La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 4 gennaio 2016

India: lotta contro il comunalismo

Intervista a Javed Anand di Jacobin Magazine 
“In India i termini ‘comunalismo’ e ‘comunalista’ sono usati a indicare una politica esclusivista, fondata sull’identità religiosa”.
Quando il partito indiano Bharatiya Janata (BJP) è balzato al potere nelle elezioni dell’anno scorso c’è stata abbondanza di clamore mediatico riguardo al mandato presupposto enorme del partito. Tuttavia la sua quota del 31 per cento del voto è stata la più bassa di sempre per un partito vincente nelle elezioni indiane. Il vero significato della vittoria sta invece nella traiettoria del suo leader, l’ora prima ministro Narendra Modi.
Nel 2002 Modi era governatore del Gujarat quando disordini anti-mussulmani reclamarono più di mille vite e centinaia di luoghi di culto. Dodici anni dopo egli è emerso come il primo ministro della più vasta democrazia del mondo.
Questo la dice lunga sui modi in cui si è evoluta la politica indiana sotto la pressione di gruppi come il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS) nazionalista hindu, un’autodefinita organizzazione culturale che controlla gran parte del BJP e una serie di affiliati nonché le violente mobilitazioni comunaliste cui essi contribuiscono.
Questo tipo di violenza e visione politica religioso-nazionalista è giunto a essere noto nel paese come “comunalismo”. Due dei suoi più formidabili avversari sono i giornalisti Teesta Setalvad e Javed Anand, che hanno fondato il Communalism Combat [Lotta al comunalismo] nel 1993, dopo aver assistito a un decennio di violenza.
Negli anni successivi il Combat è divenuto un’importante piattaforma per la lotta al comunalismo in tutte le sue forme. Collaborando con ‘Cittadini per la Giustizia e la Pace’ Combat ha fatto più di ogni altra pubblicazione principale per denunciare la dimensione e l’orrore della violenza in Gujarat. La sua vigilanza gli ha procurato molti nemici potenti, tra cui lo stesso Modi.
Nell’intervista che segue, condotta da Jairus Banaji e Geeta Seshu, Anand parla dei principi della rivista, della violenza prodotta dal comunalismo e del significato del caso di Zakia Jafri che potrebbe tradursi in accuse penali contro Modi per l’uccisione del marito di Jafri nei disordini del 2002.
______
Quali sono stati gli inizi di Communalism Combat?
"Teesta ed io avevamo collaborato con i media tradizionali sin dagli anni ’80. A partire dal 1983 siamo stati testimoni di una rivolta comunalista dopo l’altra. C’era anche la sentenza sul caso Shah Bano, in cui i mussulmani erano scesi sul sentiero di guerra rivendicando una legge separata sulla famiglia per i mussulmani.
Poi la mobilitazione del Vishva Hindu Parishad (VHP), un’organizzazione hindu nazionalista di destra, riguardo alla richiesta di un tempio a Rama ad Ayodhya portò le cose al punto di ebollizione dal 1986 al 1992. Ciò portò alla demolizione della moschea Babri il 6 dicembre 1992. Fu Bombay che vide il peggio della violenza dopo di ciò, con pogrom contro i mussulmani.
In tutto tale periodo ci siamo trovati a occuparci di gran parte della violenza comunalista che stava avendo luogo e in reazione fondammo un gruppo chiamato Giornalisti Contro il Comunalismo."
Quando?
"Fu intorno al 1988-89. Una quantità di persone chiedeva: “Che cosa si deve fare?” Noi decidemmo che forse avremmo dovuto usare le nostre competenze professionali di giornalisti. Così lasciammo i nostri posti di lavoro e avviammo Communalism Combat nel 1993.
Molti dei nostri amici, sia nel giornalismo sia fuori dalla professione, dissero: “Siete matti! Lavorate nei media tradizionali, il che significa che avete un pubblico molto più vasto. Rinunciate a questo per avviare una rivista che venderà poche migliaia di copie”. Noi dicemmo: “Non è solo una rivista; è anche una piattaforma che ci offre l’opportunità di intervenire in modi che ci sarebbero impossibili altrimenti”.
La Commissione Srikrishna, che fu creata per indagare i disordini di Bombay in cui morirono circa novecento persone, aveva effettivamente fatto il nome di persone del partito nazionalista hindu Shiv Sena che erano complici della violenza del 1993 e di agenti di polizia colpevoli di essere venuti meno al loro dovere, così la nostra richiesta era che il governo Naharashtra agisse sulla base delle scoperte e delle raccomandazioni della commissione. Ci fu un tentativo di non rendere pubblico il rapporto.
Il governo Shiv Sena/BJP salì al potere nel 1995. La Commissione Srikrishna aveva bisogno di una proroga dei termini perché il suo lavoro non era concluso. Ma il governo annunciò che avrebbe sciolto la commissione. Atul Setalvad si rivolse alla Corte Suprema e la proroga dovette essere concessa.
Quando il rapporto fu pubblicato loro non vollero che fosse pubblicizzato troppo diffusamente, così produssero solo il numero di copie sufficiente per i membri del parlamento dello stato. Così, virtualmente nel giro di ventiquattr’ore, pubblicammo noi il rapporto della Commissione Srikrishna. Organizzammo incontri pubblici e dharnas per chiedere “giustizia per tutti e punizione dei colpevoli”. Non avremmo potuto fare nulla di ciò se fossimo rimasti nei media convenzionali.
Cosa più importante, tra il 1998 e il 2002 seguimmo cinque vicende che erano come campane d’allarme che dicevano “Guardate dove è il diretto il Gujarat!”. I media convenzionali, persino al meglio del loro laicismo, sono fondamentalmente limitati a un tipo di giornalismo episodico. Quello che era importante per noi era concentrarci sul problema del comunalismo, che consideriamo la più grande minaccia alla democrazia indiana, la faccia esteriore del fascismo in India. Poiché la libertà dei media dipende dalla salute della democrazia indiana, questa attività di giornalismo “obiettivo” in realtà non affronta affatto il tema del laicismo.
Quando ebbero luogo gli attacchi genocidi contro i mussulmani nel 2002 Teesta passò da due a tre settimane, dai primi giorni in poi, a recarsi in aree remote dove i media non erano ancora arrivati. Pubblicammo il rapporto Genocidio Gujarat 2002. Fu fatto circolare in entrambe le camere del parlamento e i parlamentari dissero: “E’ vero quello che c’è scritto qui?”. Il ministro dell’interno, Advani, promise: “Indagheremo, verificheremo” eccetera, eccetera.
Così eravamo un cane da guardia, anche se abbiamo sempre avuto una circolazione limitata. Eravamo in grado di farlo perché non stavamo semplicemente predicando ai convertiti.
Nei primi anni ’80 l’India regredì dall’era dei disordini comunalisti a un’era di pogrom comunalisti tollerati e a volte addirittura patrocinati dallo stato. A quel punto c’erano pogrom a tutto campo tollerati e patrocinati dallo stato. Si parla ancora di rivolte, ma il 1984 non fu una rivolta, il 1992-93 non fu una rivolta, né lo fu il Gujarat 2002. Al cuore della nuova era c’era un disegno in cui lo stato stava a guardare mentre folle hindutva scatenavano un regno del terrore. Era terrorismo di massa puro e semplice, anche se era ancora chiamato “rivolta comunalista”.
A Bombay nel 1992-93 avemmo i pogrom diretti contro i mussulmani, guidati dal Shiv Sena, e tre mesi dopo avemmo la serie di attentati dinamitardi contro la borsa e vari edifici rappresentativi della città, e in essi furono coinvolti mussulmani. La situazione cominciò ad apparirci tale che se una maggioranza della comunità utilizza la logica dei numeri e lo stato sta a guardare mentre si dà al terrorismo di massa, allora alcuni elementi della comunità messa al muro, per quanto minuscola in percentuale, potrà cominciare a pensare di vendicarsi.
In effetti potrete ricordare un dottor Jalee Ansari di Bombay che sta ora scontando il carcere per il suo ruolo in una serie di bombe sui treni. Nel suo interrogatorio dichiarò agli inquirenti che “volevamo inviare un messaggio al parlamento indiano che se non proteggerete i mussulmani secondo la costituzione, troveremo modi per proteggerci da soli”. Dunque in quel periodo cominciò a emergere anche una reazione al terrorismo di massa che era ugualmente pericolosa e gravemente problematica per il paese.
E poi dal 2000 si ebbero gli attentati a Nanded, gli attentati a Malegaon e le indagini di agenti imparziali di polizia della Squadra Antiterrorismo (ATS) scoprirono l’ascesa di gruppi terroristici hindu.
I media non vollero sfiorare l’argomento, né quelli a stampa né quelli elettronici. Teesta entrò in possesso del documento d’accusa dell’ATS nel caso degli attentati a Nanded, in cui si parlava chiaramente di un’intera “rete” (è l’esatto termine utilizzato) di estremisti hindu che formavano un sistema producendo attentati dinamitardi a Parbhani, a Nanded e altrove.
I colpevoli erano il gruppo Bajrang Dal e tizi del VHP travestiti da mussulmani per fare sembrare che i mussulmani fossero scatenati nell’intera area. Il giudice Sawant, Teesta e altri si recarono a Delhi per rendere pubbliche le loro scoperte e tennero una conferenza stampa cui parteciparono tra i sessanta e gli ottanta rappresentanti dei media?"
Quando?
"Fu nel 2009. Ci fu una buona partecipazione dei media elettronici. Noi dicemmo: “Questa non è un’opinione di Communalism Combat; questo è il documento d’accusa dell’ATS. Per favore esaminate questo nuovo fenomeno dei gruppi terroristici hindu”. Non ci fu alcun articolo il giorno dopo, salvo che sul The Hindu! Così quello fu il ruolo svolto all’epoca da Communalism Combat.
In secondo luogo, fin dall’inizio eravamo stati molto chiari sul fatto che anche se è vero che il comunalismo della maggioranza è ciò che rappresenta il vero pericolo per la democrazia e per le istituzioni democratiche, il comunalismo della minoranza e quello della maggioranza si alimentano a vicenda. Perciò non ci si può andar leggeri nel trattare il problema del comunalismo della minoranza perché allora si appoggia questo rapporto reciprocamente rafforzantesi. Così eravamo fortemente critici del comunalismo della minoranza.
Sul tema della legge personale mussulmana sostenemmo che tutte le leggi personali sono grossolanamente ingiuste nei confronti delle donne e che ciò va riformato, così ci mettemmo contro l’ortodossia mussulmana e i fondamentalisti mussulmani. Analogamente sul tema della casta. Vedevamo la casta, il comunalismo e il problema dell’ingiustizia di genere come una specie di tripode alla base stessa di Communalism Combat.
E sentivamo anche che il comunalismo non è solo un problema indiano, ma un problema che riguarda il subcontinente. Ciò che accade agli hindu e ai cristiani e agli ahmadiyyas in Pakistan ha serie implicazioni per la minoranza mussulmana in India e viceversa. Fummo la prima rivista in India a pubblicare un servizio di copertina sui talebani quando gli statunitensi li consideravano ancora degli alleati.
La nostra posizione è stata che non combattiamo la religione in quanto tale; combattiamo la manipolazione della religione a fini pratici. E non mettiamo in discussione la fede, ma riteniamo che tutte le fedi e credenze e pratiche siano subordinate a diritti e libertà fondamentali universalmente accettate.
L’ultimo numero di Combat uscì nel novembre del 2012, perché restammo privi di fondi, ma sono lieto di affermare che abbiamo appena rilanciato un’edizione in rete. E crediamo nella necessità che oggi diventi anche più grande di quanto era quando lo fondammo all’inizio."
Puoi dire qualcosa a proposito degli attacchi che subito dallo stato? Da che cosa dipendono?
"Communalism Combat non è mai piaciuto."
Avete subito qualche genere di censura?
"Ricevevamo telefonate di insulti, telefonate di minacce. Nella rete di RSS e nella sua macchina di propaganda eravamo definiti “anti hindu”. Se ci fossimo semplicemente attenuti a Combat allora forse saremmo stati associati a chiunque altro. Ciò che davvero non è andato loro giù e li ha fatti arrabbiare contro di noi (e con “loro” intendo non soltanto il Sangh Parivar – l’intera famiglia delle organizzazioni nazionaliste hindu – ma in particolare Narendra Modi) è che in reazione alla carneficina in Gujarat abbiamo avviato questa organizzazione di Cittadini per la Giustizia e la Pace (CJP).
Dal 1993 ci eravamo occupati di media e di esercitare pressioni. Ciò che non avevamo fatto fino al 2002 era percorrere la strada legale, andare a bussare alle porte dei tribunali e chiedere: “Dov’è la costituzione? Dov’è il primato della legge?” Il CJP decise di concentrarsi su questo.
Come forse nei casi di attacchi genocidi in tutto il mondo, a un certo livello c’è una tacita soddisfazione per aver impartito una lezione a un qualche gruppo di persone, ma contemporaneamente c’è negazionismo pubblico di ciò. Così da un lato Narendra Modi è divenuto “l’imperatore dei cuori hindu” nel 2002, ma al tempo stesso c’è stata negazione: “Il mio governo ha fatto tutto il possibile”, eccetera.
E’ una lunga storia ma fondamentalmente l’India è nota, purtroppo, per i ritardi della magistratura. Narandra Modi pensò a un corso totalmente alternativo, a sveltire la procedura giudiziaria. E come si diede da fare per realizzarlo? La polizia faceva già parte del suo piano, aveva i suoi funzionari compiacenti. Non tutti erano compiacenti, c’erano delle persone splendide, ma disponeva di un numero sufficiente di agenti di polizia compiacenti che erano disposti ad agire come suo esercito privato.
I nominati al ruolo di procuratore pubblico erano persone di VHP, RSS e Bajrang Dal, alcuni di loro anche detentori di cariche in tali organizzazioni. Così il procuratore pubblico agiva da avvocato della difesa in quei casi. Casi di omicidio e di assassinii di massa ottennero il rilascio su cauzione senza alcuna obiezione da parte dell’accusa.
Quando c’era il processo, ad esempio caso della Best Bakery, il primo caso di grande massacro ad andare a processo, la corte era stipata di questi aggressivi tipi hindutva. Crearono una tale atmosfera di terrore per i testimoni che essi non potevano dire la verità. E il caso fu giudicato e tutti gli accusati furono prosciolti per mancanza di prove, eccetera.
Si diede il caso che una settimana dopo i testimoni principali, specialmente una ragazza, Zahira Sheikh – che apparteneva alla famiglia proprietaria del panificio che era stato dato alle fiamme, uccidendo circa quattordici persone – presero contatto con il CJP. Noi le fornimmo una piattaforma di fronte ai media nazionali e internazionali e lei affermò pubblicamente che c’era stata un’atmosfera in cui, per timore delle loro vite, avevano dovuto mentire.
Così la portammo al CJP e poi lei si recò alla Commissione Nazionale per i Diritti Umani (NHRC) dove rilasciò la stessa dichiarazione. La NHRC inviò una petizione speciale alla Corte Suprema e noi presentammo una seconda petizione per conto di Zahira Sheikh e una per conto del CJP chiedendo un nuovo processo di questo caso una volta che fosse trasferito fuori dallo stato poiché non esistevano le condizioni perché fosse fatta giustizia in un giusto processo in Gujarat. La Corte Suprema accolse la nostra tesi così le stesse persone che erano state assolte, la maggior parte di loro, furono condannate in quella sede, all’ergastolo, eccetera.
Così innanzitutto mediante Communalism Combat noi non solo denunciammo ciò che era accaduto in Gujarat e il ruolo di Modi in ciò, ma poi, quando iniziò CJP la sua prima iniziativa fu di creare un tribunale dei cittadini diretto da tre giudici in pensione, due dei quali della Corte Suprema indiana. Il loro rapporto in tre volumi si intitolava Crimine contro l’umanità. Il succo di quei tre volumi era che le uccisioni del 2002 in Gujarat erano di natura genocida e che l’autore e architetto di esse era nient’altro che il primo ministro del Gujarat.
Il CJP andò poi avanti. Una cultura di impunità è la norma in India. Quelli che uccidono una singola persona saranno condannati all’ergastolo, ma gli assassini di massa non sono mai toccati. E’ una cosa senza precedenti che oggi circa 120 persone scontino l’ergastolo, i responsabili di aver perpetrato le violenze in Gujarat, compreso un ministro del governo di Modi e il capo del Bajran Dal in Gujarat."
Dunque come descriveresti il ruolo del CJP?
"Ha sfidato con successo la cultura d’impunità prevalente in India. Ed è questo che rende Modi e il Sangh Parivar molto scontenti di noi. Per giunta lo stesso Narendra Modi, che era divenuto “l’imperatore dei cuori hindu” … il solo caso in cui lui è stato citato è una causa intentata da Zakia Jafri. Zakia Jafri è la vedova di Ehsan Jafri, ex parlamentare ucciso – insieme a sessantaquattro altri della Gulbarg Society (un quartiere mussulmano) in modo brutale, barbaro nel 2002. Zakia Jafri è stata testimone di ciò ed è una sopravvissuta al pogrom.
Nel 2006, con l’aiuto del CJP, voleva depositare presso la polizia del Gujarat un FIR (Rapporto di Prima Informazione) che affermava che con il genere di prove che persino agenti di polizia in servizio hanno ora depositato presso la Commissione Nanavati, era chiaro che non si trattava di incidenti isolati, avvenuti in varie località, ma che c’era una cospirazione per assassinii di massa e indicava le persone implicate. Aveva una lista di sessantadue persone; l’accusato numero uno era lo stesso Narenda Modi, poi numerosi ministri, il capo della segreteria, il direttore generale della polizia, il commissario della polizia, eccetera eccetera; naturalmente la polizia locale si era rifiutata di accogliere la denuncia.
Con l’aiuto del CJP si è recata dal DGP (il Direttore Generale della Polizia). Questi si è rifiutato di accogliere il FIR. Si sono rivolti al tribunale speciale del Gujarat; il tribunale speciale ha respinto il loro appello perché desse istruzioni alla polizia. Si sono rivolti all’Alta Corte del Gujarat; non ne è seguito nulla. E alla fine si sono rivolti alla Corte Suprema. E la Corte Suprema ha trasmesso una notifica allo stato e alla polizia del Gujarat chiedendo una risposta; chiedendo: se un cittadino ha prove prima facie credibili di un crimine e la polizia si rifiuta di registrare tale crimine, a chi dovrebbe rivolgersi quel cittadino?
La Corte Suprema che, nel contesto della petizione depositata dal CJP, aveva diretto una nuova indagine da parte di un’agenzia d’investigazioni indipendente esterna al Gujarat riguardo a da otto a nove casi di grandi massacri del 2002, ha poi chiesto alla stessa squadra speciale d’indagine di provare il ruolo di Modi nel contesto della petizione di Zakia Jafri.
Per dirla in poche parole, anche se la Squadra Speciale d’Investigazione (SIT) ha “assolto” Modi, l’amicus curiae nominato dalla Corte Suprema, Raju Ramachandran, ha assunto una posizione diversa: che esistonoprove incriminatrici contro di lui e contro due altri funzionari di polizia della polizia di Ahmedabad. Poiché il SIT ha depositato un rapporto di chiusura delle indagini presso il tribunale speciale del Gujarat, Zakia Jafri, con l’aiuto del CJP, ha contestato tale rapporto. Il tribunale speciale non si è schierato dalla sua parte, cosicché ella si è rivolta alla corte superiore, dove la materia è pendente.
Penso che questo dovrebbe chiarirvi il contesto dell’attacco contro di noi, del perché a loro non piacciamo neanche un po’ e del perché hanno necessità di perseguitarci. Anche prima che l’attuale tornata di attacchi contro di noi iniziasse nel gennaio del 2014, Teesta aveva avuto da tre a quattro denunce penali contro di noi, ad esempio per aver asseritamente istruito testimoni, falsificatoprove, che due tribunali separati hanno respinto nello stesso Gujarat.
Il governo del Gujarat pare aver istigato un ex collaboratore del CJP a inventare accuse di peculato contro il Sabrang Trust. L’indagine va avanti da un anno. Ci chiedono ogni sorta di documenti. A oggi abbiamo sottoposto ben più di ventimila documenti in forma cartacea e digitale, rispondendo a ogni accusa che ci è stata formulata; non sono stati in grado di trovare nulla.
Il FIR contro di noi ha diversi obiettivi: montare un processo mediatico contro di noi, gettarci addosso fango nella speranza che una parte si attacchi, spaventare i donatori inducendoli a non appoggiare il CJP o il Sabrang Trust (in tal modo paralizzandoci finanziariamente), inviare un messaggio ai propri elettori per dire: “Questo è ciò che facciamo a quelli che ci attaccano” e fare di noi un esempio per trasmettere a tutti i gruppi e i singoli come noi il messaggio che “se parlate, vi scateneremo contro il CBI (l’Ufficio Centrale di Indagine), la polizia contro di voi”."
I vostri conti sono ancora congelati?
"Sì, lo sono dal gennaio 2014."
C’è la possibilità che il CBI vi arresti?
"La nostra tesi per la libertà su cauzione è molto forte; la corte suprema di Bombay l’ha già autorizzata."
Per finire, come vedi gli eventi quali l’attacco a Charlie Hebdo e quelli di Parigi?
"Un motivo di consolazione di fronte a simili crimini odiosi è che almeno un segmento significativo della comunità mussulmana sta finalmente abbandonando il suo atteggiamento negazionista. Quando accadde l’11 settembre la versione diffusa nel mondo islamico era che si era trattato di un’operazione sotto mentite spoglie del Mossad per coinvolgere i mussulmani; non c’era dietro Osama bin Laden. In India si diceva che nessun mussulmano avrebbe potuto fare ciò, perché l’Islam è contrario al terrorismo.
Dal 2008 abbiamo visto il Jamat Ulema-e-hind, che è un ramo della scuola di Deoband, dichiarare l’opposizione pubblica al terrorismo. A febbraio 2008 il Darul Uloom (una ben nota madrassa di insegnamento islamico con sede a Deoband) ha tenuto un’assemblea di molte centinaia di eminenti ecclesiastici in cui è stata approvata una risoluzione di condanna delle attività terroristiche.
Nel 2003 io, insieme con alcuni altri mussulmani di Mumbai, ho creato un’organizzazione chiamata Mussulmani per la Democrazia Laica, fondamentalmente perché sentivamo che l’estremismo nel nome dell’Islam, l’intolleranza nel nome dell’Islam, l’oppressione di genere nel nome dell’Islam, il terrorismo che stava cominciando a sommergere alla grande il Pakistan, il problema dell’apostasia, della libertà di espressione, in breve un’intera gamma di temi era qualcosa che la comunità mussulmana non affrontava.
Sentivamo che la comunità nel suo complesso ancora non si sente a suo agio nel mondo moderno. E che questi temi non erano sollevati in sedi laiche in India, il che è parte del motivo per cui a volte ci troviamo sulla difensiva, perdiamo credibilità. Abbiamo avviato una cosa che abbiamo chiamato “jihad contro il terrorismo”. Il punto è: siamo semplicemente contro il comunalismo hindu o siamo contro il comunalismo in quanto tale? Ovviamente il pericolo per la democrazia indiana verrà dalla maggioranza hindu, così come lo sarà dalla maggioranza mussulmana in Pakistan. Ma non possiamo far compromessi.
Nel globo intero a molti della sinistra è posta la stessa domanda è devono riflettere su da quale parte stare. Nella “lotta contro l’imperialismo”, considerare ogni tipo di mussulmano che ha un’arma o una bomba in mano come un potenziale alleato in base al principio che il nemico del mio nemico è mio amico non ci porterà da nessuna parte.
Maulana Mahmood Madani, che è il capo di fatto di una delle due fazioni del Jamiat Ulema, è stato molto ricettivo quando l’ho contattato e c’è stata una grande manifestazione alla Ramlila Maida di Delhi nel febbraio del 2008. Hanno ottenuto una fatwa sottoscritta da tre mufti di Deoband, uno dei quali capo del dipartimento delle fatwa. Affermava che nulla può giustificare il terrorismo, qualche che sia la causa e qualsiasi cosa succeda. Dunque era formulata in modo molto duro.
Nulla alimenta l’islamofobia più del terrorismo. Se i media dovessero proiettare correttamente questa opposizione, aiuterebbero molto a chiarire ciò, almeno in India. Così il negazionismo che era diffuso nel 2001 e prima è oggi molto meno evidente."

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Jacobin Magazine
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.