovra di palazzo.
Insomma, una minoranza politica che mediante il trasformismo diviene una maggioranza di governo, si è arrogato il diritto di riscrivere la Costituzione. Ricordiamo che i padri costituenti sostennero, per ovvie ragioni, che i banchi del governo dovevano rimanere vuoti durante la discussione pubblica della Carta. In ogni caso, benché la necessità sia quella di applicarla la Costituzione, anziché stravolgerla, una riforma della stessa richiederebbe sempre un consenso largo ed un confronto costruttivo.
Nonostante il 4 dicembre la mia età non permetta di potermi esprimere mediante il voto, sono sicuro che in tanti lo faranno al posto mio, pensando al nostro futuro, alla nostra Repubblica, ad un’Italia più giusta.
“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.” P. Calamandrei, Discorso agli studenti milanesi
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