La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 11 gennaio 2016

Unioni civili, l’impegno dei giuristi e la lunga strada da percorrere

di Aldo Cimmino
Si riaccendono le polemiche sulle unioni civili e si concentrano intorno alla nuova iniziativa parlamentare recentemente presentata al Senato. Discussioni che denotano come per anni sia mancata una vera partecipazione delle forze sociali e – del resto è questa la loro missione – dei giuristi militanti. Questi ultimi, che rivestono un ruolo sociale fondamentale non solo nell’ambito della tutela dei diritti, ma anche e soprattutto nelle battaglie per la conquista e l’affermazione dei cosiddetti “nuovi diritti”, devono oggi essere espressione di un impegno civile improntato alla legalità democratica e alla lotta per le libertà fondamentali.
Di conseguenza, non possono esimersi dall’intervenire nel dibattito politico in tema di unioni civili e diritti degli omosessuali. Nell’odierno contesto sociale, il giurista è chiamato a vigilare in concreto, su ben due aspetti che concernono il tema delle unioni civili in Italia.
Da un lato il disegno di legge che introduce una disciplina specifica in tema di coppie di fatto, attualmente all’esame del Senato, dall’altro la sempre invocata tutela penale contro l’omofobia e transfobia. Quanto al primo aspetto, va subito detto che i protagonisti del mondo giuridico, i giuristi militanti di cui si è detto, hanno un enorme responsabilità.
Non solo quella di stimolare gli attuali lavori parlamentari, ma soprattutto di dare continuo impulso alla definizione di una disciplina puntuale, inerente la questione delle unioni di fatto, sia eterosessuali che omosessuali. E l’impulso può essere dato soltanto se sono i giuristi a farsi promotori delle iniziative di diffusione culturale e di dibattito sul tema.
In altre parole, spetta proprio a essi, non solo riconoscere la società che muta, ma – in prima istanza – porre le condizioni perché venga formulato il diritto di questa oramai mutata società. La tecnica giuridica, infatti, non può prescindere dall’impostazione socio-culturale che una collettività esprime in un dato momento storico.
Non può dirsi che non è affar del diritto il “desiderio sociale” emergente dall’atteggiamento di una data socialità, per il semplice motivo che tale “desiderio” altro non è che il complesso dei diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica riconosce sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Il “desiderio sociale” è, dunque, la propensione dell’uomo collettivo a realizzare la propria personalità nel contesto civile e normativo di riferimento.
Diviene preliminare, allora, la considerazione per la quale prima ancora del diritto è necessario alimentare un orientamento culturale che prepari il terreno sociale alla semina legislativa.
Per far questo il giurista, non solo deve infondere il suo impegno nell’ambito di iniziative culturali volte alla sensibilizzazione su tali temi, ma deve inoltre apportare il proprio contributo nella formulazione della norma.
Dal canto suo il legislatore, al di là delle proprie convinzioni personalissime, è chiamato ad assumere un contegno asettico, o meglio costituzionalmente appassionato, in grado di far acquisire alla legislazione la sua funzione tipica, e cioè quella di restituire ai consociati le loro stesse istanze ma regolate e disciplinate, nel rispetto delle garanzie minime e dei limiti imposti dalla Carta costituzionale. E siccome la Costituzione non vieta in alcun modo le unioni omoaffettive, deve necessariamente ritenersi che impedirle sia proprio atteggiamento contrario alla solidarietà sociale costituzionalmente riconosciuta e solennemente proclamata.
E cioè, detto con i termini della scienza giuridica costituzionalistica, l’atteggiamento omissivo del legislatore impedisce la concretizzazione di quelli che sono stati definiti i “diritti a prestazione” e cioè diritti sociali riconosciuti dalla Costituzione che, al contrario, richiedono proprio l’intervento attuativo delle leggi e, dunque, del Parlamento.
Non a caso la Corte costituzionale, con una sentenza del 2010, ha riconosciuto, quale diritto fondamentale, quello di vivere liberamente una condizione di coppia, indipendentemente dall’orientamento sessuale dei conviventi.
Appare, dunque, ancor più auspicabile che finalmente il Parlamento si renda artefice di una conquista sociale e civile, quale è quella di legiferare, in modo organico, sulle unioni civili.
Oltretutto, anche a livello europeo la condizione omoaffettiva è ormai completamente riconosciuta e regolata. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte sottolineato che tale condizione è tutelata pienamente dalle norme della Convenzione europea.
Tuttavia, ed è questo un nuovo monito per il legislatore nazionale, l’art. 12 della Convenzione Europea, pur tutelando anche il diritto a contrarre matrimonio delle coppie omosessuali, non impone obblighi, agli Stati nazionali, di regolare la materia con apposita legge.
Ciò in considerazione del fatto che il matrimonio costituisce un istituto giuridico strettamente legato al retroterra sociale e culturale di ciascuna comunità e, pertanto, la scelta d’introdurre una disciplina che consenta il matrimonio tra persone dello stesso sesso rientra nell’ambito della discrezionalità legislativa. Ecco allora che si ritorna alla funzione della partecipazione sociale promossa e sollecitata dai giuristi militanti.
L’arretramento culturale a cui si è assistito nell’ultimo ventennio, promosso da parte della classe dirigente di questo Paese, dai media e dalla commistione tra politica e religione, non ha certamente favorito il dibattito sociale e parlamentare.
La proposizione di modelli sessisti – che hanno di fatto generato atteggiamenti discriminatori ed omofobi – unitamente a quelli familiari di tipo tradizione, secondo una concezione che è oggi parametro di discernimento giuridico, e cioè di conformità della formazione sociale fondamentale al concetto di ordine pubblico, hanno contribuito, al contrario a creare orientamenti sub-culturali di contrasto alla regolamentazione delle unioni civili. Ancora, i moniti della CEI a non “oscurare ed indebolire” con istituti alternativi e similari quello della famiglia, hanno il solo scopo di una contrattazione politica e temporale e non certamente spirituale. Del resto è appena il caso di sottolineare che la centralità del discorso laico è centralità di un discorso ispirato alla solidarietà e socialità costituzionale.
Conseguentemente hanno preso vita forme di protesta e di opposizione, al riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, caratterizzate da insipienza giuridica e prive di intelligenza sociale e culturale. Un mea culpa, forse, dovrebbe fare anche il mondo dell’associazionismo LBGTQI, non sempre realmente sintonizzato sulla necessità di promuovere serie istanze culturali volte ad incrementare non tanto la tolleranza (termine che in tal caso assume accezione propositiva ancorché negativa) quanto, piuttosto, la coesione sociale, tra soggetti appartenenti alla stessa collettività, che operano scelte anche profondamente diverse.
Tornando al disegno di legge “Cirinnà”, che come detto giace tutt’ora al Senato, il provvedimento che si tenta di far approvare offre innanzitutto una definizione di unione civile. È infatti tale quella inerente il rapporto tra da due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, che vogliano organizzare la loro vita in comune.
Si tenta di introdurre dunque un primo statuto giuridico della famiglia di fatto, tanto eterosessuale che omosessuale, volto a garantire la libertà dei cittadini di scegliere forme non tradizionali di convivenza, ma soprattutto di garantire ai cittadini la libertà di vivere serenamente ed apertamente la loro condizione omoaffettiva, evitando così ogni forma di discriminazione ai loro danni.
Altro aspetto innovativo del disegno di legge proposto è quello che concerne le future norme sulla convivenza e sulla spettanza dei diritti ai conviventi omosessuali, così come previsto per le coppie eterosessuali. Ne è un esempio l’articolo 19 del proposto d.d.l. Cirinnà che riconosce la possibilità di stipulare contratti di convivenza attraverso i quali le parti possono fissare la comune residenza, le modalità di contribuzione alla vita comune e il regime patrimoniale di elezione.
Se, dunque, è generalmente auspicabile il tanto atteso intervento legislativo per la regolamentazione della condizione giuridica di tutte le coppie di fatto, non altrettanto dicasi in ambito del diritto penale. Ci si riferisce, in particolare, alle norme che si tenta di far introdurre al fine di rafforzare la tutela delle persone omosessuali soggette ad aggressioni violente. Tale impostazione, però, impone di ragionare sul corretto uso della legge penale.
In sostanza c’è da evidenziare che l’attivismo della società civile in generale e dell’associazionismo proprio del mondo LGBTQI in particolare, ha evidenziato l’esigenza di una più incisiva tutela penale, al fine di contrastare le violenze che spesso sono perpetrate a danno di persone omosessuali e transessuali per meri motivi di intolleranza.
Se tali atti sono certamente deprecabili e vanno condannati senza se e senza ma, va innanzitutto detto che qualunque atto di violenza o di aggressione realizzato da un uomo o una donna ai danni di altre persone è già stigmatizzato dalla legge penale. Delitti quali, l’omicidio, le lesioni, le percosse, sono già punibili, anche se perpetrati ai danni di una persona omosessuale.
Se quello che si tenta di fare è, invece, dare una “punizione esemplare” a colui o colei che abbia agito violentemente per mera intolleranza della condizione omoaffettiva, va sin da subito affermato che questo non è il modo migliore per “educare” la collettività ad un comune sentire di solidarietà e pacifica convivenza.
C’è da chiedersi, allora, se non sia il caso di investire energie e risorse per potenziare percorsi di approfondimento e di cultura, perché sia debellata l’intolleranza verso i fenomeni sociali.
In altre parole, l’impegno statale di criminalizzazione delle condotte omofobe, di violenza e di aggressione, non può precedere quello di riconoscimento dei diritti civili e delle libertà fondamentali. E si torna, per questa via, alla necessità di potenziare la cultura dei diritti fondamentali attraverso un lavoro che sia di armonizzazione delle istanze collettive e di educazione alla coesione sociale.

Fonte: ilcorsaro.info

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