La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 6 gennaio 2016

La Russia oggi, un paese incommensurabile

di Perry Anderson
È passato ormai quasi un quarto di secolo da quando la Russia si è lasciata dietro le spalle il comunismo. Il suo attuale presidente è stato al governo per quindici anni, e alla fine del suo attuale mandato sarà rimasto al vertice del potere per un periodo pari a quello del segretario del PCUS Breznev. Fin da quando Putin è comparso sulla scena, l’opinione pubblica occidentale si è mostrata nettamente divisa nei suoi confronti. Che sotto la sua guida – dopo un periodo di diffusa miseria e di dissesto economico e sociale, che ha portato lo Stato quasi sull’orlo della bancarotta – il paese avesse ripreso a crescere economicamente e avesse ritrovato la stabilità politica apparve evidente fin dalla conclusione del suo primo mandato; e lo stesso si può dire per la popolarità che proprio per questo egli aveva riscosso. Ma a parte queste elementari considerazioni, sulla sua figura non vi era consenso. Per alcuni, la cui voce col passare del tempo si è fatta sempre più forte, i fulcri del sistema di potere putiniano erano rappresentati dalla corruzione e dalla repressione: il suo era uno Stato neo-autoritario fondamentalmente ostile all’Occidente, con un involucro di proprietà legali contenente al suo interno una traballante piramide fatta di cleptocrazia e di comportamenti criminali.
Questa prospettiva era prevalente soprattutto negli ambienti giornalistici, sebbene non limitata ad essi: esempi significativi in tal senso sono rappresentati da volumi quali The New Cold War (2009), del direttore dell’«Economist» Edward Lucas, Mafia State (2012), del giornalista del «Guardian» Luke Harding, Fragile Empire (2013), del collaboratore di «Standpoint» Ben Judah; e anche un giurista come Stephen Holmes ha formulato considerazioni non meno aspre. Per Lucas, la figura di Putin, che conquistò il potere con un «cinico putsch» e lo ha conservato ricorrendo ai «metodi dei terroristi e dei gangster», ha «gettato un’ombra scura sulla metà orientale del continente». Secondo Harding, si può affermare che sotto la tutela putiniana «la Russia è diventata prepotente, violenta, crudele e – soprattutto – inumana». Judah descrive la Russia come «una società angosciata, avvilita», prodotto di uno dei «grandi fallimenti della storia», in preda a un sistema apocalittico nel quale, poiché «Putin non può lasciare il potere senza timore di essere arrestato», l’Occidente «dovrebbe chiedersi se non sia il caso di offrirgli asilo per evitare spargimenti di sangue». Da parte sua, Holmes scrive che «dietro la maschera di una restaurazione autoritaria» non c’era niente di più «la smania predatoria criminale» di «una oligarchia conflittuale, socialmente separata e avida», i cui «vari gruppi lottano fra di loro per accaparrarsi la propria parte degli enormi flussi di denaro» disponibili[1].
Gli esponenti del fronte opposto hanno avuto un maggior peso all’interno del mondo accademico, nel quale le opere di due autorità di primo piano nel settore degli studi politologici sulla Russia post-comunista hanno emesso – senza omettere di indicarne i lati oscuri – verdetti sostanzialmente favorevoli sull’azione di governo di Putin. Lo studio che Daniel Treisman ha dedicato ai primi due decenni successivi alla caduta dell’Unione Sovietica, The Return (2011) si diffonde sulla sua precedente tesi secondo cui la Russia era diventata un normale paese a reddito medio, con tutti i tipici difetti del caso – capitalismo clientelare (crony capitalism), corruzione, disuguaglianze di reddito, mezzi d’informazione non imparziali, brogli elettorali -, ma comunque incomparabilmente più libero degli Stati petroliferi del Golfo, ai quali spesso veniva paragonato; meno violento di un rispettabile membro dell’OECD quale il Messico; meno statalista nel controllo dell’energia rispetto al Brasile. Nella maggior parte dei casi, i russi nel 1997 avevano la percezione che la loro libertà fosse aumentata, e così anche il loro livello di felicità. «Davvero è funzionale agli interessi a lungo termine dell’Occidente», si chiedeva Treisman, «affermare l’esistenza di un non dimostrato programma imperiale, esagerare i tratti autoritari dell’attuale regime, demonizzare il gruppo dirigente del Cremlino e idealizzare i suoi oppositori liberali?»[2].
A tale riguardo, Richard Sakwa – il più prolifico studioso della Russia in in questo nuovo secolo, con quattro importanti volumi e una profluvie di interventi e saggi – ha sostenuto che se Putin ha indubbiamente tratto vantaggio dai poteri concessigli dalla Costituzione che ha ereditato, d’altra parte ha sempre operato all’interno di quella cornice costituzionale, senza mai ripudiarne le norme di stampo liberale. Quella che è emersa nel periodo del suo governo non è dunque una moderna autocrazia – non si sono avuti né uno stato d’emergenza, né arresti di massa, né un’attività di censura in campo letterario e artistico –, e neppure una versione più morbida del regime sovietico, bensì uno «Stato duale», i cui componenti strutturali sono un ordine giuridico-costituzionale e un sistema amministrativo discrezionale, mantenuti in reciproca tensione dal centrismo di Putin. «L’essenza del sistema putiniano», ha scritto Sakwa nel suo The Crisis of Russian Democracy (2011) «consisteva nel mantenere questi due pilastri sullo stesso piano». L’approssimativo equilibrio fra di essi ha consentito un’incoraggiante evoluzione verso il pieno raggiungimento di quella che l’autore definisce «la ‘confezione standard’ [occidentale] composta da costituzionalismo, democrazia liberale e libero mercato», nel momento in cui è stato attivato «il forte potenziale latente nelle istituzioni formali della democrazia postcomunista russa»: «A quel punto, le istituzioni inizialmente modellate sulla confezione standard potranno gradualmente acquisire una propria autonoma vita, e lo Stato costituzionale superare la condizione di arbitrarietà del regime amministrativo[3].
Dualità
Giudizi così antitetici non scaturivano, come solitamente avveniva negli anni Trenta o nel periodo della Guerra fredda, da differenti prospettive ideologiche, ma anzi condividevano lo stesso punto di vista politico, vale a dire la fedeltà nei confronti della «confezione standard» dei valori occidentali così come definiti da Sakwa, la cui imitazione rappresenta la scala per valutare il progresso russo. Quel che a loro modo i contrasti fra queste prospettive riflettono sono semmai le oggettive ambiguità del sistema che descrivono, e che ne percorrono tutti gli aspetti economici, politici e ideologici. Nella maggior parte del periodo che si è aperto con Eltsin, la preoccupazione di gran lunga dominante nei commenti degli occidentali è stata quella di verificare il grado di presenza di quegli elementi che fungono da cartina di tornasole di qualsiasi sistema capitalistico che si rispetti: la libertà di mercato e la garanzia dei diritti di proprietà. Qual è stata sotto Putin la dinamica di questi attributi essenziali dell’economia liberale? Se prendiamo in considerazione molti indicatori convenzionali, siamo di fronte a un regime favorevole alle imprese. Un sistema fiscale che applica un’aliquota fissa del 13% sulle imprese e sui redditi è tale da fare invidia a qualunque responsabile di un’impresa occidentale. Dopo l’ingresso della Russia nella World Trade Organization, il massimale tariffario sui prodotti manifatturieri fu inferiore all’8%. Il debito pubblico, anche dopo la crisi finanziaria globale del 2008 ha oscillato intorno al 10% rispetto al PNL, con riserve del valore di 500 miliardi di dollari, un dato da sogno per gli USA e gli Stati dell’Unione Europea. La bilancia dei pagamenti si è mantenuta pressoché costantemente in avanzo fin dall’inizio del secolo. Da quando Putin è salito al potere, l’incidenza del settore privato sull’economia nazionale è aumentata dal 46 al 60%; e lui stesso a tale riguardo ha ripetutamente rassicurato gli investitori: «Non stiamo costruendo un capitalismo di Stato».
Nel settore energetico, tuttavia, che nel 2011 ha rappresentato il 52% del valore delle esportazioni russe e il 49% delle entrate federali, il gas rimane soggetto al monopolio statale, e sotto Putin la quota di industria petrolifera nelle mani dello Stato è aumentata da un livello prossimo allo zero al 45%. Il fatto che i capitali privati ancora controllino la maggior parte delle risorse petrolifere fa della Russia un caso anomalo nel mondo contemporaneo, insiema ad alcuni baluardi dei principi del libero mercato quali gli USA, il Canada e la Gran Bretagna – altrove, quasi ovunque, dal Brasile alla Norvegia, dall’Arabia Saudista all’Angola, dall’Indonesia al Venezuela, in questo settore la proprietà pubblica è la regola. La distribuzione dei titoli tuttavia ha meno importanza dei loro cambiamenti. Sebbene Putin fosse ben consapevole della straordinaria popolarità che avrebbe riscosso qualsiasi generale inversione di rotta rispetto alle privatizzazioni selvagge (prikhvatizacija) degli anni Novanta, ha rifuggito da qualsiasi concezione del genere. Ciò nonostante, con la sua scelta di espropriare l’Impero di Yukos, infrangendo in tal modo il potere del più ambizioso e spietato oligarca dell’era eltsiniana, ha modificato in un sol colpo il quadro della ricchezza e del privilegio. Il destino di Michail Chodorkovskij, osannato dai mezzi d’informazione locali e internazionali come un gigante della nuova imprenditoria russa, ha costituito un messaggio inequivocabile per i suoi compagni di saccheggio. I loro miliardi potevano tenerseli, ma era ormai chiaro che la loro presenza non veniva sopportata di buon grado. Da quel momento in poi, nessun oligarca poteva pensare di sfidare il potere dello Stato, e quando necessario, ognuno avrebbe dovuto mostrarsi pronto ad eseguirne gli ordini. Nei settori che più contavano, ai vertici del sistema economico, la proprietà privata non era una necessità incondizionata. Era frutto di una concessione – o, come qualcuno potrebbe dire, con una terminologia tratta non tanto dal colonialismo ottocentesco, quanto dall’assolutismo del XVI secolo – qualcosa di non molto diverso da una versione moderna delle concessioni di terre revocabili decretate dallo zar Ivan IV a beneficio dei suoi servi[4]. Le origini di questa caratteristica del sistema costruito da Putin putiniano possono essere individuate nella sua stessa esperienza formativa avvenuta nel contesto della società post-sovietica. Dopo aver attuato la Rivoluzione d’ottobre nella capitale della Russia imperiale, i bolscevichi spostarono la sede del potere da Pietrogrado a Mosca, situata in una posizione che nel corso della Guerra civile era meglio difendibile. Da allora in poi, per tutto il corso dell’esistenza dell’URSS, quella che poi sarebbe diventata Leningrado fu gradualmente ridotta, da un punto di vista politico, a una sorta di vicolo cieco, e la carriera dei dirigenti locali sarebbe stata invariabilmente interrotta dalla morte o dalla caduta in disgrazia. Negli anni Novanta, quando l’apertura dell’economia russa contribuì a riportare la città, che aveva ripreso l’antico nome di San Pietroburgo, al suo ruolo di centro urbano geograficamente e culturalmente più orientato verso l’Occidente, com’era stato nelle intenzioni del suo fondatore, per essa si aprirono nuove opportunità. Di ritorno da Dresda, dove aveva prestato servizio nel KGB, Putin diventò immediatamente assistente del nuovo sindaco della città Anatolij Sobčak, che nel 1991 era l’eroe liberale del momento, il quale lo incaricò di curare i rapporti economici della città con l’estero. Nella sua nuova posizione Putin si trovò al centro di un fitto reticolo di influenze politiche e di manovre affaristiche, che collegavano gli esponenti della nuova classe imprenditoriale e i veterani dei servizi di sicurezza con ogni sorta di faccendieri operanti in campo giuridico e finanziario, che a suo tempo sarebbero andati a costituire il nucleo del suo regime. Verso la fine del decennio lo stesso Sobčak, indagato per gravi episodi di corruzione, fuggì a Parigi con l’aiuto di Putin, che a quell’epoca era al Cremlino. Per il resto, la maggior parte degli esponenti di spicco del sistema che si affermò dopo il 2000 proveniva dalla rete dei pytertsy: fra gli altri, i falchi neo-liberali Čubais, Kudrin e Gref, gli agenti dei servizi segreti Sechin, Ivanov e Yakunin, i capi della sicurezza Patrušev e Bortnikov, le armi giuridiche Medvedev e Kozak, il miliardario e amico personale del presidente, Timcenko, e i fratelli Rotenberg[5].
All’interno di questa costellazione, nella quale ognuno ha potuto costruire la propria fortuna personale, non vi è mai stata una chiara linea di demarcazione fra economisti liberali e siloviki di Stato (gli «uomini della forza» dei servizi): per entrambi l’accumulazione privata di beni è politicamente costituita. Ma poiché si è in presenza di una congerie poco coesa piuttosto che di un clan, i conflitti personali e i cambiamenti di alleanze costituiscono un tratto endemico del sistema, e ciò ha consentito a Putin di poter rimescolare continuamente le carte e di mediare a suo piacimento fra gli interessi in gioco, in veste di arbitro generale dei molteploci intrecci fra Stato e capitale. Il più intelligente dei suoi “tecnici-politici” – suoi consiglieri nella gestione dell’opinione pubblica – ha offerto un’efficace testimonianza della prospettiva che stava alla base di questa arte di governo. All’inizio del 2012 Gleb Pavlovsky spiegò la questione in questi termini: «Putin è una figura dell’era sovietica, che ha compreso l’avvento del capitalismo da un punto di vista sovietico. A tutti noi avevano insegnato che il capitalismo è il regno dei demagoghi, dietro i quali si erge il grande capitale, una macchina militare che aspira al controllo del mondo. È un’immagine molto chiara e semplice, e penso che Putin avesse in testa questo, non come il portato di un’ideologia ufficiale, ma come una sorta di senso comune. Insomma, evidentemente, eravamo degli idioti: cercavamo di costruire una società giusta quando avremmo dovuto far soldi. Perché se avessimo fatto più soldi dei capitalisti occidentali, allora avremmo potuto comprarceli tutti. Oppure avremmo potuto creare un’arma che essi non possedevano. È proprio così. Era un gioco in cui perdevamo perché non facevamo alcune semplici cose: non davamo vita a una nostra propria classe di capitalisti, non davamo a quel tipo di predatori che ci venivano descritti un’opportunità per comparire e divorare i loro predatori. Erano queste le idee che Putin aveva in mente, e non penso che da allora siano cambiate in modo significativo»[6].
Gli oligarchi creati nel periodo di Eltsin non avevano capito la loro ultima ratio, e con Yukos avrebbero appreso la lezione. Ma non era assolutamente in discussione il fatto che vi fosse bisogno di gente del genere. Vladislav Surkov, un pacchiano consigliere, raccontò nel 2011 a un giornalista che sarebbe stato impossibile che Putin procedesse a una generale estromissione degli oligarchi, per il semplice motivo che mancavano imprenditori abbastanza capaci per prenderne il posto. Quel gruppo di uomini d’affari era «molto esiguo e assai prezioso (…) sono loro che apportano capitali, intelligenza e tecnologie». Di conseguenza, «gli uomini del petrolio non sono meno importanti del petrolio stesso; lo Stato deve trarre il massimo da entrambi»[7]. In questa sintassi economica, il soggetto principale è l’ultimo.
Il garante dell’ordine
Ma quali sono gli ingredienti della «confezione standard»? Putin ha sempre sostenuto che la società da lui governata è una democrazia. Non sembra esservi molto da discutere sul fatto che non si tratti di una dittatura poliziesca o militare. La libertà di espressione, sulla stampa o in rete, non è molto inferiore a quella che esiste in Occidente. Le concrete possibilità di esercitarla in televisione o sulla stampa sono assai più ridotte, ma in rete, dove ormai la Russia può vantare il più vasto numero di utenti fra i paesi europei, gli ostacoli non appaiono rilevanti. La libertà di movimento è un dato acquisito. Quanto alla sorveglianza elettronica sui cittadini, è inferiore a quella che viene praticata negli Stati Uniti. I partiti d’opposizione, per quanto tali solo in teoria, vedono eleggere regolarmente i loro deputati in Parlamento. La Costituzione, acclamata dagli occidentali al momento della sua approvazione, è intatta. La giurisdizione internazionale della Corte europea dei diritti umani viene accettata. Quanto al diritto interno, la maggior parte dell’attività giusdizionale in campo civile si svolge al riparo di interferenze. I tratti che connotano uno Stato di diritto non sono dunque tutti immaginari.
Essi tuttavia sono inclusi in un ordine di diverso tipo, ad essi sopravvenuto. La Costituzione stessa è frutto di brogli, vale a dire della falsificazione dei voti referendari, denunciata dalla stessa commissione di controllo di Eltsin, e attorno alla quale gli studiosi e i giornalisti occidentali si sono premurati di stendere un velo di silenzio. Nessuna delle consultazioni elettorali tenutesi dopo la caduta dell’Unione Sovietica è andata esente da alterazioni fraudolente del voto o episodi di coercizione. La vittoria riportata da Eltsin nel 1996, salutata con particolare soddisfazione dalla Casa Bianca a da Downing Street, rappresenta il più famigerato caso di tradimento della volontà popolare: sedici anni dopo Medvedev, un presidente eletto con lo stesso sistema, ha ammesso apertamente che in quell’occasione il vero vincitore delle elezioni fu il comunista Gennadij Zjuganov[8]. Putin, diversamente da Eltsin, avrebbe ottenuto le sue vittorie nelle elezioni presidenziali, anche se magari con percentuali minori, anche senza ricorrere ad alterare i reali risultati; tuttavia ai voti per la sua formazione parlamentare, Russia Unita, non è mai corrisposto un reale consenso[9]. Al di sotto della Costituzione formale, è difficile scorgere qualsiasi effettiva divisione dei poteri. Ai livelli più elevati, il potere giudiziario dà applicazione alla volontà del Cremlino. Fin da quando Eltsin bombardò la Duma, l’assemblea parlamentare è stata sostanzialmente ridotta a un organismo di scarso peso. Perfino il governo non è un vero e proprio esecutivo, in quanto non solo il primo ministro viene nominato dal presidente (salvo i casi in cui Putin si è autoinvestito di tale funzione) e può da esso essere destituito, ma la presidenza dispone di ampi poteri anche sul governo in quanto tale. Il nucleo essenziale del sistema politico è un «superpresidenzialismo» che attualmente non ha equivalenti costituzionali in nessun altro Stato del mondo.
A rafforzare questo sistema che altera o rende fittizia la rappresentanza esiste poi un meccanismo coercitivo che viene di volta in volta aggiornato ed esteso. Fin dai tempi di Eltsin le dimensioni della burocrazia federale e locale sono più che raddoppiate, arrivando a un totale di circa 1.700.000 addetti. Sotto Putin l’apparato di sicurezza ha mantenuto il passo, e la spesa per tale settore è aumentata di più di dodici volte. I Servizi federali per la sicurezza (FSB) sono diventati un corpo composto da 350.000 elementi, tanto da essere in grao di operare nella società con una rete ancora più fitta di quella del KGB di un tempo, e fornisce una parte consistente dei livelli superiori dell’amministrazione locale[10]. Se si eccettuano le zone di guerra del Caucaso settentrionale, le attività di repressione diretta sono condotte dai reparti speciali OMON del Ministero dell’interno (MVD), la polizia antisommossa che viene schierata contro le proteste o le dimostrazioni non autorizzate. Quanto agli omicidi su commissione, che continuano ad avvenire dai tempi di Eltsin e degli oligarchi, su di essi raramente viene fatta luce. A tenere insieme in un unico sistema le varie istituzioni amministrative, rappresentative e repressive è il collante costituito dalla corruzione, onnipresente ad ogni livello di governo. L’ammontare annuale delle bustarelle e delle tangenti è stimato da un autorevole studioso a una somma a dodici cifre[11]: il denaro, la forza e il consenso come strumenti la stabilizzazione del potere.
Questo per quanto riguarda le basi interne del regime. Tuttavia la «confezione standard», il modello di riferimento rispetto al quale quel sistema si presterebbe ad essere valutato dall’Occidente, include un ulteriore elemento che è quasi superfluo specificare, poiché implicito nella sua stessa definizione: la fedeltà ideologica alla comunità internazionale nella quale essa è incorporata, quale attestato della necessaria corrispondenza al modello stesso. Per Washington e Bruxelles, la costruzione di una moderna democrazia è inscindibile dall’allineamento con l’ecumene euro-americano. In che misura la Russia soddisfa questa condizione? All’inizio del suo periodo di governo, Putin sostenne non solo che storicamente il suo paese faceva parte dell’Europa, ma anche che condivideva una medesima identità con la sua regione più avanzata: «Siamo europei occidentali». E si spinse perfino a ipotizzare una possibile adesione alla NATO. Per quanto le successive dichiarazioni apparissero più moderate, il regime e i mezzi d’informazione di cui disponeva non smisero mai di fare appello ai valori comuni della civiltà occidentale, che la Russia difendeva a fianco degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, nella sua battaglia contro il terrorismo contemporaneo. Sul piano diplomatico, Putin fu il primo a esprimere solidarietà a Bush dopo l’attacco del 2001 alle Torri gemelle e al Pentagono; decise la chiusura delle basi sovietiche a Cuba e nel Vietnam; aprì lo spazio aereo russo ai voli americani che rifornivano l’Afghanistan; non sollevò particolari problemi di fronte all’espansione della NATO alla regione del Baltico; ridimensionò, invece di rafforzarlo il proprio establishment militare – una serie di decisioni miranti a dimostrare che la Russia era un partner affidabile dell’Occidente, e un leale membro della comunità internazionale.
Ma fin dall’inizio ci fu sempre un caveat. Mosca aveva abbandonato ogni pretesa di rappresentare un’alternativa alla civiltà del capitale e alle sue forme politiche, ma non aveva affatto rinunciato a far valere il diritto a salvaguardare entro quel contesto la propria autonomia. La Russia quindi avrebbe continuato a mantenere le proprie tradizioni, risalendo ai primordi della propria storia. Nel «Messaggio del Millennio», pronunciato nella prima fase del suo terzo mandato alla presidenza, lo stesso Putin spiegò quale fosse il tema centrale di questo richiamo al passato: per noi, lo Stato, con le sue istituzioni e le sue strutture, ha sempre svolto un ruolo di eccezionale importanza nella vita del paese e del popolo. Per i russi, uno Stato forte non è un’anomalia contro la quale combattere. È semmai vero il contrario, esso è la fonte e il garante dell’ordine, l’iniziatore e la principale forza motrice di ogni cambiamento[12]. All’estero, ciò significava rispettare i doveri della derzhavnost’: la Russia avrebbe continuato ad operare nella veste di grande potenza mondiale, quale era stata fin dal diciottesimo secolo[13]. Non può certo sfuggire la contraddizione esistente fra questo vocabolario del passato e l’articolazione normativa di una «comunità internazionale» nella quale ogni riferimento alla gerarchia è bandito, quanto di meglio per imporre l’egemonia di chi ne è l’effettivo sovrano. A tempo debito, mentre gli Stati Uniti non si mostravano particolarmente toccati dalle aperture di Putin nei loro confronti, venne elaborata una dottrina mirante a colmare il fossato esistente fra i due paesi. Quella sostenuta dalla Russia era una «democrazia sovrana», espressione nella quale il nome ribadiva l’adesione alla «confezione standard», mentre l’aggettivo segnalava il grado di deviazione rispetto ad essa. Il paese non sarebbe stato una semplice replica del modello di riferimento, né al suo interno né sul piano internazionale. A ciò l’Occidente avrebbe dovuto fare l’abitudine.
Una serie di choc
Le cose erano a queste punto quando nella primavera del 2008 il secondo mandato presidenziale di Putin giunse a conclusione, dopo un ininterrotto periodo di rapida crescita economica, miglioramento dei livelli di vita, stabilità politica e popolarità in tutta la nazione. Ma l’apoteosi ebbe vita breve. Dopo quel momento, il regime è stato scosso da quattro successive crisi, che ne hanno intaccato una dopo l’altra le basi. La prima arrivò dopo pochi mesi, quando la Russia venne raggiunta dall’onda d’urto della crisi finanziaria dell’Occidente. Col suo rilevante avanzo della bilancia commerciale, lo Stato era riuscito a ridurre il debito estero accumulato sotto Eltsin, e ad accantonare ampie riserve. Ma le aziende e le banche pubbliche avevano contratto prestiti all’estero in modo sconsiderato, con garanzie statali, generando in tal modo una bolla creditizia che nel 2006-2007 arrivò quasi a triplicare le loro esposizioni all’estero[14]. Quando i creditori occidentali travolti dal crollo di Wall Street chiesero il rimborso dei prestiti a breve termine, e i prezzi petroliferi precipitarono da 147 a 34 dollari al barile, il mercato borsistico russo bruciò un terzo del proprio valore praticamente da un giorno all’altro. La massiccia immissione di riserve nel sistema bancario riuscì a impedire un crollo generale, ma la recessione che si innescò fu più grave rispetto a qualsiasi altro grande paese del mondo: nel 2008 il PIL diminuì del 7,9%.
Nel 2010 l’economia era riuscita ad ucire dalla crisi, ma era finita l’epoca dei bilanci in attivo. Per mantenere il proprio sotegno popolare, il regime dovette sostentere i consumi con un incremento della spesa pubblica con modalità che i suo falchi neoliberisti avevano sempre avversato: le eccedenze del settore petrolifero, che tradizionalmente venivano parcheggiate dal Ministero delle finanze in fondi sovrani e depositi all’estero, dovevano ora essere utilizzate per incrementare la spesa pensionistica e altri capitoli di spesa sociale. Da allora in poi il deficit di bilancio sarebbe stato la norma. Ma il boom ormai era alle spalle, e nel periodo seguente la crescita andò rallentando fin quasi ad arrestarsi. Il capitalismo fondato sulle concessioni non era riuscito a rinnovare le riserve materiali del paese né ad estenderne le frontiere tecnologiche. I ricchissimi profitti del settore energetico erano stati utilizzati solo in minima parte per investimenti produttivi, poiché i plutocrati che li gestivano avevano continuato ad acquistare proprietà immobiliare e prodotti finanziari all’estero piuttosto che preoccuparsi di modernizzare l’industria nazionale. Nel 2007, gli investimenti erano scesi ad un livello inferiore del 40% rispetto all’ultimo anno di esistenza dell’Unione Sovietica, e attestandosi attualmente a una media del 20% rispetto al PIL rimangono inferiori di oltre la metà rispetto a quelli della Cina e di due terzi rispetto a quelli dell’India – entrambi paesi che possiedono un nucleo di aziende più competitive a livello mondiale della Russia[15]. Nell’industria petrolifera, che rimane decisiva per il futuro del paese, la produzione è andata continuamente calando, in quanto i pozzi il cui sfruttamento è più facile cominciano ad esaurirsi – a fronte di una quadruplicazione degli investimenti nel settore fra il 2006 il 2010, l’aumento di produzione è risultato del solo 5%. E anche considerando l’intero comparto economico, dove le manifatture coprono meno di un quinto della produzione, i dati non sono molto migliori: la produttività del lavoro è ad esempio bloccata a un livello pari a soli due quinti rispetto all’Europa occidentale e agli Stati Uniti[16]. Quanto alle possibiità di incamerare profitti, l’orizzonte del regime si stava decisamente restringendo.
Alle minori opportunità in campo economico fecero seguito problemi politici. Attento a preservare quella legittimità costituzionale che fungeva in certa misura da schermo per mantenere la propria reputazione all’estero, Putin trasferì la carica di presidente al suo assistente Medvedev, scelto in quanto rappresentava nel suo entourage la personalità più adeguata per rassicurare l’Occidente e l’opinione pubblica liberale sull’orientamento progressista del regime russo. Ma lungi dal ritirarsi dalle scene, anche soltanto mediante un incarico ad interim, Putin si trasferì alla Casa Bianca in veste di primo ministro. L’effetto fu di suscitare l’impressione di essere di fronte a una vera e propria incarnazione dello Stato duale teorizzato da Richard Sakwa. Deriso dai suoi critici come l’espressione di una «tandemocrazia», l’accordo finì per avere un effetto controproducente. Medvedev, che aspirava a crearsi una propria area di consenso per conquistare un secondo mandato al Cremlino, denunciò le frodi, la corruzione, l’illegalità – parlando di «nichilismo legale» – e la stagnazione tecnologica, ricercò l’appoggio dei mezzi d’informazione indipendenti e dichiarò che non era accettabile un baratto fra sicurezza sociale e libertà. Ma a queste prese di posizione non corrisposero mutamenti significativi del sistema politico, il quale anzi fu rafforzato in uno dei suoi caratteristici aspetti, estendendo la durata dei futuri incarichi di presidenza da quattro a sei anni. Il risultato fu che vennero suscitate aspettative di riforma negli ambienti liberali, con l’inevitabile strascico di delusioni di fronte alla loro mancata attuazione.
Nel frattempo, da parte sua Putin divenne sempre più suscettibile rispetto alle pretese dell’uomo che aveva messo al proprio posto, e i contrasti fra i due emersero chiaramente in occasione dell’appoggio della Russia ai bombardamenti operati dalla NATO in Libia, giustificati da Medvedev come un salutare colpo alla barbarie, e al contrario da Putin come un’impropria forzatura di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. All’inizio dell’autunno del 2011 alcuni tecnici politici di primo piano – come Pavlovsky e Surkov – erano passati nel campo di quanti più o meno apertamente auspicavano un secondo mandato per Medvedev, prospettiva che a Mosca suscitava notevoli aspettative, in quanto si riteneva che se egli avesse potuto definitivamente emanciparsi dal suo mentore, avrebbe introdotto quella liberalizzazione del regime che da lungo tempo era attesa. Ma a settembre di quell’anno Putin fece svanire simili illusioni, annunciando, con a fianco un Medvedev alquanto abbacchiato, che in base a «un accordo di vecchia data» – manifestamente fittizio – i due uomini politici si sarebbero scambiati i ruoli, e lui stesso avrebbe riassunto la carica di presidente. Questo rovesciamento delle posizioni, che rendeva fin troppo bruscamente chiaro chi fosse al comando, si rivelò tuttavia un passo falso, in quanto venne accolto con indignazione piuttosto che con indifferenza o rassegnazione, in ogni ambiente moscovita. E ancora peggio sarebbero andate le cose di lì a poco, quando nel dicembre successivo si ricorse a falsità più spudorate che mai per coprire un drastico calo di consensi per Russia Unita. Stavolta la reazione nella capitale fu esplosiva, e 100.000 persone scesero in piazza per manifestare contro il regime – nepuure i democratici all’epoca della perestrojka e della sua fine erano mai riusciti a mobilitare masse del genere. Per la prima volta, Putin dovette fronteggiare un’opposizione che si manifestava nel centro stesso del paese, con ripercussioni più attenuate in numerosi centri periferici.
Non si può dire ttuttavia che nel complesso della società russa fosse emersa una vera e propria massa critica. In massima parte i manifestanti scesi in piazza a Mosca, appartenenti alla classe media di una metropoli che si distingue dal resto delle città russe per un eccezionale livello di concentrazione di redditi e servizi, rappresentavano infatti una minoranza privilegiata della popolazione, nella quale la intelligencija vecchio stile era stata sopravanzata da un più giovane strato di “creativi”, secondo l’ammirata definizione occidentale, provenienti dai mondi della pubblicità, della moda, delle pubbliche relazioni, della programmazione, delle società di consulenza e via dicendo. Sebbene si presentasse con un volto essenzialmente liberale, la platea dei dimostranti spaziava dai gruppi nazionalisti alle correnti di sinistra, con un’eterogeneità ideologica che si rifletteva nello scostante simbolo pubblico dell’opposizione, il blogger xenofobo Alexej Naval’nyj, che scagliava i suoi attacchi non solo contro i truffatori milionari, ma anche contro i migranti squattrinati. Se si eccettuano gli appelli alla necessità di garantire elezioni pulite e funzionari onesti, il fronte del dissenso appariva privo di un programma unificante in grado di attirare il consenso di quella maggioranza della popolazione che non gode dei suoi stessi vantaggi, e per la quale le difficoltà materiali – la disuguaglianza, l’insicurezza, la povertà, l’inefficienza – sono più importanti del rispetto delle forme giuridiche. In una situazione del genere, un attacco alla struttura formale del regime non accompagnato da una critica della sua sostanza sociale può difficilmente suscitare un risveglio della coscienza popolare[17]. La ricetta proposta da Naval’nyj per attuare la liberazione – dieci coraggiosi uomini d’affari e il governo cadrà – parla da sé.
Per contrastare la sfida proveniente dal centro di Mosca, Putin fece trasportare in autobus impiegati pubblici, operai e giovani bulli dalle periferie per inscenare rumorose dimostrazioni di sostegno al regime, e gettò in campo tutto il peso dell’amministrazione e dei mezzi di comunicazione di Stato per ottenere la propria rielezione a presidente nel marzo successivo. La vittoria arrivò senza difficoltà – il massimo che l’opposizione liberale fu in grado di opporgli fu il milionario Michail Prokhorov, un oligarca salito all’onore delle cronache fra l’altro perché arrestato dalla polizia francese per sfruttamento della prostituzione in un centro di soggiorno alpino – per quanto con un margine di vantaggio ridotto, con risultati come di consueto gonfiati ad effetto, e un fascino in parte compromesso. Con la disintegrazione del consenso riscosso in occasione delle sue due precedenti presidenze, il mantenimento del potere esigeva a questo punto una polarizzazione – bisognava compattare e schierare le categorie meno abbienti e meno acculturate contro un bel mondo viziato e le sue propaggini. Nel contesto di questa strategia, si ripresentavano però gli stessi limiti che ostacolavano l’opposizione. La spesa pubblica poteva contribuire a lenire le difficili condizioni dei bassifondi, ma la sostanza socio-economica del regime restava intatta. Dal punto di vista ideologico, il consenso non poteva essere mobilitato in base a una politica di classe, bensì solo facendo appello a una guerra culturale, contrapponendo una morale patriottica alla licenza priva di radici storiche, le icone e la fede di una terra moralmente retta ai virus di una decadenza infettata dallo straniero.
A livello nazionale, al quale fa esplicitamente riferimento, la retorica dello scontro di valori potrebbe sortire qualche effetto politico. Ma a livello locale, l’impatto è necessariamente molto più ridotto. E qui che il divario fra la reputazione personale di Putin come presidente e la credibilità dei suoi amministratori locali, già emersa chiarmaente nelle elezioni per la Duma, non ha fatto che ampliarsi. Nel 2013, dopo un momento di notevole indecisione da parte del regime, oscillante fra repressione e concessioni, a Naval’nyj venne consentito di candidarsi a sindaco di Mosca; questi, avendo ottenuto il 27% dei consensi – con un numero effettivo di voti inferiore a un decimo dell’elettorato, vista la deprimente affluenza alle urne, pari al 33% – dichiarò di aver riportato la vittoria morale, in una situazione in cui l’esito atteso era una scontata vittoria del titolare del Cremlino. Fuori dalla capitale, le identità regionali sono sempre state relativamente deboli nelle vaste e uniformi pianure russe, mentre nella realtà dell’epoca postcomunista la frammentazione sociale si era fatta straordinariamente forte, generando fratture lungo le linee casuali, dipendenti dalla disponibilità o meno di particolari risorse e dai vantaggi economici che potevano derivarne. Se entrambe le situazioni operano a vantaggio del potere centrale, quando sono in gioco questioni locali la roboante campagna nazionale finisce per avere poca influenza. Dopo i primi inaspettati insuccessi dell’apparato a Kaliningrad e a Yaroslavl, nel 2014 candidati indipendenti hanno conquistato la carica di sindaco a Novosibirsk e ad Ekaterinburg, la terza e la quarte città del paese per dimensioni. La coesione del regime si stava evidentemente logorando.
Tuttavia questo allentamento, che aveva permesso simili sorprese elettorali, poteva anche essere inteso anche come il segno di una correzione di rotta. Dopo aver passato in rassegna la situazione, Sakwa poteva anche concludere con una considerazione fiduciosa. Poiché, rifletteva, «l’essenza del putinismo è la costante assimilazione da parte del centro della politica, del personale e del potere», adesso «Putin cercava di incorporare elementi della contestazione in un sistema di potere dagli equilibri ridefiniti», e dotato di un «potenziale di cambiamento e di sviluppo». La Russia aveva bisogno dell’affermazione dello Stato di diritto, di elezioni regolari e della garanzia dei diritti di proprietà, ma «non è affatto chiaro se una Russia senza Putin possa soddisfare queste esigenze meglio di un paese con un Putin pentito e condizionato dalle rivitalizzate istituzioni dello Stato costituzionale e dalla pressione di una nazione politicamente matura e mobilitata»[18]. Era ancora troppo presto per rottamare la logica della mimesi del modello occidentale.
Zone di confine
Ma di lì a poco si profilava un test ancora più critico. Dopo la crisi dell’economia e della politica, sopraggiunse quella diplomatica. Nel corso dei suoi primi due mandati presidenziali, il tono della politica estera di Putin si era modificato, ma il suo indirizzo non era mutato granché. L’obiettivo prioritario restava la collaborazione con l’Occidente. Ciò comportava che la Russia venisse riconosciuta e rispettata come il più grande Stato europeo, con funzioni di baluardo amico contro il terrorismo islamico, alleato dell’ISAF in Afghanistan, membro e ospite del G8, partecipante al Quartetto sul Medio Oriente, in rapporti cordiali con Israele e – fattore non ultimo per importanza – sede di una fiorente economia integrata nei mercati globali del capitale. Punti di frizione con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea ne esistevano certamente: l’abolizione del Trattato anti-missili balistici (ABM), le installazioni di sistemi radar nell’Europa centrale, la conservazione dell’emendamento Jackson-Vanik. Ma è sufficiente uno sguardo alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza del periodo per rendersi conto che l’attegiamento della Russia era conforme alle aspettative degli occidentali praticamente in ogni settore, con l’unica eccezione del Piano Annan per lo smantellamento della Repubblica di Cipro in base a un accordo con la Turchia, sul quale fu posto il veto in venendo incontro a una richiesta di aiuto da parte del governo di Nicosia[19]. Ciò detto, la Russia era qualcosa di più di una forza affidabile e collaborativa con l’Occidente nel contesto della comunità internazionale: era il paese che attuava una «missione civilizzatrice nel continente eurasiatico»[20]. Sotto Medvedev, la politica estera russa fu orientata in misura ancor maggiore verso l’Occidente. Venendo incontro alle aspettative di Washington, Mosca cancellò la consegna al governo di Teheran dei sistemi missilistici S-300, che avrebbero reso più complicata l’attuazione dei raid aerei statunitensi e istraeliani contro l’Iran; all’ONU, votò ripetutamente a favore delle sanzioni contro l’Iran proposte dagli Stati Uniti; dette semaforo verde ai bombardamenti occidentali sulla Libia; infine, mise addirittura a disposizione per le operazioni condotte dalla NATO in Afghanistan una base aerea in territorio russo, a Ul’janovsk.
C’era tuttavia una nuvola che fin dall’inizio incombeva sul raggiungimento di buoni rapporti con l’Occidente. La Russia aveva nella zona degli Stati ex sovietici a sud del suo territorio interessi ben precisi, che a suo avviso i suoi partner euroamericani dovevano opportunamente riconoscere. Si trattava di quei paesi prossimi ai confini che rientravano, secondo la definizione che ne davano i russi, nel «Vicino Estero», di territori un tempo appartenuti all’impero zarista. Dal punto di vista politico, gli Stati baltici erano stati assorbiti dalla NATO e dall’Unione Europea, cessando quindi di essre considerati in questa prospettiva. Per scopi pratici, se non per ragioni diverse, anche le repubbliche centroasiatiche costituivano una preoccupazione meno rilevante, poiché erano soggette a regimi sufficientemente simili a quello russo per garantire adeguate relazioni reciproche, nonostante che il loro territorio fosse punteggiato da basi americane per le comuni esigenze della Guerra al terrore. La zona critica era quella situata fra queste due regioni un tempo appartenenti all’URSS, nella zona che si estende dalle coste occidentali del Mar Caspio al basso Danubio, comprendente le tre repubbliche della Transcaucasia, dell’Ucraina e della Moldavia.
I problemi si presentarono dapprima in Georgia, la cui frontiera con la Russia copre i tre quarti circa dei suoi confini caucasici. Nel 1992 il regime di Ševardnadze attaccò l’Abcasia, una repubblica che fin dall’inizio, quando il nucleo fondamentale della sua popolazione era composto da circassi sunniti, aveva fatto parte dell’URSS, e che poi nel 1935 Stalin e Berija avevano annesso alla Georgia, dalla quale si staccò definitivamente al momento della dissoluzione dell’URSS. La resistenza abcasa, che aveva reclutato dei combattenti volontari musulmani nelle regioni nord-caucasiche – fra i quali vi era Šamil Basaev, in seguito protagonista della rivolta cecena – riuscì a respingere la forza d’invasione georgiana, e lo stesso Ševardnadze riuscì a malapena a mettersi in salvo[21]. Questo primo conflitto fu seguito dall’attacco di Eltsin alla Cecenia, che venne respinto portando al cessate il fuoco del 1996. Tre anni dopo, un secondo veemente attacco ordinato da Putin riuscì a schiacciare la resistenza cecena, insediando a Grozny il regime di Kadyrov.
Un decennio dopo, lungi dall’essere pacificata, praticamente tutta la zona del Caucaso settentrionale sotto il kraj di Stavropol’ è di fatto diventata una zona di guerra, percorsa da un moto di ribellione – che ora avviene sotto la bandiera di un Islam radicalizzato – contro il potere russo e i suoi sostituti locali, dal Daghestan al Karačaj-Circassia. In una situazione caratterizzata da disoccupazione di massa, povertà e disuguaglianza, dalla fuga della popolazione locale russa, e che ha visto perfino ridursi l’uso della lingua russa, la Cecenia, sotto il suo brutale signore della guerra, ha raggiunto una sorta di indipendenza di fatto senza una secessione ufficiale, mentre Mosca, con le sue truppe e il suo denaro, sostiene i governanti locali, nella cui attività peraltro interferisce in misura minima[22]. Nella stessa Russia, l’opinione pubblica è diventata talmente scettica sulle prospettive in quell’area che i sondaggi indicano come una buona metà della popolazione sia disposta a rinunciarvi. Ma per quanto brutali possano essere gli interventi russi, l’Occidente non ha mai proferito verbo per deprecarli, dall’epoca di Clinton e Blair fino ad oggi con Obama e Merkel. La sacralità dei confini proclamata da Eltsin li protegge.
Ma al di là di essi, le questioni andavano diversamente. Nel 2003, Ševardnadze, un tempo idolo dell’Occidente per il ruolo che aveva svolto nel determinare il crollo dell’Unione Sovietica, e divenuto ormai un decrepito reperto fossile della corruzione, venne spodestato dopo aver truccato ancora una volta le elezioni in Georgia. Il nuovo regime, con a capo Sakašvili, già membro dell’entourage del suo predecessore, radicalizzò ulteriormente l’atteggiamento filoccidentale di Tbilisi. Avvocato formatosi a New York, coadiuvato da un consigliere capo americano che era sul libro paga dell’USAID e da un lobbista che era assistente di McCain, Sakašvili strinse solidi legami con Bush, ricevendo addestratori e attrezzature militari da Washington e inviando truppe georgiane a sostegno dell’occupazione dell’Iraq. All’interno, procedette a sopprimere l’opposizione e a truccare le elezioni come aveva fatto chi lo aveva preceduto. In politica estera, il suo principale obiettivo fu, come lo era stato per Ševardnadze, l’estensione della NATO alla Georgia. Nel 2008, sentendosi eccessivamente sicuro per gli appoggi su cui poteva contare in Occidente, lanciò un attacco contro l’Ossezia del sud, un altro territorio allogeno assegnato alla Georgia all’indomani della Prima guerra mondiale, che aveva dichiarato la propria indipendenza al momento della dissoluzione dell’URSS. A questo atto, la Russia reagì con un contrattacco attraverso il tunnel che collegava l’Ossezia del Sud con quella del Nord, uno dei suoi possedimenti caucasici sull’altro versante della catena montuosa, sbaragliando in poco tempo l’esercito georgiano e aprendosi la strada per Tbilisi. Dopo essersi assicurata il controllo dell’Ossezia del Sud, tuttavia, Mosca ritirò le proprie truppe. In un primo momento i capitali e i media occidentali denunciarono con veemenza l’aggressione russa, poi senza ritrattare quel che avevano detto, quando l’origine del conflitto divenne chiara si calmarono, Quattro anni dopo Sakašvili venne sconfitto alle elezioni, e lasciò il paese per ritornare negli Stati Uniti, mentre sulla sua testa pendevano impiutazioni penali.
Quanto alla Russia, a innescare il conflitto avevano contribuito due preoccupazioni: quella di impedire la possibilità che la NATO accerchiasse la Russia da sud facendo della Georgia un punto d’appoggio per l’azione dell’Occidente, come vari regimi che si erano successi a Tbilisi avevano auspicato, e quella che il proprio sistema di sicurezza nel Caucaso settentrionale restasse isolato, in presenza delle persistenti insurrezioni armate, dai problemi provenienti dalle zone più a sud. In Occidente, per altro verso, i consulenti erano divisi sull’opportunità di estendere la NATO alla Georgia, ma uniti nella condanna della pressione attuata dalla Russia su quel paese, e nel sostenere che i suoi confini, indipendentemente da come si erano formati o dalla loro corrispondenza alla situazione determinatasi effettivamente sul terreno, erano e dovevano rimanere inviolabili. Per entrambe le parti, tuttavia, anche se in modo asimmetrico – per l’Occidente in misura molto maggiore – l’area oggetto del contendere era in definitiva secondaria, in quanto la posta che vi era in gioco non era poi così importante. Quando un analogo scontro di prospettive si pose per l’Ucraina, le conseguenze si sarebbero rivelate molto più esplosive.
Il groviglio ucraino
Quanto ai rapporti della Russia con l’Ucraina, fra le due popolazioni slave sugli opposti versanti della frontiera che divideva le due repubbliche ex sovietiche non sussistevano differenze culturali e storiche così nette come quelle che rendavano così distante la Georgia – con la sua lingua ibero-caucasica, l’alfabetomkhedruli, i regni medievali. Con una popolazione pari a dieci volte quella della Georgia, e una superficie territoriale quasi altrettanto più ampia, l’Ucraina è un confinante della Russia di importanza incomparabilmente maggiore rispetto alla repubblica che si affaccia sul Mar Nero. Non solo aveva con la Russia legami economici e culturali molto più stretti, ma nella memoria politica essa rimane un campo di battaglia decisivo in quella che i russi continuano a definire la Grande guerra patriottica del periodo 1941-1945, il fronte sul quale l’Armata Rossa lanciò la sua prima massiccia controffensiva contro la Wehrmacht. Quando Eltsin conquistò il potere in Russia, decretando il crollo dell’URSS, in Ucraina la dirigenza comunista locale, come avvenne altrove, gli tenne dietro, abbandonando il partito e cogliendo l’occasione per impossessarsi dello Stato indipendente che stava nascendo. Il nazionalismo ucraino aveva sempre avuto un suo punto di forza nei territori della Galizia, nella parte occidentale del paese, che Stalin aveva annesso all’URSS sottraendoli alla Polonia solo nel 1945. Ma nel referendum che si tenne alla fine del 1991 l’indipendenza fu votata da una maggioranza di oltre il 90% della popolazione del paese.
In realtà questa valanga di voti, influenzata dalla convinzione che grazie alla superiore qualità del suo clima e del suo suolo l’Ucraina sarebbe stata più ricca della Russia una volta che se ne fosse separata, si rivelò un evento di dimensioni sproporzionate rispetto all’effettivo grado di identità nazionale che lo sosteneva. Una volta ottenuta, l’indipendenza produsse conseguenze opposte a quelle sperate, determinando un collasso economico ancor più terribile rispetto a quello sofferto dalla Russia sotto Eltsin[23]. Il reddito pro-capite precipitò dai 1.570 dollari del 1990 ai 635 del 2000. Di fronte a una situazione del genere, nelle regioni industriali più duramente colpite si fece strada ben presto la convinzione che la scelta compiuta era stata un errore. Nel 1994, il 47% della popolazione nella parte sud-orientale del paese affermava che a quel punto avrebbe votato contro l’indipendenza, e solo il 24% continuava a dichiararsi a favore[24]. Col passare del tempo, sentimenti del genere si attenuarono, in conseguenza dell’adattamento allo status quo, anche se le condizioni economiche rimasero assai problematiche. Al momento della proclamazione dell’indipendenza, il livello di vita dei russi era due volte maggiore rispetto a quello degli ucraini. Oggi, lo supera di circa tre volte. Da questo punto di vista, perfino la Bielorussia si attesta su valori doppi rispetto all’Ucraina.
Ad aggravare le tensioni economiche, come apparve sempre più chiaro, contribuivano le profonde divisioni culturali presenti nel paese, nel quale ad esempio, a fronte dell’adozione dell’ucraino come lingua ufficiale, la parte maggiore della popolazione parlava ancora in russo, i territori occidentali che avevano mantenuto la loro impronta polacca riprendevano a guardare in direzione del nazionalismo ucraino di estrema destra di Dontsov e Bandera, le zone orientali che in passato avevano costituito uno dei fuclri dell’industria siderurgica nutrivano nostalgia per il passato sovietico, e le simpatie delle grandi pianure centrali si diversificavano sulle due sponde del Dnepr. Fin dall’inizio il sistema politico assunse una natura più aperta rispetto a quello russo, non solo in conseguenza delle divisioni appena richiamate, ma anche perché non si affermò nessuna forma di super-presidenzialismo, e il parlamento mantenne effettivi poteri legislativi e di controllo dell’esecutivo. Fenomeni come il saccheggio dei beni pubblici, la corruzione dilagante e gli omicidi su commissione rivaleggiano con quello che avveniva in Russia, ma poiché lo Stato centrale era alquanto più debole, e non aveva profonde radici o tradizioni storiche risalenti all’epoca zarista o sovietica, cadde preda dell’appropriazione diretta attuata dai clan oligarchici rivali, e né Berezovskij né Chodorkovskij avrebbero potuto essere in grado di assumere il controllo del Cremlino. Alla lotta fra miliardari, ai contrasti fra regioni diverse e al conflitto fra culture si aggiunsero tensioni di origine geopolitica, col richiamo dell’Occidente che operava in modo più intenso ad ovest del Dnepr e quello russo che esercitava la sua influenza ad est: Bruxelles e Washington manovravano per tirare il paese in una direzione, Mosca in quella opposta. Lungo la divisione fluviale del paese, l’elettorato appariva ripartito più o meno uniformemente, e nel primo decennio successivo all’indipendenza, a Kiev il potere oscillò da una parte e dall’altra.
Sconfitta e reazione
Nel 2004, quando arrivò a conclusione il brutale governo di Leonid Kučma – insopportabile perfino per gli standard locali – la competizione per la presidenza vide come protagonisti il suo primo ministro in carica per l’est, Yanukovyč, che in gioventù era stato condannato per aggressione, ed era stato da lui stesso indicato come proprio successore, e uno dei suoi ex primi ministri, il banchiere centrale Yuščenko, che operava in alleanza con Julija Timošenko, la più spettacolare degli oligarchi del paese, sulla base di un programma in cui fra l’altro si chiedeva l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Allarmato dalla prospettiva di una vittoria di Yuščenko, Putin inviò sul posto i suoi tecnici politici per aiutare il suo concorrente, e calò su Kiev per un fuoco di fila di colloqui e di interviste. Yanukovyč venne proclamato vincitore a seguito di una seconda votazione, dopo che gli smaccati brogli commessi dal regime di Kučma avevano innescato una rivolta civile a Kiev – la cosiddetta «Rivoluzione arancione» – che riuscì a imporre la ripetizione della consultazione elettorale, dalla quale Yuščenko uscì vincitore con un ampio margine di voti. Per Putin, questo fu il più grave insuccesso del decennio: un episodio che non solo macchiava pericolosamente la sua reputazione agli occhi dell’Occidente, che aveva concesso il suo sostegno ai manifestanti, ma costituiva anche un pericoloso esempio di quanto successo potesse ottenere una protesta urbana, che avrebbe potuto essere imitata all’interno. Ma il colpo venne assorbito. Una breve sospensione delle forniture di gas, per assicurarsi la dipendenza dell’Ucraina dall’energia russa, venne risolta con un oscuro patto fra oligarchi, e i leader degli arancioni ben presto cominciarono a litigare fra loro, vedendo crollare la propria popolarità fra uno scandalo e l’altro. In occasione di un’altra oscillazione del pendolo locale, cinque anni dopo Yanukovyč riuscì a conquistare la presidenza, senza grande bisogno di frodi elettorali.
Come ogni politico ucraino da Kučma in poi, una volta in carica Yanukovyč si barcamenò fra Bruxelles e Mosca, cercando di ottenere il meglio da ciascuna delle due senza con ciò mettere in agitazione l’altra. Nel 2009, quando il PIL diminuì di non meno del 15% sotto l’impatto della crisi finanziaria globale, divenne sempre più urgente individuare un’ancora di salvataggio per l’economia. Nel 2012 l’Unione Europea redasse un Accordo di associazione per istituire un’area di libero scambio con l’Ucraina, e il Fondo Monetario Internazionale promise un prestito da 15 miliardi di dollari che prevedeva il rispetto di regole severe. Per scongiurare la firma di questi atti Putin formulò nel novembre del 2013 un’offerta a breve termine più vantaggiosa, che all’ultimo minuto fu accettata da Yanukovyč. Di fronte al rifiuto della mano offerta dall’Europa, a Kiev scoppiarono proteste indignate, per quanto di portata piuttosto limitata. Alcune uccisioni provocate dai cecchini della polizia antisommossa trasformarono le manifestazioni in un assedio del regime che si svolse nel centro della città, mentre nella parte occidentale del paese gli insorti dichiararono destituito il governo. Yanukovyč, in preda al panico, si dileguò e cadde nell’oblio. A disposizione per sovrintendere all’edificazione di un nuovo regime dei suoi nemici in Parlamento e nelle piazze, c’erano gli Stati Uniti. A Washington, nessuno aveva mai perso di vista l’Ucraina: durante la presidenza Clinton, il paese era al terzo posto dopo Israele e l’Egitto fra quelli che ricevevano aiuti americani; sotto Bush, aveva fornito il quarto contingente di truppe in ordine di grandezza all’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti[25].
Per Putin, questa fu una duplice, cocente sconfitta. Non solo era del tutto chiaro che la rivolta di Kiev era stata motivata dal rifiuto di un piano russo, ma, ancora peggio, adesso l’Ucraina veniva a trovarsi per la prima volta sotto la diretta assistenza della diplomazia e dei servizi segreti americani, oggetto di quella che uno dei suoi recenti ambasciatori alle Nazioni Unite ha notoriamente definito la «supervisione adulta» degli Stati Uniti, affiancati dall’Unione Europea: vale a dire, proprio quello che la Russia aveva sempre cercato di evitare. Al fine di rifarsi per quanto possibile dall’umiliazione, Putin reagì annettendosi la Crimea. La penisola, abitata da una popolazione per due terzi di lingua russa, era stata assegnata all’Ucraina da Chruščëv nel 1954, naturalmente senza alcuna consultazione popolare, ma anche con pochi mutamenti sostanziali, poiché il trasferimento dei poteri era avvenuto nel quadro della comune giurisdizione sovietica. Sotto Gorbačëv un referendum popolare approvò la creazione della Repubblica autonoma di Crimea, che venne concessa da Kiev un anno dopo; il primo presidente del nuovo Stato, eletto sulla base di un programma che prevedeva l’unione con la Russia, indisse un secondo referendum per decidere sulla questione, e a quel punto Kučma decise di mettere la penisola sotto il diretto controllo presidenziale fino a che non si fossero insediati suoi fidati sostituti.
Negli anni Novanta, in Crimea il declino economico era stato più accentuato che nelle altre zone dell’Ucraina. Ma alla fine del secolo non vi erano più mobilitazioni in atto per la riunificazione con la Russia, prospettiva che appariva ormai poco probabile, nonostante non vi fossero motivi di attaccamento sentimentale all’Ucraina, se si eccettua la minoranza ucraina della regione. L’accettazione del governo di Kiev non significò tuttavia che lo si sostenesse attivamente. Troppi erano gli elementi che lo impedivano. Storicamente, non solo la Crimea aveva fatto parte del territorio russo fin dalla metà del Settecento, ma aveva rappresentato un lieu de mémoire di particolare intensità, teatro non solo di molte opere dei grandi della sua letteratura, da Puskin a Tolstoj, da Čechov a Nabokov, ma dei due epici assedi di Sebastopoli, ai tempi della guerra di Crimea e poi del secondo conflitto mondiale, che nel complesso erano costati un milione e duecentomila morti, più di quelle complessivamente subite dagli Stati Uniti nelle due guerre mondiali[26]. L’attribuzione della penisola all’Ucraina, arbitraria ma poco più che simbolica quando fu decretata da Chruščëv nel 1954, venne a significare una separazione fisica dal suo passato nel 1992 – essenzialmente perché Eltsin era determinato a smantellare l’URSS in tempi rapidissimi per assicurarsi il potere nella RSFSR, e voleva evitare complicazioni con Kravčuk, l’ex capo del partito che guidava l’Ucraina, il quale era suo alleato in quel progetto. Dal punto di vista politico, non vi erano ulteriori motivi che legittimassero l’assegnazione della penisola a Kiev.
Se in Crimea l’agitazione a favore della riunificazione con la Russia andò esaurendosi dopo la rinuncia di Eltsin, ciò avvenne non solo perchè Mosca scoraggiò qualsiasi movimento del genere, in quanto avrebbe creato imbarazzo al governante che se ne era così cavallerescamente privato, ma in particolare perché il movimento a favore della riunificazione raggiunse il culmine proprio quando Eltsin stava preparando l’attacco alla Cecenia, in nome dell’integrità territoriale della Russia – in un momento quindi in cui non parevano opportune richieste di analoghe prerogative da parte dell’Ucraina. All’epoca, Aleksandr Solženicyn rifletté amaramente su quella vicenda: «Senza il sanguinario piano della guerra in Cecenia, Mosca potrebbe (forse … ?) aver trovato il coraggio e la forza per sostenere le legittime richieste della popolazione della Crimea, in anni di acuta crisi per la penisola (con l’80% della sua popolazione che ha votato a favore dell’indipendenza). Invece, a causa della Cecenia, le speranze della Crimea sono state messe a tacere e tradite»[27]. Vent’anni dopo, all’approssimarsi della crisi della fine del 2013, non si ebbe una forte pressione popolare per la riunificazione; semmai, come in altre zone dell’ex Unione Sovietica, l’atteggiamento più diffuso fra la popolazione sembrava quello di una passività depoliticizzata, per quanto venata di risentimento per essere stata trascurata dagli oligarchi di Kiev, i cui clan non avevano né radici né rilevanti interessi in Crimea.
Una volta però che Yanukovyč – il quale tre anni prima aveva ottenuto il 78% dei voti in Crimea – fu spodestato, le turbolenze non si fecero attendere. A marzo, posto sotto assedio dalle bande irredentiste, il Parlamento della Crimea approvò in gran fretta una risoluzione sulla riunificazione, e di lì a pochi giorni le truppe russe, molte delle quali già stanziate nella zona, conquistarono il controllo della regione. Le guarnigioni ucraine non opposero resistenza. Dal referendum come prevedibile uscì un fasullo 95% di voti a sostegno della riunificazione, con un’affluenza dell’83%, trasformando l’indubbio favore dei due terzi della popolazione di etnia russa in un’immaginaria valanga di consensi. Due mesi dopo, Putin discese da Mosca per celebrare il ritorno della penisola in seno alla sua patria. Nelle capitali occidentali, la protesta fu unanime: l’annessione costituiva un’inaudita violazione del diritto internazionale, e provocava una lacerazione della carta geografica europea come se il mondo fosse sempre nell’Ottocento, o nell’epoca dei moderni dittatori. Questa sua iniziativa non sarebbe mai stata perdonata. In Russia, l’entusiasmo fu altrettanto unanime: qual era il patriota che non avrebbe applaudito alla restituzione di un simile simbolo della nazione alla sua legittima dimora? La popolarità di Putin, che nel dicembre del 2013 aveva toccato il suo punto più basso – rimanendo peraltro a un considerevole 61% – risalì nella primavera successiva all’83%.
Dal punto di vista strategico, l’operazione della Crimea fu una rottura netta, senza conflitti, che riscosse plauso all’interno. Ma ideologicamente non poteva essere contenuta. Nella fascia orientale di lingua russa dell’Ucraina, che era stata incorporata solo all’epoca dell’Unione Sovietica, ebbe l’effetto di alimentare l’agitazione nazionalista che non fu né semplicemente controllata né pubblicamente sconfessata da Mosca, ma venne infiammata dalle veementi diatribe della televisione russa contro le nuove autorità di Kiev, dipinte come una giunta fascista. Ad aprile la maggior parte della zona da Donetsk a Lugansk venne conquistata da una milizia armata, bardata con la tipica attrezzatura mimetica, mentre la polizia locale rimase a guardare. A maggio si tennero vari referendum improvvisati per l’unione con la Russia, non riconosciuti da Mosca, mentre nel resto dell’Ucraina era in corso la campagna elettorale per la presidenza, lasciata vacante da Yanukovyč, che portò alla facile vittoria di un altro oligarca, il miliardario magnate dell’industria dolciaria Porošenko, che già aveva fatto parte dell’apparato dei regimi sia di Yuščenko che di Yanukovyč
Una volta che Porošenko si fu insediato a Kiev, venne lanciata un’offensiva militare contro i ribelli del bacino del Donec, definiti terroristi per ottenere il sostegno dell’Occidente. Sotto la guida degli emissari militari e dei servizi statunitensi, l’esercito e reparti paramilitari ucraini, appoggiati dall’artiglieria pesante, avanzarono contro milizie irregolari organizzate alla meglio, rinvigorite dalle armi e dai combattenti inviati sul terreno da oltre confine dalla Russia, finché non si giunse a uno stallo. Ma prima che questa specie di guerra civile giungesse a termine, gli irregolari, con un missile di fornitura russa, abbatterono un aereo di linea che sorvolava la zona del conflitto. Denunciando l’avvenuto come un «indicibile scandalo», il presidente degli Stati Uniti Obama auspicò un’azione comune dell’Occidente contro la Russia. Le sanzioni economiche mirate a colpire i settori finanziari e della difesa vennero intensificate. Che gli Stati Uniti stessi avessero abbattuto un aereo di linea, con un bilancio di morti pressoché identico, senza mai giustificarsi per aver commesso un errore altrettanto spropositato, era ovviamente per altro verso indicibile – ma si trattava di un aereo iraniano, e il capitano dei Vincennes aveva agito in buona fede, quindi per quale motivo qualcuno all’interno della «comunità internazionale» avrebbe dovuto ricordare, e tanto meno menzionare l’episodio? E anche l’annessione della Crimea era un evento mai visto prima: per quale motivo qualcuno avrebbe dovuto aver notizia di operazioni di conquista come quelle ai danni di Gerusalemme est, della parte settentrionale di Cipro, del Sahara occidentale, di Timor Est, condotte senza contestazioni da governi amici celebrati a Washington[29]? Cosa importa se in tutti questi casi con l’annessione si era represso nel sangue il diritto all’autodeterminazione degli abitanti locali, invece di rispettarlo senza provocare la perdita di vite umane? Considerazioni del genere sono fuori luogo, sarebbe come pretendere che la potenza che amministra il diritto internazionale si potesse assoggettare ad esso.
Errori di valutazione
In Ucraina, uno Stato debole e diviso che occupava una vasta estensione di territorio offriva un classico esempio di vuoto di potere, che attira contendenti esterni dotati di una forza superiore in una lotta per il dominio. Per la Russia, l’Ucraina aveva un’importanza molto maggiore, per motivi sia storici sia strategici. Per l’Occidente, invece, era meno rilevante. Ma fra i due elementi in lotta per il predominio, il secondo era molto più forte. L’azione dell’Unione Europea e della NATO per incorporarla, estendendo verso sud l’accerchiamento della Russia costruito nel periodo successivo alla Guerra fredda, era destinata a provocare un riflesso difensivo a Mosca. Ma la goffaggine e il carattere inconseguente della linea d’azione di Putin non erano frutto di premeditazione: scaturivano da due fondamentali errori di valutazione, uno di portata locale, l’altro riferito allo scenario globale. Il primo consisteva nell’aver sottovalutato il sentimento nazionalistico ucraino. Osservando con disprezzo i litigiosi oligarchi di Kiev, e gli antagonismi locali all’interno del paese, le élites russe non tennero conto del fatto scontato che l’esistenza stessa di un’enità statale – come dimostrano i casi di qualsiasi ex colonia africana – produce una cristallizzazione dell’identità nazionale, indipendentemente da quanto deboli o sfavorevoli possano essere le condizioni di partenza. Inevitabilmente, l’atteggiamento borioso e impositivo da parte di Mosca ebbe l’effetto di rafforzare, piuttosto che di indebolire, quel senso di identità, e alternando incitamenti e sconfessioni dell’irredentismo nel bacino del Donec, finì per spingere il paese proprio nella direzione che la Russia più paventava.
Se l’errore di valutazione a livello locale fu il frutto di un deliberato cinismo, quello riferito allo scenario globale fu il frutto di un’ingenuità. La convinzione di Putin di poter dar vita a un capitalismo russo strutturalmente interconnesso con quello occidentale, ma autonomo sul piano operativo – un predatore che si muove fra altri predatori, ma capace di sconfiggerli – si è sempre rivelata una candida illusione. Aprendo la Russia ai rapporti con i mercati capitalistici occidentali, coerentemente agli auspici del suo team economico neoliberista, nella speranza di trarne beneficio e in definitiva di competere con essi, Putin non poteva evitare che il paese diventasse prigioniero di un sistema estremamente più potente del suo, al quale avrebbe dovuto necessariamente soccombere in caso di conflitto. Nel 2008-2009 il crollo di Wall Street aveva già messo in evidenza la vulnerabilità dell’economia russa rispetto alle fluttuazioni del credito occidentale, e le conseguenze politiche che potevano derivarne. Un banchiere locale commentò soddisfatto che, una volta che il paese non potesse più disporre dell’avanzo nella bilancia dei pagamenti, «gli investitori stranieri avrebbero voce in capitolo su come debba essere governata la Russia. È un segnale incoraggiante» – riguardo alla possibilità di fare pressioni su Putin per una politica di privatizzazioni[30]. Questa era l’obiettiva logica delle interazioni economiche anche prima della rivolta di Kiev. Una volta che si fosse determinato uno scontro geopolitico sull’Ucraina, gli strumenti di cui l’Occidente disponeva erano in grado di provocare notevoli danni in Russia. Le sanzioni, inizialmente mirate solo ai singoli, ben presto si estesero, arrivando nell’estate del 2014 a colpire l’intero settore finanziario russo.
A ruota seguì la quarta e potenzialmente più grave delle crisi che avevano colpito il regime, con il crollo in autunno dei prezzi petroliferi. Da una quota di 109 dollari al barile registrata nel primo semestre del 2014, il prezzo del petrolio era precipitato a 50 alla fine dell’anno, innescando il panico in campo valutario, una fuga di capitali e facendo schizzare alle stelle i tassi d’interesse. Sebbene la Russia faccia ancora registrare un avanzo nella bilancia dei pagamenti correnti, il debito societario ora è superiore alle riserve, in presenza di una recessione generale: per il 2015 è prevista una riduzione del PIL fino al 5%. Poiché oltre la metà delle entrate statali dipende dal settore energetico, la possibilità di Putin di distribuire sussidi materiali per prolungare il sostegno popolare al suo regime ne risulterà drasticamente ridimensionata. Se la decisione saudita di tagliare il prezzo del petrolio fosse o meno, ed eventualmente in quale misura, coordinata con Washington (come avvenne all’epoca di Reagan), anche per fare pressione su Mosca, non è ancora chiaro: forse non è affatto così. Ma sicuramente si è rivelata un grande vantaggio per l’obiettivo che si stava perseguendo, trasformandosi di fatto in una supersanzione economica. E non si può certo dire che il potenziale arsenale a cui l’Occidente potrebbe attingere si sia esaurito. L’espulsione dal sistema internazionale delle transazioni bancarie SWIFT, ad esempio, come ha osservato un commentatore, è stato utilizzato con effetti devastanti contro l’Iran: analogamente, «estromettere la Russia dallo SWIFT provocherebbe in breve tempo il caos a Mosca». Anche senza arrivare a tal punto, le sanzioni già in atto avevano già ottenuto l’effetto di tener fuori dai mercati finanziari mondiali le sue banche statali. «In un contesto in cui il dollaro e l’euro sono le due valute più utilizzate nelle transazioni economiche, l’Occidente può generare in un batter d’occhio una situazione di instabilità finanziaria in Russia»[31].
Quali risorse?
Dal punto di vista ideologico, lo scoppio del conflitto per l’Ucraina aveva innescato un ritorno all’atmosfera della Guerra fredda. All’interno, il progressivo avvicinamento alla «confezione standard» da parte della Russia poteva di volta in volta arrestarsi o andare avanti, ma ormai la direzione giusta era stata intrapresa, e l’Occidente avrebbe potuto assumere una strategia di lungo periodo e rimanere in attesa. Il fatto che le regole del sistema occidentale non venissero seguite sul piano della politica estera costituiva invece un problema diverso. In questo campo, la comunità internazionale non concedeva deroghe. Una volta che la Russia aveva conquistato la Crimea, la tolleranza anche dei più fiduciosi analisti del regime putiniano venne meno d’un tratto. Facendo scoppiare la «più pericolosa crisi che l’Europa abbia conosciuto in questo secolo», decretò Treisman, «Putin ha abbandonato la strategia che ha sostenuto il suo dominio politico negli ultimi quattordici anni»[32]. Quella linea si era fondata sull’aumento dei livelli di vita della popolazione, sfruttando i vantaggi offerti dall’andamento dei prezzi dell’energia, ma aveva implicato un regime di «relazioni cordiali con gli ambienti affaristici occidentali», l’ingresso nella WTO e anche nell’OECD. La diminuzione dei tassi di crescita a partire dal 2009 aveva imposto l’adozione di una politica di finanziamento in deficit per proteggere i consumatori dagli effetti della crisi economica. In una situazione del genere, offendere la comunità internazionale con una sconsiderata avventura in politica estera rischiava di trasformarsi in una débacle – «si è giocato il trono con un’iniziativa probabilmente destinata a fallire». La perdita del consenso fra la classe media conoscitrice della rete er aun segnale pericoloso, ma finché riusciva prendersi cura delle masse collocate più in basso nella scala sociale, il regime poteva conservarsi. Perdere però i banchieri e i grandi uomini d’affari del paese, dai quali dipendeva la sua solidità economica, era tutt’altra cosa: il loro sostegno era uno dei fulcri del sistema politico. Non c’era possibilità che simili élites potessero considerare le sanzioni in modo equanime: le loro fortune sarebbero state messe a rischio da qualsiasi interruzione dei legami con l’Occidente. Davvero Putin poteva permettersi di perderle?
A quanto sembra, il presidente russo si trova posto di fronte a un bivio. Infatti, con la ripresa del Cremlino e la guerra civile nel bacino del Donec, il motore ideologico che ha alimentato il suo ritorno alla presidenza ha cominciato ad andare fuori giri, e lui non è in grado di controllarlo. Dopo aver mobilitato le emozioni popolari a favore del nazionalismo russo per ottenere la propria rielezione, e averle ulteriormente accese con la sfida lanciata all’Occidente sul caso ucraino, Putin può forse permettersi di mortificarle facendo marcia indietro di fronte alle sanzioni? Per poter resistere anche a una versione più morbida di un blocco analogo a quello imposto all’Iran, il regime dovrebbe orientarsi verso un indirizzo autarchico, secondo una linea più vicina a un’economia dirigista di stampo sovietico. Accettare in Ucraina la tutela degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e rinunciare alla Crimea sarebbe come firmare una versione moderna del Trattato di Brest-Litovsk. Declino o umiliazione: queste, a causa del modo con cui il sistema putianiano è stato costruito, sembrano essere le uniche alternative. Il regime cercherà senza dubbio di evitarle entrambe, affiancando a un’opera di conciliazioni sub rosa con l’Occidente – con la riduzione ai minimi termini delle rappresaglie per le sanzioni subite, continuando a cooperare per l’isolamento dell’Iran e aiutando la controrivoluzione in Afghanistan – la proclamazione retorica del valore nazionale a uso e consumo interno. Quanto questa linea riuscirà a mantenere la propria credibilità all’interno, ancora è da vedersi. In politica i bluff possono funzionare, come in guerra: raramente, però, ci riescono a lungo.
Il neopietismo
In questo caso, la durata dell’effetto dipende in buona parte dall’ampiezza e dalla profondità del sentimento nazionalista nella Russia post-comunista. Lo scenario delal cultura è certamente saturo di varie forme di nostalgia per il passato imperiale e clericale. In esse il culto per la Chiesa ortodossa occupa il posto d’onore, in quanto essa è l’unica istituzione del paese ad essere sopravvissuta senza interruzioni, per quanto con modalità politicamente discutibili, dai tempi dello zarismo. Eltsin trasferì alla Chiesa vaste porzioni delle sue proprietà pre-rivoluzionarie, facendone di nuovo un’istituzione opulenta, che possiede qualcosa come 800 monasteri, stazioni radiofoniche, due canali televisivi e presenzia con un ruolo di primo piano a tutte le occasioni ufficiali di una certa importanza. Putin, che ama ostentare il crocifisso di alluminio che porta al collo, dichiara di essere un cristiano devoto, che si è personalmente occupato della riunificazione delle chiese ortodosse, della diaspora e in patria, che erano state allontanate all’epoca della Guerra fredda, e condurrà spesso con sé il patriarca ortodosso nei suoi viaggi all’estero. Ufficialmente, dato che la Federazione russa è uno Stato multietnico – pur se categoricamente non multiculturale – anche in Russia esiste la separazione fra Stato e Chiesa, e tutte le fedi – specificamente elencate: cristianesimo ortodosso, islamismo, budddismo ed ebraismo – sono uguali davanti alla legge, che non ne privilegia alcuna. La realtà però dice che a Mosca le autorità locali possono proibire come una provocazione uno striscione che riproduce la relativa norma della Costituzione. Il nesso ideologico fra paese, Stato e religione è costituito da un’unica fede. Per Putin, in Russia la fede ortodossa è «la tradizione che ha dato forma allo Stato», mentre per il patriarca Aleksej II «è solo basandosi sulla religione ortodossa che la Patria può ritrovare il suo splendore». L’inno nazionale, che è stato riscritto nel 2000, riprende un’espressione dalla liturgia ortodossa per proclamare la Russia «Terra Natia Protetta da Dio»[33].
Quale sia stato l’impatto di questa rinascita della Chiesa sulla cultura nel suo complesso è questione diversa, ma chiaramente non marginale. L’autore del volume più venduto nel 2012 fu l’archimandrita Tichon Sevkunov, un intimo di Putin, che aveva anche prodotto un documentario televisivo di successo in cui si narrava il declino di Bisanzio sotto la corrosiva infulenza morale dell’Occidente. Il suo Santi di tutti i giorni – «semplici e luminose storie di Cristiani comuni» – vendette oltre un milione di copie in un anno. Non tutti però ne rimasero ammaliati: suscitando l’indignazione dei suoi ammiratori, il libro non ottenne il riconoscimento di migliore pubblicazione dell’anno. Ma anche nelle file dell’intelligencija, in un modo o nell’altro – di solito, anche se non necessariamente, secondo un registro più elevato – la religione è di moda. Il cinema russo offre alcuni dei più straordinari esempi dell’incrocio fra veteronazionalismo e neopietismo, che opera in modo funzionale alle esigenze del regime. Al botteghino, a intercettare i gusti di un pubblico senza tante pretese con spettacoli commerciali ci pensa Nikita Mikhalkov, lo Steven Spielberg russo. Il regista, che un tempo era una cariatide dell’establishment culturale russo, dopo la caduta dell’URSS annunciò prontamente la propria conversione al cristianesimo; si assicurò finanziamenti statali per la sua pellicola di successo di taglio patriottico Il barbiere di Siberia, nel quale lui stesso interpreta un maestoso Alessandro III; passò poi a malinconiche rappresentazioni dei generali bianchi sullo sfondo della Guerra civile, e nel 2005 produsse un servilistico ritratto filmato di Putin in onore del suo cinquantacinquesimo compleanno, dipingendolo come un santo politico dei giorni nostri – ma non certo di tutti i giorni[34].
All’altra, e più austera estremità dello spettro, dove le concessioni al gusto e alla comprensione del popolo sono scarse, il cinema di Aleksandr Sokurov – da molti considerato il più grande regista russo – miscela necrofilia e misticismo con omaggi alla correttezza politica del momento. Dopo le reverenti icone dedicate a Eltsin e gli spaventosi bestiari di Hitler e di Lenin, arrivò un elogiativo ritratto di Hirohito, raffigurato come una placida incarnazione della dignità imperiale che emerge dal suo palazzo suscitando il rispetto paterno di MacArthur (Sokurov ha spiegato che, dopo tutto, il Giappone doveva espandersi in Cina). Fu quindi il turno di una rassegna di celebrità del passato zarista, in cui si suggeriva che, se la cultura europea doveva essere salvata, ciò sarebbe avvenuto nell’arca di Noè della Patria, e si concludeva con una sentimentale apologia della guerra in Cecenia, Alexandra, in cui compare Galina Višnevskaja, un tempo stella della lirica e definita «zarina» dal regista, nelle vesti di una nonna che esorta un ragazzo ceceno a «chiedere consiglio a Dio», invece di borbottare a proposito dell’indipendenza. Questa parabola sciovinista permise a Sokurov di avere un’udienza con Putin, e di ottenere un generoso aiuto statale per la sua successiva impresa, una fantasmagorica versione del Faust di Goethe[35].
I migliori giovani registi sono meno propensi a questo tipo di adattamento al potere. Ma perfino un autore senza dubbio indipendente e non amico del regime come Andrei Zvjagincev ha sentito la necessità di ammettere che alla base del sua importante opera Il ritorno c’è la fede cristiana, e per mettere in scena il suo recente attacco alla corruzione della Chiesa e dello Stato, Leviatano, ha attinto al guardaroba biblico, presentandolo come un moderno racconto di Giobbe. Se scendiamo di livello, sono pochi gli abissi che il cinema russo contemporaneo non abbia scandagliato. Fra i principali successi si possono ricordare L’isola – la storia di un monaco pentito, che dopo aver commesso durante la guerra un tradimento mortale per ordine dei tedeschi, è diventato talmente santo che in sua presenza la natura stessa trascende le proprie leggi; L’ammiraglio, nel quale si ritrae il comandante supremo delle armate bianche della Guerra civile Kolčak con un crescendo di svenevolezze, come un tenero amante giustiziato dai bolscevichi, il cui cadavere sprofonda come una croce nel ghiaccio siberiano; infine, Il miracolo, il cui copione è opera dello sceneggiatore di Sokurov, Yuri Arabov, presentato come la «storia vera» di una ragazza che getta via le icone delle madre a parte quella di San Nicola, che si porta dietro a una festa scollacciata – dove, mentre danza avvinghiandosi ad essa, resta improvvisamente come paralizzata per la sua empietà, fino a quando, qualche mese dopo, arriva Chruščëv, che concede a denti stretti il suo assenso perché le venga fatto un esorcismo in modo da poterla liberare; poi, durante il volo che lo riporta a Mosca, mormora: «Un miracolo – una tale bellezza: come se fosse volato un angelo». Non c’è che dire: l’infimo spessore culturale di questo tipo di cinema russo è tale da rendere presentabili perfino i peggiori film dell’epoca sovietica.
I libri costano, e rendono meno dei film, e ciò espone i loro autori a minori tentazioni. Alle manifestazioni dell’opposizione a Mosca compaiono importanti scrittori di vario tipo, dal milionario autore di racconti pulp Boris Akunin – un raffinato esempio di quell’intelligencija ritratta da Pelevin in Generazione P, dedita all’autopromozione – al poeta Dmitrij Bykov, per il quale tutto quello che era ripugnante nel sistema sovietico è sopravvissuto, a parte le frontiere chiuse, mentre tutto quello che era più o meno decente – l’istruzione, gli sforzi in prospettiva umanitaria o internazionalista, l’anticlericalismo o il laicismo – è andato svanendo[36]. Il peso specifico della letteratura all’interno della cultura è drasticamente diminuito: una rivista come «Novy Mir», che un tempo vendeva tre milioni di copie, è precipitata a tremila. Ma l’ala scientifica e tecnica dell’intelligencija non se la passa molto meglio. «Ci hanno sostenuto nel 1991 e la maggior parte di loro non ha tirato fuori niente dalle nostre riforme», è il commento che una volta si è lasciato sfuggire Čubais[37]. La pressione economica e la delusione politica hanno generato un persistente clima di demoralizzazione, prestandosi a favorire, non per la prima volta nella storia moderna del paese, la ricerca di una compensazione sul piano spirituale. Sulla profondità dell’orientamento religioso, sia a livello popolare che colto, è lecito dubitare. Come in America, anche in Russia fra l’altare e il centro commerciale non c’è gara. Dio funge semplicemente da ulteriore accessorio. Dal 1990 al 1992 la percentuale di russi che ha deciso di essere credente è balzata improvvisamente dal 29 al 40%: un tempestivo miracolo di conversione di massa. Oggi, a fronte di un 70% di persone che si dichiarano ortodosse, solo il 3% prende parte alla messa di Pasqua, e la fede nell’astrologia sopravanza di gran lunga quella nella resurrezione di Cristo. La base religiosa del regime appare, in definitiva, piuttosto sottile.
Impero e nazione
Altre fonti del sentimento nazionale, per quanto poco sfruttate, sono ancora più profonde. Storicamente, le sue pianure senza sbocchi sul mare, l’economia arretrata e la povertà dei contadini hanno sempre reso la Russia – protetta solo dalle dimensioni e dal clima, priva com’è di frontiere naturali – vulnerabile alle invasioni da Occidente: dei polacchi nel Seicento, degli svedesi nel Settecento, dei francesi nell’Ottocento e dei tedeschi nel Novecento. A fronte di ciò, ogni volta con costi sempre maggiori in termini di mobilitazione e di risorse materiali e umane, si è proceduto a respingere gli attacchi e a creare uno Stato sempre più forte e autocratico, con una propria dinamica espansiva. A est, le steppe e la tundra scarsamente popolate da tribù di cacciatori-raccoglitori furono colonizzate fino al Pacifico, con un movimento che prefigurava quella che due secoli dopo sarebbe stata la spinta dei coloni americani verso l’altra sponda dell’oceano. A sud, l’assorbimento dell’Ucraina e del Caucaso portò la Russia sul Mar Nero; a nord, le conquiste ai danni della Svezia aprirono l’accesso al litorale baltico. A questi territori si aggiunsero gran parte della Polonia e la maggior parte dell’Asia centrale. Nel corso di circa tre secoli, prese forma l’unico impero situato fuori dall’Europa che nell’era pre-contemporanea non fu mai sottomesso dall’Occidente, come sarebbe invece avvenuto al Vicino Oriente, al subcontinente indiano e all’Estremo Oriente[38]. Mentre tutti finirono per tentare di adottare i progressi burocratici e militari dell’Occidente piuttosto che resistergli, solo la Russia zarista – poiché, essendo così vicina al pericolo, dovette cominciare molto prima – riuscì nell’impresa non solo di mantenere la propria autonomia, ma anche di diventare per un certo periodo la principale potenza dell’Europa continentale stessa.
La Rivoluzione industriale fece sì che questa storia trionfale giungesse alla sua conclusione. Per mano della Gran Bretagna e della Francia in Crimea, del Giappone in Manciuria e infine della Germania nella Prima guerra mondiale, la Russia imperiale venne sconfitta sui campi di battaglia in cui si combatteva una guerra moderna, e la monarchia Romanov fu travolta. Ma mentre l’Impero asburgico e quello ottomano si dissolsero di lì a poco, la Rivoluzione d’ottobre riuscì a tenere insieme quasi tutti i territori un tempo governati dagli zar, dando vita all’Unione Sovietica. Con estrema rapidità il nuovo Stato realizzò quel processo di industrializzazione che il suo predecessore non aveva compiuto, e quando avvenne l’invasione nazista, sconfisse la Wehrmacht grazie alla sua superiore forza militare, portando ancora una volta, come nell’Ottocento, gli eserciti russi nel cuore dell’Europa, e acquisendo stavolta un duraturo controllo della metà orientale del continente. Nonostante le enormi perdite subite in guerra, il procedere dell’industrializzazione permise di compiere una marcia forzata che portò all’acquisizione dell’arma più avanzata e distruttiva di ogni altra, e nell’arco di altri trent’anni l’URSS raggiunse la parità nucleare con gli USA, diventando a sua volta una superpotenza mondiale.
Questa concatenazione di successi geopolitici si appoggiò su due fondamenti sociali nettamente contrastanti fra loro. Il sistema zarista era costituito da un’autocrazia dinastica, da una nobiltà di servizio e – per gran parte della sua esistenza – da una massa di contadini in condizione servile, che rappresentava la maggioranza della popolazione. Il sistema sovietico distrusse la monarchia, l’aristocrazia e col tempo la maggior parte del ceto contadino, imponendo il governo di un partito dittatoriale su una popolazione di recente urbanizzazione, composta prevalentemente da operai. A società antitetiche corrispondono opposte configurazioni culturali. Sotto lo zarismo, le élites e le masse vivevano in mondi separati – gli esponenti di una nobiltà sempre più colta, perfino cosmopolita, regnavano su contadini analfabeti, i primi distanti signori dei secondi, senza nessuna o con scarsa mediazione esistenziale fra i due elementi: la Chiesa ortodossa era una corrotta appendice dello Stato, un’intelligencijapopulista cercava senza riuscirvi di penetrare nei villaggi. Sotto lo stalinismo, si procedette ad educare gli operai e a proletarizzare i quadri, attuando una superficiale Gleichschaltung (livellamento) culturale della popolazione, al cui fianco vi era una intelligencija numericamente ampia, anche se in maggior parte addomesticata.
In un aspetto significativo, tuttavia, gli orizzonti culturali generati dai due sistemi mostravano una certa omologia. In entrambi, l’impero aveva una priorità sulla nazione. La Russia imperiale che si era sviluppata sul ceppo di quello che nel tardo Medioevo era stato il princiapto di Moscovia era uno Stato retto da un’élite multietnica e legata a una fedeltà di tipo dinastico. Lo stesso termine “Russia” fu una tarda invenzione di Pietro il Grande. Nel diciassettesimo secolo, solo un terzo circa dei funzionari di alto rango era russo; nei due secoli seguenti, i due quinti erano ancora non russi, e per metà erano tedeschi. Alla fine, i russi non furono più nemmeno la magggioranza della popolazione del paese. Tuttavia, sebbene fosse antecedente all’emergere dello Stato come forma politica dominante in Europa, l’impero retto dagli zar non fu mai apatride come quello asburgico o quello ottomano. A livello popolare esisteva un sentimento di identità proto-nazionalistico, capace di mobilitare «la Santa Rus» contro le incursioni polacche all’epoca dei Torbidi, di alimentare il rifiuto settario delle innovazioni teologiche considerate apostasie straniere, e al momento opportuno di fornire materiale mitografico alle denunce slavofile dell’Occidente e delle sue imitazioni da parte del sistema burocratico zarista[39]. Verso la fine dell’Ottocento emerse così un veemente nazionalismo russo su base etnica, ma in assenza di un’alfabetizzazione di massa e di un rilevante strato sociale piccolo-borghese, la sua diffusione rimase limitata. Occasionalmente le agitazioni a cui dette vita furono sfruttate a fini tattici dal regime imperiale, quale strumento profilattico contro il sovversivismo rivoluzionario, ma poiché rappresentavano un evidente pericolo per l’unità del regno, non ottennero mai un formale placet da parte delle autorità. La Russia era un impero, composto da una molteplicità di popoli, non una nazione espressione di uno solo.
Al momento della sua nascita lo Stato sovietico, che dal punto di vista territoriale era una continuazione dello Stato zarista – senza però la Finlandia, il Regno di Polonia e le province baltiche – ruppe ideologicamente con quel passato. L’Impero zarista venen denunciato quale sinonimo di oppressione, e il nazionalismo russo fu osteggiato fin dalle sue fondamenta. Prima della Rivoluzione d’ottobre, e anche dopo, Lenin criticò aspramente lo sciovinismo della Grande Russia, indicandolo come la principale minaccia all’eguaglianza e alla solidarietà dei popoli che insieme componevano l’Unione Sovietica. L’internazionalismo bolscevico non uscì però illeso dalla Guerra civile, quando considerazioni strategiche – la difesa della rivoluzione – ebbero il sopravvento sugli orientamenti e sulle suscettibilità locali al fine di assicurare all’Armata Rossa il controllo del Caucaso e dell’Asia centrale, senza appoggiarsi, se non raramente, al sostegno di minoranze fedeli. Dal suo letto di morte, Lenin mise in guardia dai persistenti pericoli dello sciovinismo della Grande Russia e da quello Stalin che ne era un interprete.
Per trent’anni il regime staliniano mantenne intatta la struttura costituzionale dell’URSS com’era stata originariamente delineata nel 1922. Ma quando ne emerse la necessità, durante la Grande guerra patriottica, fece apertamente appello alle popolari icone e tradizioni dell’identità nazionale russa; e quando, in conseguenza di essa, se ne presentò l’opportunità, non esitò a estendere il dominio di Mosca ai territori un tempo appartenuti agli zar e poi ceduti dai bolscevichi. Ma l’impero non poté mai essere formalmente valorizzato, né fu possibile dare pieno sfogo all’affermazione di quella che era la nazionalità dominante dell’Unione. Il processo di russificazione creò una lingua franca nelle repubbliche alle periferie dell’Impero, ma fu accompagnato dalla promozione di culture e quadri locali che alla fine si sottrassero al controllo del potere centrale, secondo gli involontari meccanismi generati da un «impero dell’azione affermativa»[40], mentre al contrario, al centro, la RSFSR – tacitamente identificata con i livelli di potere esistenti nel complesso dell’Unione – veniva privata del suo partito, della sua accademia e di altre tipiche istituzioni repubblicane.
Per i russi, il risultato fu una replica della fratturata identità dell’epoca Romanov. In entrambi i sistemi, quello zarista e quello sovietico, la nazione veniva sussunta in un ordine valoriale trascendente rispetto ad essa. Sotto le coperture ideologiche dapprima dell’Autocrazia, dell’Ortodossia e dell’Integrità del popolo (Narodnost’, che è diverso da “nazionalità”), poi dell’Internazionalismo proletario, la Russia esisteva come una comunità etno-culturale fra tante altre, certo sempre quella di maggior rilievo, ma mai politicamente autonoma. In ognuna di queste comunità, le ali dell’identità nazionale vennero tarpate. Fra i russi istruiti del tardo periodo zarista, inoltre, le definizioni di nazione non solo erano imposte dall’alto, ma anche sottoposte a un’altra, più laterale pressione. Di fronte all’espansione delle potenze industrializzate dell’Occidente, ogni importante società extra-europea si trovò a dover risolvere il dilemma di quale fosse il modo migliore per evitare di sottomettervisi. L’unica speranza di poter sopravvivere in modo indipendente risiedeva in una loro rapida emulazione, oppure quella era semplicemente una strada che portava all’autodistruzione, dai cui pericoli la nazione si sarebbe potuta salvare solo riscoprendo le fonti più profonde della propria tradizione, debitamente purificate? Per due ragioni, tuttavia, tale dilemma divenne particolarmente acuto in Russia. Il progresso dell’Occidente, quale promessa o minaccia, incombeva in un’area geografica molto vicina. E per esserne all’altezza, le risorse ereditate dal passato erano storicamente poco consistenti, se paragonate a quelle di terre più lontane, quali la Cina, l’India o il Giappone[41]. Ne scaturì una tensione maggiore di quella verificatasi altrove, e questa ambivalenza di fondo si trasformò in una classica polarizzazione. In Russia il conflitto fra slavofili e zapadnik (filoccidentali) si svolse secondo modalità che poi si sarebbero ripetute in altre società esposte all’impatto dell’espansione capitalistica occidentale, ma, dato che durò per più di mezzo secolo, fu più acuto e più prolungato che in qualsiasi altro caso.
Da questa tensione scaturì una cultura straordinariamente elevata, facendo sorgere la prima intelligencija della storia che avesse coscienza di sé in quanto tale. Gli scrittori, i pensatori, i pittori e i musicisti russi dettero vita nella loro nazione a una fioritura culturale che divenne un oggetto di ammirazione per l’intera Europa. Ma lo splendore di quella cultura non poteva assolvere una funzione di integrazione in una società nella quale alle soglie del Novecento l’80% della popolazione era ancora analfabeta. Lo Stato nazionale e la sua cittadinanza, con l’eguaglianza dei diritti e l’istruzione generalizzata, ancora non esistevano, e neppure esistevano le interazioni derivanti da una moderna divisione del lavoro. In loro assenza, le eleborazioni culturali dell’idea di Russia acquisirono un’intensità estrema, quasi potessero sostituire le normali strutture istituzionali di una nazione[42]. Il risultato fu che alle definizioni della nazione venne impresso un carattere messianico, attingendo alle dottrine monastiche della Terza Roma, alle tradizionali memorie popolari della Santa Rus e ai tropi dell’anima slava per affermare che la Russia era portatrice di una missione universale volta a redimere un mondo materialista e decaduto, mediante un superiore spirito di verità e di giustizia, che essa sola aveva ricevuto in dono. Concezioni del genere – Dostoevskij ne rappresenta un famoso esempio – non divennero mai moneta comune nelle file dell’intelligencija. Ma costituirono l’apporto più caratteristico nel suo repertorio di valori nazionali, una sorta di ipomania ideologica per compensare la frustrazione politica derivante dal dover vivere sotto il peso di un’autocrazia percepita come assolutamente estranea. E le dimensioni del paese le davano titolo per nutrire tali sogni.
Con la caduta dello zarismo, la fantasticherie mistiche che attribuivano alla Russia il ruolo di salvatrice morale dell’umanità subirono il destino di altre anticaglie dell’ancien régime. Ma una volta che Stalin ebbe consolidato il proprio potere, lo schema formale di una speciale missione che avesse come fulcro Mosca rimase in piedi. L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, così come venne fondata di Lenin, era priva di riferimenti a territori o popoli specifici. L’URSS era una realtà rivoluzionaria alla quale ogni paese poteva congiungersi, una volta che avesse rovesciato il capitalismo; nell’attesa, essa avrebbe svolto la funzione di cittadella dell’internazionalismo proletario. Fin dai primi anni Trenta, tuttavia, il panorama interno subì una trasformazione ideologica. Da allora in poi divenne sempre più vincolante un altro valore, che ai tempi di Lenin avrebbe costituito un ossimoro: il patriottismo sovietico. Non si trattava di nazionalismo russo, e nell’ora di massimo pericolo per il regime, quando la Wehrmacht era alle porte di Mosca, rimase troppo astratto per poter lanciare la necessaria chiamata a raccolta per contrastare il nemico. Ma col tempo divenne una realtà per molti, forse per la maggior parte, dei cittadini dell’Unione Sovietica. Né poté esservi una contraddizione fra i due ideali, quello del 1921 e quello del 1931. Perché l’URSS non era semplicemente la patria dei suoi cittadini, che ispirava la loro fedeltà in modo naturale come in qualsiasi altro Stato moderno, ma rappresentava anche, come recitava la formula ufficiale, la «patria del proletariato internazionale» e dei lavoratori di tutto il mondo. Ancora una volta, come nell’«Idea russa» di un tempo, un’identità particolare veniva investita di una missione universale. Guida ed esempio al tempo stesso, la Patria dei lavoratori avrebbe condotto il mondo verso il socialismo.
La caduta di uno Stato
Con il crollo dell’URSS, anche questa costruzione si disintegrò. Ora, a quanto pare, scomparsi gli involucri sovranazionali dello zarismo e del comunismo, il nazionalismo russo, che entrambi in modo diverso avevano tenuto sotto controllo, poteva dispiegarsi liberamente, quale naturale espressione di una collettività nazionale rimasta a lungo inibita, in uno spazio in cui non si profilavano fedeltà alternative. Tuttavia, fin dall’inizio su questo processo gravava un’ombra: la liberazione non era provenuta dall’interno. A scacciare il comunismo era stata la vittoria dell’Occidente nella Guerra fredda. Si era trattato di una vera guerra, combattuta fra le due superpotenze per decenni su campi di battaglia globali, con ogni arma ma senza scontri a fuoco diretti, e si era conclusa con il totale trionfo americano e la sconfitta sovietica – un esito categorico come la capitolazione della Germania e del Giappone nel 1945.
Le sue conseguenze però non sarebbero state le stesse, poiché Washington doveva gestire un successo ottenuto senza necessità di ricorrere alle armi. Non c’era stata un’occupazione militare, come era avvenuto con le potenze dell’Asse. Senza un Clay o un MacArthur presenti sul posto, il controllo sarebbe stato meno completo. Per altro verso, mentre trovare il personale per presidiare dei compiacenti regimi post-fascisti in Germania e in Giappone aveva comportato un processo faticoso e complesso, e una diretta vigilanza militare, in Russia un’intera classe politica offrì fin dall’inizio la propria entusiastica collaborazione post-comunista ai vincitori. Difficilmente gli americani avrebbero avuto di che recriminare. Le spese per appianare gli ostacoli o per imporsi furono quindi modeste. Non solo agli Stati Uniti vennero risparmiati i costi di un’occupazione, ma Washington poté fare a meno di accollarsi l’assistenza economica che aveva fornito alla Germania e al Giappone per dare avvio alla loro ripresa industriale dopo la lotta contro l’URSS. Ora che il comunismo era finito, non c’era bisogno di una tale assicurazione contro di esso. E ciò a maggior ragione in quanto era sparito di scena non solo il comunismo come ordine politico e ideologico, ma anche lo Stato un tempo nemico, la cui grandezza aveva in passato eguagliato quella degli Stati Uniti. Dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, le frontiere della Germania erano state ridefinite, ed essa rimase a lungo divisa, prima di riemergere diventando ancora una volta la potenza dominante in Europa. Il Giappone mantenne non solo il suo territorio, ma la maggior parte della sua élite del tempo di guerra, per non parlare del suo imperatore di discendenza divina. L’Unione Sovietica, invece, venne spazzata via dalla carta geografica.
Per glI Stati Uniti si trattò di un vantaggio imprevisto, non prospettato ex antecome conseguenza della vittoria. Bush e Baker, che nel 1991 erano alla guida del paese, si mostrarono più preoccupati che entusiasti di fronte all’incombere della disintegrazione dell’Unione Sovietica: Gorbačëv e Ševardnadze erano stati degli interlocutori congeniali. Ma una volta che quella prospettiva divenne una realtà, l’élite che aveva la responsabilità della sicurezza americana ebbe tutte le ragioni per compiacersi della fine del vecchio avversario. Il capitalismo aveva inferto il colpo di grazia al comunismo come forma di organizzazione sociale, dall’esterno. La liquidazione dello Stato che il comunismo aveva fatto nascere fu un ulterieore vantaggio, generato al suo stesso interno. Facendosi forte del controllo che aveva della RSFSR, e alimentando il risentimento russo per l’anomalia consistente nell’avere un’autonomia e un peso non adeguati all’interno delle strutture dell’Unione Sovietica, Eltsin si liberò di Gorbačëv guidando – in parte incitandola, in parte acconsentendovi – la dissoluzione di quello Stato sovietico del quale il suo rivale era ancora formalmente a capo.
Con l’ascesa di Eltsin, sembrò essere scoccata l’ora del nazionalismo russo. Mentre però il sostegno popolare che lo aveva accompagnato al successo era dipeso da un appello a quel sentimento, una volta che si fu insediato al potere la sua base politica fu costituita da un’intelligencija che lo sosteneva per altri motivi. A spingerla in tal senso non era un’adesione al nazionalismo, bensì – in una versione di zapadničestvo diversa dalle forme del passato – l’ammirazione per il capitalismo. Nelle sue varianti ottocentesche, gli intellettuali russi avevano guardato all’Occidente per ispirarsi a una modernità liberale, industriale e parlamentare la cui realizzazione era impedita dallo zarismo. Pochi di loro, tuttavia, erano attratti dal culto del profitto e dal denaro. Alla fine del ventesimo secolo, la libertà canonica dei postmoderni era la democrazia, e a questo i membri dell’entourage di Eltsin dettero importanza.
Essi amavano descriversi soprattutto come democratici. Ma come ebbe ad osservare mentre erano al potere il più raffinato intellettuale russo del tempo, si trattava di democratici il cui governo voleva dire umiliazione della democrazia. Eltsin bombardò la Duma, manovrò la ratifica della Costituzione, mise truffaldinamente all’asta la ricchezza del paese a favore di un manipolo di oligarchi e arricchì smisuratamente se stesso e i suoi favoriti[43]. Quel che loro importava non erano questi espedienti, ma l’emancipazione per la quale operavano, vale a dire l’irreversibile introduzione del capitalismo in Russia, alla quale poi avrebbero fatto seguito tutte le altre benedizioni, politiche e sociali, dell’Occidente.
In una tale prospettiva, il nazionalismo russo non trovava posto. Il compito del paese consisteva nell’unirsi all’Occidente, non nell’attardarsi su quelle che altro non erano che retrograde differenze nei suoi confronti. Questo significava fare il proprio dovere, con grande impegno se possibile, stoicamente se necessario. Il ministro degli Esteri di Eltsin, Kozyrev, sbalordì Nixon, durante una sua visita, dicendogli che Mosca non aveva interessi diversi da quelli dell’Occidente. Con interlocutori del genere, che rappresentavano un governo la cui permanenza al potere dipendeva dal sostegno economico e ideologico dell’Occidente, l’America poteva trattare la Russia senza tante cerimonie, quasi come se fosse un paese occupato. Quando perfino Kozyrev si mostrò riluttante a chi gli diceva che Mosca aveva il dovere di unirsi a Washington nella minaccia di attacco alla Serbia, Victoria Nuland – all’epoca assistente del vicesegretario di Stato statunitense per gli affari europei – rilevò: «Ecco quel che accade quando si tenta di convincere i russi [come si fa con i bambini] a mangiare la minestra. Più che si dice loro che fa bene, più loro storcono il naso»[44]. Il suo superiore all’epoca, Strobe Talbott, che era in confidenza con Clinton, rileva con orgoglio che una delle principali attività che svolse durante il suo incarico fu proprio di tentare di convincere i russi ad accettare quei benevoli consigli. A suo tempo, Obama avrebbe affermato in pubblico che Putin gli ricordava un «ragazzino imbronciato in fondo alla classe». Durante la crisi ucraina, Nuland è stata sentita conferire con l’ambasciatore a Kiev sulla composizione del governo del paese con uno stile che un osservatore americano ha paragonato a quello di un funzionario britannico che impartisce istruzioni a uno dei principati dell’India coloniale[45]. Vuoi che fosse condiscendenza, vuoi che fosse disprezzo, l’atteggiamento che ispirava gli americani parlava da solo: vae victis.
Al momento in cui Eltsin lasciò il Cremlino sotto la pressione della débacleeconomica del 1998, in un panorama caratterizzato da corruzione, caos e povertà, i suoi consiglieri neoliberali erano ormai screditati. Il capitalismo come ideologia non aveva mai riscosso rispetto o fiducia a livello popolare; e quando se ne era fatta esperienza, sotto gli auspici di Čubais, Gaidar, Nemstov e compagnia, per la maggior parte dei russi esso si era rivelato più un’ordalia che una liberazione. Putin aveva restaurato l’ordine e rimesso in piedi l’economia senza mai ripudiarlo, ma anche senza mai assumerlo come elemento di legittimazione del sistema che aveva ereditato. Il mercato era necessario, naturalmente, ma quello che i russi avevano sempre apprezzato era uno Stato forte. All’estero, questo significava porre fine alle umiliazioni subite nell’era eltsiniana. La Russia, come ha detto un autorevole conoscitore americano della sua politica estera, avrebbe cercato «rispetto, riconoscimento e assunzione di responsabilità per mantenere l’ordine nel mondo»[46]. A questo scopo avrebbe accettato di adattarsi alle necessità che si presentavano, ma i suoi interessi non coincidevano automaticamente con quelli dell’Occidente, e ormai aveva titolo per essere trattata su un piano di parità con i suoi partner americani e europei.
Quindici anni dopo, questo tentativo si era ormai dimostrato vano. Messo con le spalle al muro dalla crisi economica e dal boicottaggio dell’Occidente, il regime era ormai ritornato ad assumere il nazionalismo russo come propria base ideologica. Storicamente, i suoi governanti avevano potuto farvi appello in tempo di guerra – nel 1812, nel 1914 e nel 1941 -, ma sempre sporadicamente, e comunque nel contesto di altri ordini di valori. Ora non si è in presenza né di un’analoga guerra, né di un paragonabile sistema di valori. Questa è la prima volta, in tempo di pace, che un governo si affida completamente al nazionalismo russo puro e semplice, a quanto pare anche in prospettiva futura. Ma quale può essere l’efficacia di tale risorsa? Con l’aggravarsi della recessione interna, la riduzione della spesa sociale e l’abbassamento del livello di vita della popolazione, essa è destinata ad entrare in crisi. Mentre le contestazioni politiche nella capitale finora non sono riuscite a indebolire il regime, se la protesta sociale che dal 2011 cova qua e là nelle province dovesse diffondersi nel paese, esso si troverebbe in pericolo: l’attuale ondata di sentimento nazionale russo è chiaramente soggetta all’influenza delle difficoltà materiali provenienti dall’esterno. Altro problema, ovviamente, e destinato a durare anche più a lungo della crisi, è quello della sua forza interna.
Ma a quali riserve può attingere oggi il nazionalismo russo? Se la religione ortodossa rappresenta poco più di un distintivo di rispettabilità, oggetto di tendenze di moda più che di fervore mistico, l’alta cultura onorata in epoca sovietica è stata messa ai margini da una cultura di massa globalizzata a sfondo commerciale, e la stessa «democrazia imitativa» del regime non riesce ad alimentare un orgoglio patriottico, cos’altro rimane? In definitiva, un paradosso. Ora che non esiste più, l’impero che un tempo includeva e conteneva la nazione è diventato la base dei meccanismi di identificazione attuali: la grandezza del passato, indipendentemente dalle sue origini o dai suoi esiti, fornisce il comune denominatore più immediatamente disponibile per strutturare una soggettività collettiva nel presente. La memoria è selettiva, come sempre quando entra in gioco la nostalgia, ma non è priva di riferimenti oggettivi che la mantengano in vita. Perché, se la Russia non costituisce più l’architrave dell’impero, d’altra parte non è neppure un normale Stato nazionale, né è destinata a diventarlo in tempi brevi. Per quanto amputata, rimane il più vasto paese della terra. La sua popolazione non è proporzionata a tale ampiezza, tanto sembra piccola rispetto alle potenze con cui si confronta, ma è sempre più numerosa di quella di qualsiasi altro Stato europeo. Le conquiste coloniali del passato continuano a far parte del paese; un cittadino su sei è di cultura musulmana, e fra coloro che sono di madrelingua russa, uno su sei vive fuori dai suoi confini. Se consideriamo il reddito pro-capite, la Russia è il paese più ricco fra i paesi BRICS; il suo arsenale militare è secondo solo a quello degli Stati Uniti. Troppo piccola per essere definita una superpotenza in grado di stare alla pari con l’America o con la Cina, o nell’immediato futuro con l’India, troppo grande per inserirsi adeguatamente in Europa, o per trovare il proprio posto fra gli altri componenti della «comunità internazionale». Per sua sfortuna, dal punto di vista geopolitico la Russia si colloca in una posizione intermedia.
Quattordici anni fa, in quella che resta la più profonda valutazione della situazione del paese allì’alba del nuovo secolo, Georgi Derluguian scrisse:
Oggi la Russia si trova a dover affrontare dilemmi più acuti di chiunque altro, non solo in conseguenza della repentina diminuzione delle sue dimensioni, ma anche perché le sue principali risorse e il suo tradizionale orientamento hanno perso il loro valore. Il capitalismo, con la sua natura globale, è antitetico agli imperi mercantilistici e burocratici che erano specializzati nel massimizzare la propria potenza militare e il proprio peso geopolitico – proprio gli obiettivi il cui perseguimento ha assorbito i governanti russi e sovietici per secoli.
Ma quanto a lungo potrà durare questa situazione?
Il regime della globalizzazione dei mercati permarrà finché saranno soddisfatte tre condizioni: che la recente espansione economica prosegua; che gli Stati Uniti conservino la loro egemonia ideologica, diplomatica e militare; infine, che il dissesto sociale provocato dalle diffusione delle operazioni di mercato sia contenuto con politiche assistenziali o meccanismi di controllo. Rebus sic stantibus, forse possiamo dare all’attuale modello di globalizzazione un’altra decina d’anni, o giù di lì[47]. In questo persistente intervallo, il regime di Putin ha tentato di far coesistere elementi sia del vecchio sia del nuovo ordine: cercando allo stesso tempo di rinnovare risorse e indirizzi che avevano perso valore, ma non del tutto, e, senza curarsi dell’egemonia, di affrontare i mercati che ne avevano diminuito l’importanza; in questo contesto, agisce, come in un gioco di guardie e ladri, da una parte col mezzo del cameralismo militare, dall’altra inseguendo con gli strumenti del capitalismo finanziario. Questo modo di procedere appare contraddittorio, ma riflette anche la strana e incommensurabile posizione che la Russia occupa nell’attuale ordine internazionale, nel quale il regime che la guida è intrappolato senza potervi scorgere una via d’uscita.

Traduzione di David Scaffei

[1] Edward Lucas, The New Cold War: Putin’s Russia and the Threat to the West, New York 2009, pp. 17 sgg.; Luke Harding, Mafia State: How One Reporter Became an Enemy of the Brutal New Russia, London 2011, p. 292; Ben Judah, Fragile Empire: How Russia Fell In and Out of Love With Vladimir Putin, New Haven 2013, pp. 2 e 328-329; Stephen Holmes, Fragments of a Defunct State, in «London Review of Books», 5 gennaio 2012.

[2] Daniel Treisman, The Return: Russia’s Journey from Gorbachev to Medvedev, New York 2011, pp. 340-350 sgg. e 389.

[3] Richard Sakwa, The Crisis of Russian Democracy: The Dual State, Factionalism and the Medvedev Succession, Cambridge 2011, pp. XI-XIV; Id., Transition as a Political Institution: Toward 2020, in Maria Lipman – Nikolay Petrov (a cura di),Russia in 2020: Scenarios for the Future, Washington 2011, pp. 233-235 e 250-251. Altrove Sakwa ha rilevato che il dualismo del sistema russo non è unico – essendo quello del’Iran un altro esempio in tal senso.

[4] Cfr. Gerald Easter, Revenue Imperatives: State over Market in Post-Communist Russia, in Neil Robinson (a cura di), The Political Economy of Russia, Lanham 2013, pp. 62-66; Id. – William Tompson, Putin and the “Oligarchs”: a Two-Sided Commitment Problem, in Alex Pravda (a cura di) Leading Russia: Putin in Perspective: Essays in Honour of Archie Brown, New York 2005, pp. 200-201.

[5] Per un’analisi nel complesso acuta e documentata della rete di connesioni pietroburghese, basata anche su contatti personali, si veda Thane Gustafson,Wheel of Fortune: The Battle for Oil and Power in Russia, Cambridge (Mass.), pp. 231-271, che nondimeno sorvola gentilmente sulle sventure di Sobčak, della cui figura e del cui destino offre invece un’incisiva trattazione Masha Gessen, The Man Without a Face: The Unlikely Rise of Vladimir Putin, New York 2012, pp. 91-93, 124-125, 127 e 134-144.

[6] Intervista di Tom Parfitt a Gleb Pavlovsky, apparsa originariamente in «New Left Review», 88, luglio-agosto 2014, p. 56.

[7] Si veda Fiona Hill – Clifford Gaddy, Mr Putin: Operative in the Kremlin, Washington 2013, p. 209; Yelena Tregubova, Baiki kremlyovskogo diggera, Mosca 2003, pp. 349-350.

[8] Per un resoconto completo della vicenda, si veda «Time», 24 febbraio 2012.

[9] L’analisi più dettagliata delle procedure messe in atto per alterare i risultati elettorali sotto Eltsin e nel primo periodo di Putin è quella di M. Steven Fish,Democracy Derailed in Russia: The Failure of Open Politics, New York 2005, pp. 30-81.

[10] Gustafson, Wheel of Fortune cit., p. 391; Judah, Fragile Empire cit., pp. 100-101.

[11] Richard Sakwa, Systemic Stalemate: Reiderstvo and the Dual State, in Robinson (a cura di), The Political Economy of Russia cit., p. 74, cita un dato di 240 miliardi di dollari: si tratta sicuramente di un’esagerazione, ma il solo fatto che una stima del genere sia possibile parla da sé.

[12] Il Messaggio del Millennio è del 29 dicembre 2012: si veda Hill-Gaddy, Mr Putin cit., p. 36.

[13] Pavlovsky: «Putin fu una delle persone che fin dalla conclusione degli anni Novanta restò passivamente ad aspettare il momento della revanche. Con questo termine intendo riferirmi alla resurrezione di un grande Stato, quello all’interno del quale avevamo vissuto, e al quale ci eravamo abituati. Non uno Stato totalitario, ovviamente, ma uno Stato che potesse essere rispettato» (in «New Left Review», 88, luglio-agosto 2014 p. 56).

[14] Gustafson, Wheel of Fortune cit., p. 362.

[15] Paul Christensen, Russia as Semiperiphery: Political Economy, the State, and Society in the Contemporary World System, in Robinson (a cura di), The Political Economy of Russia cit., p. 184.

[16] Vladimir Popov, Russa Redux?, in «New Left Review», 44, marzo-aprile 2007, pp. 42-43; «Financial Times», 26 settembre 2013; World Bank, Russian Economic Report, primavera 2012, p. 9.

[17] Tale è il drastico verdetto espresso da Tony Wood, Collapse as Crucible: The Reforging of Russian Society, in «New Left Review», 74, marzo-aprile 2012, p. 37. Per una raffinata analisi della natura e delle prospettive dell’opposizione moscovita, si veda Judah, Fragile Empire cit., pp. 195-256.

[18] Richard Sakwa, Putin Redux: Power and Contradiction in Contemporary Russia, London-New York 2014, pp. 230-231.

[19] Si trattò di un evento talmente raro che venne accolto con incredulità dall’ideatore britannico del Piano, l’ex ambasciatore del Regno Unito all’ONU Richard Hannay, che inveì parlando di una decisione «vergognosa» Perry Anderson, The New Old World, London-New York 2009, p. 383.

[20] Discorso tenuto da Putin davanti all’Assemblea della Federazione russa, 25 aprile 2005.

[21]Si veda Patrick Armstrong, Enter the Memes, in Robert Bruce Ware (a cura di), The Fire Below: How the Caucasus Shaped Russia, London 2013, pp. 15-23.

[22] Domitila Sagramoso – Akhmet Yarlykapov, Caucasian Crescent: Russia’s Islamic Policies and Its Responses to Radicalization, in Ware (a cura di), The Fire Below cit., pp. 67-69; Anna Matveeva, The Northeastern Caucasus: Drifting Away from Russia, ivi, pp. 256-278.

[23] Andrew Wilson, Ukrainian Nationalism in the 1990s: A Minority Faith, Cambridge 1997, pp. 128 e 168-170.

[24] Si veda Anatol Lieven, Ukraine and Russia: A Fraternal Rivalry, Washington 1999, p. 46.

[25] Per questi dati, si vedano rispettivamente Andrew Wilson, The Ukrainians: Unexpected Nation, New Haven 2002, p. 291 e Id., Ukraine’s Orange Revolution, New Haven 2005, p. 95.

[26] Lieven, Ukraine and Russia cit., p. 127.

[27] Aleksandr Solženicyn, Rossiya v obvale, Mosca 1998, p. 81.

[28] Segretario del Consiglio nazionale di sicurezza e ministro degli Esteri sotto Yuščenko, e ministro dell’Economia sotto Yanukovyč: per la sua carriera politica e il suo impero economico, si veda Slawomir Matuszak, The Oligarchic Democracy: The Influence of Business Groups on Ukrainian Politics, Warsaw 2012, pp. 28, 57 e 108-110.

[29] Si veda Susan Watkins, Annexations, in «New Left Review», 86, marzo-aprile 2014, pp. 5-11.

[30] Si veda Charles Clover, Russia’s Economy: Unsustainable Support, in «Financial Times», 21 marzo 2012.

[31] Si vedano rispettivamente: Gideon Rachman, The Swift way to get Putin to scale back his ambi­tions, in «Financial Times», 12 maggio 2014, e Wolfgang Münchau, Europe needs to play the long game on sanctions, ivi, 23 maggio 2014.

[32] Daniel Treisman, Watching Putin in Moscow, in «Foreign Affairs», 5 marzo 2014.

[33] Per tutto quello che precede, si veda il penetrante studio di Geraldine Fagan,Believing in Russia: Religious Policy after Communism, London-New York 2013, pp. 34-35, 195-200 e 24-25, la quale commenta: «Nel mondo in trasformazione della politica post-sovietica, dove la legittimità (o la sua parvenza) è tutto, la Chiesa riesce in tal modo a svolgere un’essenziale funzione sacralizzante per l’élite dirigente» (p. 33).

[34] Per il ritratto filmato di Putin, si veda Stephen Norris, Family, Fatherland, and Faith: The Power of Nikita Mikhalkov’s Celebrity, in Helena Goscilo – Vlad Strukov (a cura di), Celebrity and Glamour in Contemporary Russia: Shocking Chic, London-New York, pp. 120-121, a cui è da affiancare l’analisi dell’iconografia putiniana di stile più bric-à-brac sviluppata da Helena Goscilo, The Ultimate Celebrity: vvp as vip objet d’art, ivi, pp. 29-55.

[35] Jeremi Szaniawski, The Cinema of Alexander Sokurov: Figures of Paradox, London-New York 2014, un’interpretazione omoerotica del regista, che si dibatte coraggiosamente fra l’ammirazione e lo sgomento di fronte a tale opera.

[36] Maria Litovskya, The Function of the Soviet Experience in Post-Soviet Discourse, in Birgit Beumers (a cura di), Russia’s New Fin de Siècle: Contemporary Culture Between Past and Present, Bristol-Chicago 2013, pp. 26-27.

[37] «The Economist», 13 marzo 2010.

[38] Si tratta di un tema centrale del volume di Marshall Poe, The Russian Moment in World History, Princeton 2006, pp. 47-49.

[39] Si veda in particolare Geoffrey Hosking, Empire and Nation in Russian History, Waco 1993, pp. 7-12; Id., The Russian National Myth Repudiated, in Geoffrey Hosking – George Schöpflin, Myths and Nationhood, London 1997, pp. 198-210.

[40] Secondo la famosa formula di Terry Martin (The Affirmative Action Empire: Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Ithaca 2001).

[41] La questione è prospettata in modo efficace da Dominic Lieven, Empire: The Russian Empire and its Rivals, London 2002, pp. 228-229.

[42] Su ciò, si veda lo studio ancora oggi penetrante di Tim McDaniel, The Agony of the Russian Idea, Princeton 1996, pp. 22 sgg. e 160-161.

[43] Dmitri Furman, Perevernutyi istmat? Ot ideologii perestroiki k ideologii «stroitel’stva kapitalizma» v Rossii, in «Svobodnaya Mysl’», 3, 1995, pp. 12-25; Id.,Dviženie po spirali, Mosca 2010.

[44] Strobe Talbott, The Russia Hand: A Memoir of Presidential Diplomacy, New York 2002, p. 76.

[45] David Rieff, Obama’s Liberal Imperialism, in «The National Interest», 11 febbraio 2014. Per la trascrizione del loro colloquio, si veda «New Left Review», 86, marzo-aprile 2014, pp. 12-13.

[46] Jeffrey Mankoff, Russian Foreign Policy: The Return of Great Power Politics, Lanham 2009, p. 305.

[47] Georgi Derluguian, Recasting Russia, in «New Left Review», 12, novembre-dicembre 2001, pp. 20-21

Articolo pubblicato su Left Review, n. 94, luglio-agosto 2015
Fonte: Hyperpolis.it

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