di Claudio Vercellone
Il potere della moneta e quello della finanza sono all’origine del capitalismo e in un certo senso ne esprimono l’essenza. Prima della rivoluzione industriale, i meccanismi d’accumulazione fondati sul potere della moneta e della finanza sono stati gli strumenti chiave alla base della cosiddetta accumulazione primitiva e del capitalismo mercantilista che si sviluppa tra il XVI e il XVIII secolo. Poi, con lo sviluppo del capitalismo industriale e della sussunzione reale, in particolare all’epoca fordista, il potere del capitale è parso cambiare di forma. Esso è sembrato poggiare principalmente sullo sviluppo delle forze produttive e sul controllo monopolistico della conoscenza detenuta dalla tecnocrazia manageriale delle grandi imprese.
In seguito alla crisi sociale del modello fordista e allo sviluppo di un’intellettualità diffusa, i rapporti di sapere e potere tra capitale e lavoro a livello dell’organizzazione sociale della produzione si sono rovesciati. Nel capitalismo cognitivo, la violenza della moneta e della finanza si presentano così nuovamente come la forma suprema del potere del capitale.
È su di esse (e non su un’egemonia fondata sul controllo della conoscenza e della tecnologia) che poggia la capacità del capitale di sottomettere la società del general intellect e di operare la cattura del valore creato dal lavoro a partire da una posizione di esteriorità rispetto all’organizzazione sociale della produzione. Al tempo stesso, perlomeno nei paesi a capitalismo avanzato, la logica della valorizzazione del capitale si fonda sempre meno sulla crescita delle forze produttive, ma piuttosto sulla creazione di una scarsità artificiale di risorse.
In questo quadro, il capitale finanziario, la cui logica nel senso di Marx si incarna nel circuito corto D-D’, dove sembrano in apparenza saltare tutte le mediazioni legate alla merce e alla produzione, costituisce l’espressione più pura (ma non la sola) di quanto ho definito come la tendenza al divenire rendita del profitto.
Per dirla sempre in termini marxiani, la tendenza del divenire rendita del profitto traduce così la contraddizione sempre più acuta tra due livelli
a) i rapporti sociali di produzione capitalistici incarnati dalla logica parassitaria del capitalismo cognitivo e finanziarizzato, da un lato;
b) le forze vive di un’economia sociale fondata sulla conoscenza che contiene in suo seno la possibilità di un’organizzazione autonoma della produzione e di un superamento della logica del capitale, dall’altro.
Fatta questa rapida premessa sul senso del concetto del becoming rent of profit, la domanda che servirà di filo conduttore al mio intervento è di sapere se e in quale misura moneta e finanza possono essere usati contro il capitale e divenire strumenti di emancipazione. Preciso subito che gli elementi parziali di risposta che cercherò di fornire sono senza misura alcuna con le questioni e gli interrogativi per me irrisolti che questa riflessione solleva.
Per tentare di rispondere a queste domande, il mio intervento si articolerà in due parti. La prima riguarderà una rapida rassegna di alcune proposte che, in seno alla sinistra radicale, sono state sviluppate al fine di opporsi al potere della finanza capitalistica e/o di cercare di domesticarla per metterla, in un certo senso, al servizio di una logica alternativa. La seconda parte insisterà sulla necessità di articolare questa riflessione alla questione centrale della tematica di una moneta del comune, e questo secondo un approccio di cui uno dei corollari fondamentali è l’instaurazione di un reddito sociale garantito (social basic income) indipendente dl lavoro salariato.
1. Usare la finanza contro il capitale ? Una rassegna critica di alcune proposte
Vengo dunque alla prima parte. Il suo obiettivo è di mettere il luce l’interesse ma al tempo stesso le contraddizioni interne a due principali proposte che si propongono di utilizzare il capitale finanziario contro il capitale stesso, sovvertendolo dall’interno stesso della sua logica.
1.1. Una prima proposta che alimenta il dibattito teorica e politico da almeno due decenni e che in Europa è stata all’origine della stessa fondazione di ATTAC, è legata alla celebre Tobin tax.
Notiamo che il termine Tobin Tax è in gran parte impreciso. Tobin si era infatti limitato a proporre solo una tassa legata alla speculazione valutaria, cioè al tasso di cambio delle monete.
In generale, la maggior parte delle proposte che fanno riferimento alla Tobin tax associano in realtà due tasse :
a) una tassa sui movimenti internazionali di capitale e la speculazione sulle monete ;
b) una tassa che porta sull’insieme della transazioni borsistiche e che dovremmo chiamare più precisamente la tassa Keynes, dal nome dell’autore che l’aveva formulata nella Teoria Generale.
Nello spirito di Keynes, nella teoria generale, questa tassa avrebbe dovuto essere sufficientemente elevata per diminuire la liquidità degli investimenti finanziari e obbligare in questo modo i detentori dei fondi a portare la loro attenzione sulle prospettive di lungo periodo. Keynes stesso sottolineava tuttavia un inconveniente di tale riforma fiscale sulle transazioni finanziaria. Si riferiva al rischio di favorire una preferenza accresciuta per la liquidità che avrebbe condotto gli agenti economici a tesaurizzare e a non investire il loro denaro se non in contropartita di tassi d’interesse molto elevati.
In effetti, “se i singoli acquisti di titoli fossero resi non liquidi, ciò potrebbe ostacolare seriamente il nuovo investimento, fino a quando non si mettessero a disposizione dell’individuo modi alternativi nei quali tenere i suoi risparmi”. (Keynes 2015 [1936], cap. 12, par. VI, pp. 290-291) [1]
Per questo, Keynes suggeriva di associare la tassa sulle transazioni finanziarie a meccanismi che penalizzassero la detenzione della liquidità, in particolare facendo perdere alla moneta valore nel corso del tempo. Torneremo in seguito su questo punto [2].
Comunque sia, nella maggior parte delle proposte sviluppate oggi da parte della sinistra critica, la tassa Tobin o Keynes, comunque la si voglia chiamare, dovrebbe realizzare un duplice obiettivo, in gran parte contraddittorio, vale a dire:
– il primo obiettivo è di recuperare e sottrarre al capitale finanziario una mole importante di risorse finanziarie da ridirigere verso le casse dello Stato per finanziare spese sociali e investimenti in una logica economico e sociale alternativa. A seconda degli approcci, gli introiti della Tobin tax dovrebbe così permettere l’investimento nella transizione ecologica, il finanziamento delle spese sociali del Welfare o ancora l’instaurazione di un social basic social income o reddito d’esistenza
– il secondo obiettivo è di domesticare il capitale finanziario imponendogli dei costi di transazioni che limitano o bloccano la speculazione.
Perché questo duplice obiettivo, combattere la finanza e al tempo stesso trarne le risorse per riforme alternative, è in gran parte contraddittorio ? Per una ragione semplice:
– Se, per ipotesi, la tassa fosse veramente efficace, vale a dire sufficientemente elevata per ridurre drasticamente la speculazione, il risultato sarebbe il seguente : con la scomparsa della speculazione scomparirebbero anche gli introiti che avrebbero dovuto servire per finanziare un reddito garantito o altri progetti alternativi.
– Se la tassa fosse invece fissata à un livello sufficientemente debole per non ridurre in modo significativo il numero delle transazioni speculative su cui la tassa è prelavata e massimizzare gli introiti fiscali, il risultato è che si diverrebbe dipendenti e complici della stessa logica del nemico che si dichiara di voler combattere.
Per questa ragione, ad esempio, nella riflessione che ho condotto con Jean-Marie Monnier sul finanziamento di un social basic income, abbiamo scelto di attribuire alla cosiddetta tassa Tobin un ruolo secondario e transitorio, privilegiando la creazione monetaria e altre forme di tassazione dei redditi e del patrimonio.
1.2. Altre proposte si situano nella scia di una celebre passaggio del libro terzo del capitale dove Marx, osservando i primi passi dello sviluppo della moderna società per azioni, prefigurava un processo di socializzazione del capitale che avrebbe condotto, e qui lo cito, “alla soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso”. (Libro III, capitolo 27, p. 1229).
Dopo la formazione della grandi società per azioni, fondate sulla separazione della proprietà e della gestione del capitale, questo processo di socializzazione del capitale ha compiuto un nuovo e formidabile salto di qualità nel quadro del processo di finanziarizzazione contemporaneo. In particolare, “la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso” troverebbe oggi la sua concretizzazione più significativa nello sviluppo del risparmio salariale e dei cosiddetti fondi di pensione.
A partire da questa constatazione, si è sviluppato un intenso dibattito che testimonia anch’esso della complessità dei problemi posti dalle proposte che mirano a utilizzare la logica del capitale contro il capitale stesso, per andare aldilà della sua logica sistemica.
Un primo modo d’affrontare queste questioni ha consistito nell’interrogarsi sulla capacità dei lavoratori salariati a incidere sulle norme e convenzioni finanziarie, in particolare attraverso dei fondi di pensione che integrerebbero criteri alternativi di valutazione finanziaria. Queste questioni, ricche d’implicazioni politiche decisive, sono state all’origine, all’inizio di questo decennio, di una controversa, ben rappresentata dalle posizioni opposte espresse da due tra i più noti economisti della scuola francese della regolazione, vale a dire Michel Aglietta e Frédéric Lordon [3].
Il primo ha difeso con forza il progetto di una strategia sindacale che si servirebbe dei fondi di pensione e dei titoli di proprietà centralizzati dai fondi salariali per controllare il capitale.
Ciò avrebbe permesso di dettare delle nuove norme di gouvernance non più incentrate sulla ricerca del rendimento finanziario massimale, ma capaci d’integrare nuovi criteri legati, per es. alle condizioni di lavoro, all’impiego nel lungo periodo, alle esternalità ecologiche e sociali generate dall’attività delle imprese.
Grazie a questi nuovi criteri sarebbe stata anche superata la schizofrenia tra l’interesse del lavoratore salariato e quello del futuro pensionato, quello del cittadino e quello del rentier salariato.
In questo senso per Aglietta, lo sviluppo dei fondi salariali era la battaglia decisiva per fare in modo che il capitalismo dell’Europa continentale resti une varietà distinta rispetto al capitalismo anglo-sassone, disegnando un modello sociale e economico alternativo a quello del capitalismo neoliberale e finanziario.
Da parte sua, per Lordon l’inerzia delle strutture finanziarie rendeva e rende poco credibile questo scenario di un cambiamento volontaristico della logica finanziaria da parte dei sindacati. A sostegno di questa tesi, sviluppava due argomenti principali:
In primo luogo, ammesso e non concesso che i sindacati europei avessero realmente il desiderio e la capacità di costituire fondi di pensione ispirati da una logica alternativa, un solo tipo d’agente isolato sarebbe in ogni caso condannato all’impotenza. La finanza è infatti un universo dove la messa in opera delle norme poggia su una moltitudine d’attori, formatisi tutti alla stessa cultura del rendimento finanziario, estranea per essenza alle logiche dell’azione sindacale [4].
In secondo luogo, la logica della liquidità e del rendimento finanziario sottomette in ogni caso l’insieme degli attori a dei vincoli di performance ben precisi e estremamente severi, dando luogo a dei ranking di performance che misurano le posizioni relative di ciascuno e conducono all’espulsione dei meno efficienti.
Insomma, i managers dei fondi di pensione alternativi sarebbero stati prima o poi sostituiti da managers obbedienti alle norme standard. Quest’ultimi, nel miglior dei casi, avrebbero integrato in modo puramente formale i criteri alternativi proposti da Aglietta all’interno delle norme classiche del rendimento finanziario.
A quindici anni di distanza dall’inizio di questo dibattito, è difficile dar torto a Lordon. Il suo scetticismo sembra completamente confermato, e questo tanto per quanto riguarda il potenziale di sviluppo di fondi di pensioni sindacali alternativi che la loro capacità d’incidere sul sistema.
Quali sono infine gli insegnamenti di questo dibattito per l’esperienza di finanza alternativa promossa da Robin-Hood?
Malgrado alcune analogie (per esempio la costituzioni di fondi alternativi senza un rendimento fisso prestabilito), il progetto Robin-Hood presenta rispetto alla proposta d’Aglietta, due differenze e due due vantaggi principali :
– La prima è che il suo principale interlocutore non sono le organizzazioni storiche tradizionali del movimento sindacale, imprigionate nella nostalgia del modello fordista e in ogni caso di una cultura della cogestione che le rende subalterne alla logica del capitale, sia esso industriale o finanziario. Il fondo si rivolge invece alle moltitudini del lavoro precario e cognitivo, a quanto nell’approccio operaista chiamiamo la figura di un’intelligenza collettiva (o di un’intellettualità diffusa) capace di sperimentare, sul piano stesso della produzione, forme d’organizzazione radicalmente alternative tanto all’impresa che al mercato nei loro principi di coordinazione. Non si tratta qui di cogestire, ma letteralmente di rubare ai ricchi per dare ai poveri al fine di favorire l’esodo dal rapporto salariale e il finanziamento dei commons della conoscenza, nelle svariate forme che il loro sviluppo prende nella società contemporanea
-La seconda differenza, se ho ben capito, è che Robin Hood non nutre l’illusione di poter veramente sovvertire la logica dal capitale dal suo interno, utilizzando la finanza capitalista per imporre un nuovo modello di un’ipotetica finanza post-capitalista, come era in parte il caso per la proposta di Aglietta. Altrimenti si cascherebbe, seppur in nuove forme, come nel caso di Aglietta, nella vecchia illusione di “un capitale senza capitalisti” di cui già Marx aveva mostrato le incongruenze a proposito dei socialisti ricardiani.
Robin Hood si limita a concepire lucidamente la messa in opera di dispositivi finanziari alternativi (capaci di utilizzare le inefficienze dei mercati finanziari) come uno strumento tattico subordinato alla realizzazione di obiettivi strategici che si attacchino veramente alla radice del rapporto di sussunzione del lavoro al capitale.
In particolare, a mio avviso, sarebbe infatti difficile pensare di poter modificare in modo significativo i rapporti di forza tra capitale e lavoro a partire dal solo uso alternativo, a livello micro-economico, dei circuiti finanziari capitalistici, senza rimettere in discussione lo statuto stesso della moneta e della forza lavoro.
Negli scritti di Robin Hood che ho potuto leggere, questa problematica tra tattica e strategia non è affrontata in modo esplicito e articolato. Tuttavia è proprio su questo terreno che è forse possibile trovare un terreno fecondo d’incontro e d’arricchimento reciproco tra il progetto Robin-Hood e le proposte elaborate nel quadro della corrente di pensiero post-operaista a cui ci riferiamo sia io che Andrea [Fumagalli, ndr].
2. Moneta del comune e social basic income
Su questa base, vengo dunque alla seconda parte del mio intervento dedicata alla definizione di una moneta del comune e alla proposta di un social basic income che rimetta in discussione l’asimmetria monetaria che fonda il potere del capitale e lo statuto subordinato della forza lavoro in una società capitalistica.
Il rapporto capitale/lavoro, nella sua essenza, definisce infatti l’asimmetria fondamentale che divide due classi sociali e gli individui che la compongono, nelle loro modalità d’accesso alla moneta e quindi a un reddito.
Da un lato, abbiamo la classe dei capitalisti che, in ragione della proprietà dei mezzi di produzione e di sussistenza, può accedere alla moneta indipendentemente dal proprio lavoro e controlla i meccanismi della creazione monetaria rendendoli endogeni all’accumulazione di capitale. Su questa base, il capitale può inoltre influenzare in modo decisivo il volume della produzione e dell’impiego, cioè le condizioni chiave dell’accesso alla moneta e a un reddito per il resto della società.
Dall’altro, abbiamo la classe di coloro che non possiedano che la loro forza lavoro. Per poter accedere alla moneta e a un reddito sono dunque costretti a trovare un impiego salariato, un impiego che dipende dunque dal volume della produzione che i capitalisti decidono di mettere in opera in funzione delle loro aspettative di profitto.
Notiamo che questa definizione dell’essenza del rapporto capitale/lavoro diviene tanto più vera nel capitalismo cognitivo e finanziarizzato e queste per due ragioni principali e strettamente legate (evocate nell’introduzione) :
a) La prima è che in rottura con l’epoca fordista e della sussunzione reale, il lavoro dispone sempre più di una dimensione cognitiva e immateriale che gli permette d’organizzare la produzione in modo autonomo rispetto al comando del capitale. La prescrizione tayloristica delle mansioni cede cosi’ il posto a quello della soggettività e lo stesso capitale produttivo non svolge spesso più alcuna funzione reale necessaria nell’organizzazione della produzione. Si tratta di un aspetto centrale della tendenza al becoming rent of profit.
b) La seconda – che ne è in gran parte un corollario – è che la sussunzione del lavoro al capitale è di nuovo puramente formale, perlomeno sul piano dei rapporti di sapere e potere che strutturano l’organizzazione della produzione. In altri termini, la costrizione al rapporto salariale è nuovamente di natura essenzialmente monetaria, come mostra d’altronde il ruolo strutturale che la precarietà svolge nella regolazione del rapporto salariale.
È questa la ragione sempre più decisiva per cui la forza lavoro è costretta a lavorare per il capitalista, invece d’organizzarsi in modo autonomo per se stessa, liberando, per esempio, tutto il potenziale di sviluppo di cui testimoniano i modelli produttivi autogestiti dei commons del software libero, dei makers, dell’economia sociale e cooperativa nelle produzioni dell’uomo per l’uomo.
In questo quadro la concezione di una moneta del comune dovrebbe dunque poggiare su due pilastri principali:
– il primo consiste a privare la moneta delle caratteristiche di riserva di valore alla base della logica del denaro come capitale, per metterla al servizio di una logica reale della produzione e dello scambio finalizzata al finanziamento degli obiettivi decisi democraticamente da una comunità politica. Per riempire questo ruolo, la moneta del comune deve essere una moneta fondente, come l’aveva teorizzato l’economista anarchico Gesell. Vale a dire, una moneta che perde valore nel corso del tempo quando non è utilizzata in modo socialmente utile e produttivo, ma detenuta per fini speculativi [5].
– Il secondo pilastro consiste a pensare la moneta del comune come una moneta non più endogena al solo capitale ma anche alla forza lavoro, una moneta che permetta cioè di rendere la sua riproduzione più indipendente dal ciclo di valorizzazione del capitale e quindi dalle decisioni dei capitalisti in termini di produzione e di livello dell’impiego.
La rivendicazione e l’instaurazione d’un social basic income indipendente dal lavoro salariato sarebbero la chiave di volta di questo processo di socializzazione e di riappropriazione della moneta. Il social basic income, pensato al tempo stesso come un reddito primario e un’istituzione del comune, dovrebbe riempire due funzioni principali :
La prima è proprio quella di rovesciare la logica capitalistica che lega strettamente il reddito all’impiego salariato, facendo del secondo la precondizione del primo.
La seconda è che l’attenuazione della costrizione monetaria e la liberazione di tempo permessa dal social basic income ne farebbe un formidabile strumento di una politica generativa di ricchezza e non di valore. Esso permetterebbe infatti di rendere economicamente sostenibili lo sviluppo di tutta una serie di attività produttive autonome che oggi, come abbiamo visto, sono proprio ostacolate dall’assenza di tempo e di risorse di cui soffrono i precari del lavoro cognitivo impedendo loro un investimento più attivo nella logica non salariale e non mercantile dei commons.
In questa prospettiva, il RSG corrisponderebbe simultaneamente alla convalida sociale e ad un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società delgeneral intellect crea, al di là del salariato.
Essa permetterebbe così di rompere al tempo stesso con due dogmi del capitale ben introiettati nell’incosciente collettivo della società.
Da un lato, con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito.
Dall’altro con l’idea che il solo lavoro degno di essere riconosciuto come produttive è il lavoro che produce merce e genera profitto. Il social basic income, si fonda infatti sul riconoscimento che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito. La prospettiva qui tracciata di una moneta del comune si situa beninteso al livello di una definizione globale e teorica di un possibile rovesciamento del rapporto capitale/lavoro. Essa può e deve tuttavia già concretarsi in sperimentazioni locali di modelli alternativi nei quali il progetto Robin-Hood potrebbe avere un ruolo essenziale, congiuntamente all’instaurazione di monete complementari o alternative.
Note
[1] J.M. Keynes, 2005 [1936], Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, traduzione di Alberto Campolongo rivista da Terenzio Cozzi, I Grandi Classici dell’Economia, Milano Finanza, UTET, 2005
[2] Il rimedio radicale sarebbe infatti, secondo Keynes, una politica che realizzasse l’obiettivo esplicito della “eutanasia del redditiero e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. Oggi l’interesse non rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra”. (Keynes 2005 [1936], cap. 24, par. II, pp. 512-513). Tale politica potrebbe poggaire per esempio su una “moneta stampigliata” che farebbe sì che la moneta “sia sottoposta a costi di mantenimento allo stesso modo delle altre scorte di merci sterili” (Keynes 2005 [1936], cap. 23, par. VI, pp. 494-495).
[3] M. Aglietta,(1997), Régulation et crises du capitalisme, ed. Odile Jacob, Paris ; F. Lordon, (2000), Fonds de pension, piège à cons?, ed. Raison d’agir, Paris.
[4] Si tratta allora di mutare non la strategia di un solo tipo d’agente, in tal caso i fondi di pensione, ma il cmportamento di una catena di operatori che concorrono alla definizione e alla messa in opera delle decisioni finanziarie, a partire dai cabinets de conseil che aiutano i fondi a determinare la loro politica d’investimento, i responsabili della gestione effettiva delle somme raccolte dai fondi, gli esperti in comunicazione che lavorano nelle imprese, gli analisi finanziari che forniscono gli studi e le politiche di voto in assemblea generale.
[5] Notiamo inoltre che una moneta fondente rovescia anche il rapporto classico tra creditore e debitore. Essa scoraggia infatti la detenzione della moneta facendo subire l’interesse non a colui che prende a prestito ma a colui che detiene degli averi monetari senza utilizzarli.
Relazione di Carlo Vercellone tenuta al ROBIN HOOD WORKSHOP ON FINANCIAL TECHNOLOGIES, 20 novembre 2015, Exarcheia, Athene, Greece.
Fonte: Effimera
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