La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 11 gennaio 2016

Clima, Parigi dà la sua parola

di Pietro Raitano 
Morbique (Mor·bi·que), aggettivo. Si dice del complesso desiderio di visitare luoghi prima che siano definitivamente compromessi dal cambiamento climatico (o altri interventi dell’uomo). Casaperdida (Ca.sa.per.di.da), nome. È il sentimento di ansietà dato dal timore di perdere la propria casa a causa di una tempesta o altri eventi estremi causati dal caos climatico. Epoquetude (Epo·qu·e·tude), nome. Come antidoto all’ansia derivante dal deterioramento dell’ambiente, l’epoquetude è la rassicurante consapevolezza che mentre l’umanità può distruggere se stessa, la Terra certamente sopravviverà a noi, così come è sopravvissuta a tanti altri cataclismi. 
Le parole morbique, casaperdida ed epoquetude non esistono. Le hanno inventate le artiste del “Bureau of linguistical reality”, Heidi Quante e Alicia Escott, per un’opera d’arte “collettiva” aperta al contributo di tutti: creare un nuovo linguaggio che aiuti a comprendere il rapido cambiamento che l’uomo sta imprimendo al Pianeta (bureauoflinguisticalreality.com).
Il progetto e le sue “parole” sono state presentate anche a Parigi, a margine della XXI Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione Onu sul Clima (UNFCCC).

36mila partecipanti, 23.100 delegati dei Paesi, 9.400 esponenti delle Nazioni Unite, delle sue agenzie e delle Organizzazioni non governative, 3.700 media accreditati, la COP21 di Parigi (dal 30 novembre al 12 dicembre,www.cop21.gouv.fr). Si è tenuta a 27 anni di distanza dall’istituzione dell’International Panel on Climate Change (Ipcc, il cui primo rapporto sul cambiamento climatico causato dall’uomo e sui pericoli che da questo possono derivare è del 1990) e a 23 anni (era il 1992, all’Earth Summit di Rio de Janeiro) dalla nascita dell’UNFCCC, oggi ratificato da 195 Paesi. Ma soprattutto, a 18 anni dal Protocollo di Kyoto, il primo tentativo di accordo globale per la riduzione delle emissioni di gas serra, entrato in vigore solo nel 2005. 
Nonostante l’urgenza del tema trattato, il percorso verso un impegno serio per contrastare il riscaldamento globale aveva subito una brusca battuta d’arresto a Copenhagen, nel 2009 (COP15): l’accordo sottoscritto tradiva ogni aspettativa e speranza di azioni concrete ed efficaci. A sei anni di distanza -e con aspettative forse minori- qualcosa sembra essere cambiato. 
Con un giorno di ritardo rispetto al previsto, la conferenza ha adottato sabato 12 dicembre un testo di 29 articoli composto da parole che potrebbero contribuire a cambiare il corso dei prossimi decenni. La necessità di arrivare entro il 2015 a un accordo “vincolante” era infatti stata sancita a Durban, nel 2011 (COP17). Quello dell’Accordo di Parigi non è probabilmente un testo “rivoluzionario”, ma è andato -per usare le parole dell’International Institute for Sustainable Development, organizzazione non-profit canadese (iisd.ca)- “oltre le aspettative, producendo un accordo che è […] un importante passo nell’evoluzione del ‘governo climatico’ e una riaffermazione del multilateralismo ambientale”. 
Al centro dell’Accordo di Parigi ci sono i cosiddetti Intended Nationally Determined Contributions (INDCs), ovvero i Contributi nazionali promessi dai singoli Stati (sinora ne sono stati redatti 189) per contrastare il cambiamento climatico. Almeno ogni 5 anni i Contributi promessi dovranno essere verificati e rivisti, sempre con obiettivi più ambiziosi rispetto al passato. Attraverso questi cicli quinquennali, e aggiornamenti possibili in ogni momento, le parti si sono impegnate a mantenere l’innalzamento della temperatura globale “ben al di sotto” (well below) i 2 gradi centigradi rispetto al livello pre-industriale, sforzandosi di limitarne la crescita a 1,5 gradi (per capire la grande differenza che fa quel mezzo grado è utile il lavoro di Climate Analytics, climateanalytics.org). Inoltre è previsto che il “picco di emissioni” sia raggiunto “il prima possibile”, che sia rapida la discesa e che il “saldo emissivo” sia pari a zero entro la seconda metà del secolo. 
Gli sforzi e gli impegni verranno monitorati, e questa è la parte vincolante dell’accordo. Non ci sono vincoli invece rispetto agli obiettivi nazionali e agli strumenti per raggiungerli (e questa è la critica più frequente al risultato di Parigi) se non quelli di giustificarli alla luce dell’equità. Già oggi infatti sappiamo che l’insieme degli INDCs presentati porterà a un innalzamento della temperatura di almeno 2,7 gradi (a questo indirizzo un’analisi infographics.pbl.nl/indc) e che quindi l’obiettivo dei 2 gradi è ancora lontano (su climateactiontracker.org ci sono le pagelle relative a un campione di 33 Paesi, e solo 5 passano l’esame dei due gradi). Già oggi abbiamo superato la soglia di 1 grado centigrado.
Le parole in questo accordo sono importanti, e infatti si parla con enfasi di diritti umani, equità intergenerazionale, giustizia climatica, diritto alla salute, stili di vita. Si fa riferimento alle perdite e ai danni (loss and damage) derivanti dal cambiamento climatico (soprattutto per i Paesi più poveri), al tema del lavoro decente e della sicurezza alimentare e si ribadisce il principio di responsabilità “comuni ma differenziate, alla luce delle differenti circostanze nazionali”. Si riconosce il sistema energetico come cuore della trasformazione e l’importante ruolo della preservazione delle foreste. Si enfatizza il ruolo dei flussi finanziari, dell’accesso pubblico alle informazioni , della partecipazione pubblica.
Si può parlare di un accordo “storico” secondo Stefano Caserini, ingegnere ambientale e titolare del corso di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, autore del recente “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente) e curatore del sito climalteranti.it. “Anche se molti aspetti non sono vincolanti, non sopravvaluterei questa ‘mancanza’. Ai fini di un segnale forte il vincolo presente sui monitoraggi degli impegni periodici è significativo. Dopo Copenhagen non era scontato che l’UNFCCC rimanesse il catalizzatore dell’azione globale sul clima, riprendendo il ruolo centrale nel negoziato. Così come è rilevante il meccanismo di ‘rialzo’ degli obiettivi degli INDC. Soprattutto, viene sancito il superamento del regime di Kyoto -anche se il protocollo non è stato abolito- che prevedeva un approccio ‘top-bottom’: dall’alto si impone la strategia, i risultati. Copenhagen ha dimostrato che così un nuovo accordo sarebbe stato impossibile. Per questo si è scelto un ibrido -dove dall’alto sono imposti ad esempio gli obblighi di reporting- che punta tuttavia su strategie ‘bottom-up’: sono gli Stati e gli altri attori che, coi loro impegni dichiarati, contribuiscono al risultato. 
Un accordo buono, non perfetto, il cui segnale è anche verso gli investitori: attenzione a dove mettete i vostri soldi. Il futuro potrebbe non essere roseo per le fonti fossili, nemiche del clima. Inoltre si esalta il ruolo delle istituzioni locali e della società civile: tutti devono concorrere al risultato, lo sforzo -grandissimo poiché gli obiettivi sono ambizioni- non può che essere collettivo, una vera e propria rivisitazione drastica dell’intero settore produttivo, non solo energetico. E tutto questo va fatto nei prossimi dieci anni, ovvero da domani”. L’accordo entrerà in vigore quando almeno 55 Paesi responsabili del 55% delle emissioni globali (l’UNFCC ha stilato l’elenco aggiornato dei Paesi e della loro quota di emissioni: si può scaricare dal sito unfccc.int) avranno consegnato il loro strumento di ratificazione (per l’Italia serve un passaggio parlamentare). 
“In questo sta il suo valore vincolante” spiega Valentino Piana, economista e consulente internazionale, direttore dell’Economics Web Institute (economicswebinstitute.org) e curatore della pagina accordodiparigi.it. “Si potrà firmare a partire dal 22 aprile 2016, giornata della Terra, data indicata da Ban Ki-moon. Per l’entrata in vigore di Kyoto aspettammo 8 anni: ritengo che questa volta i tempi saranno molto più veloci. Anche perché l’accordo di Parigi ‘batte’ Kyoto 6 a 1: impone tagli alle emissioni molto più profondi (si passa da 4,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti entro il 2020 previsti da Kyoto agli oltre 19 miliardi entro il 2030 previsti da Parigi, ndr), il numero di Paesi che riducono le proprie emissioni è molto più largo (dai 37 di Kyoto ai 189 impegnati a oggi, ndr), si parla di tecnologie, cambiamenti organizzativi e flussi finanziari imponenti per trasformazioni settoriali complessive, assenti al tempo di Kyoto. E infine vengono indicate nuove direzioni: l’adattamento e la gestione dei danni e delle perdite su tutte.
Nel preambolo della COP Decision -di cui l’Accordo è l’annesso- si parla diffondere di più lefonti rinnovabili, mentre ad esempio sono spariti i riferimenti alla cattura e stoccaggio di CO2. D’altra parte la stragrande maggioranza degli INDC ruotava già attorno alle rinnovabili. 
La retorica delle ‘future generazioni’ non funziona più. Siamo noi le future generazioni di cui parlava il Rapporto che lanciò lo sviluppo sostenibile. È un cambiamento culturale notevole, così come notevole è l’ambizione dell’Accordo. Che valorizza la società civile e le istituzioni locali, senza contrapposizioni. E ha piena legittimazione democratica: in qualunque momento ciascuno Stato può decidere di fare di più rispetto agli impegni presi, ma i cicli quinquennali stanno lì a ricordare i processi democratici, i cicli legislativi. 
Ecco la primazia della politica, e con essa gli spazi di autodeterminazione e confronto serrato attorno al clima”. 

Fonte: Altreconomia 

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