La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 6 settembre 2016

Capitalismo italiano nel caos, in pasto agli stranieri

di Vittorio Malagutti 
Grande è la confusione sotto il cielo dell’alta finanza in questo scorcio di fine estate. Ci sono banchieri e manager sull’orlo di una crisi di nervi, stretti tra le politiche espansive fin qui fallimentari della Bce di Mario Draghie l’incerto futuro di una ripresa economica che non decolla. Perfino loro, i gran capi delle banche centrali, a Francoforte come a Londra, Tokyo e Washington, si comportano ormai come apprendisti stregoni che hanno esaurito il repertorio delle formule magiche, incapaci di rimettere ordine nel caos della finanza globale. Dalle nostre parti, peggio di tutti se la passa il Monte dei Paschi, appeso al filo di un salvataggio appena annunciato e già da riscrivere.
La bolla dell’incertezza avvolge i mercati e alimenta le voci di ribaltoni prossimi venturi. In Borsa, per dire, fioriscono le indiscrezioni su imminenti novità per quelli che un tempo venivano chiamati salotti buoni: dalle parti, insomma, di Mediobanca e Generali. Intanto, bilanci in perdita e magre prospettive di sviluppo mettono in discussione anche alleanze d’affari consolidate nel tempo. Chi l’avrebbe detto, per esempio, che Silvio Berlusconi avrebbe portato in tribunale l’ex sodale Vincent Bolloré, il raider più famoso di Francia? La posta in gioco è il futuro di Premium, pay tv di Mediaset (coi conti in rosso) che Bolloré ha comprato ma ora vorrebbe rispedire al mittente.
Non sarà facile. Anche perché il finanziere transalpino, per una volta costretto a giocare in difesa, deve fare i conti da mesi con l’ostilità manifesta di Matteo Renzi, che mal sopporta il piglio da conquistatore in terra straniera esibito nei mesi scorsi da Bolloré nella sua scalata a Telecom Italia. Il siluro di Palazzo Chigi è già partito. Forte dell’appoggio di Roma e dei soldi pubblici, l’Enel farà concorrenza all’ex monopolista dei telefoni sul fronte quanto mai strategico della banda larga. E questa è una pessima notizia per Telecom Italia, che già fatica a trovare le risorse per finanziare nuovi investimenti.
Le cose non vanno meglio nel triangolo Mediobanca,Generali, Unicredit, un tempo custodi della chiave d’accesso alla cassaforte più segreta del sistema. Analisti e osservatori si esercitano da settimane a disegnare possibili prossimi riassetti, alleanze, fusioni. Generali in viaggio verso la francese Axa. Mediobanca che sposa Unicredit, con Bolloré (ancora lui) a fare da regista dell’operazione.
Nulla si muove, però. Mancano i soldi, tanto per cominciare. E così, quelli che un tempo venivano etichettati come i poteri forti, perdono quota e rischiano l’irrilevanza. Pensate alla battaglia per la conquista del “Corriere della Sera”, combattuta in Borsa a suon di Opa (Offerta pubblica d’acquisto). Alla fine l’ha spuntata un outsider come Urbano Cairo, editore in proprio di periodici assortiti, patron della tv “La7” e del Torino calcio. Per l’occasione, Cairo è sceso in campo con le spalle ben coperte dai prestiti di Banca Intesa ed ha conquistato la quota di controllo della holding Rcs.
La sorpresa vera però è un’altra e riguarda gli sconfitti. Cioè i soci forti del gruppo editoriale capitanati da Mediobanca, quelli che negli ultimi 15 anni non sono riusciti a far fronte alla Caporetto dei conti del primo quotidiano italiano, impiombato dalla crisi generale della carta stampata ma prima ancora da una fallimentare strategia di espansione in Spagna.
Oltre all’istituto che fu di Enrico Cuccia, il gruppo degli alleati scesi in campo contro Cairo comprendeva anche Diego Della Valle, l’Unipol che ha ereditato la quota Rcs di Salvatore Ligresti e la Pirelli venduta ai cinesi da Marco Tronchetti Provera.
Tutti insieme avevano sponsorizzato e finanziato l’offerta di un fondo d’investimento gestito da Andrea Bonomi, ma l’ala nobile del capitalismo nazionale ha infine dovuto alzare bandiera bianca al termine di un confronto giocato per intero in Borsa, tra offerte contrapposte sottoposte al giudizio degli investitori.
La vittoria di Cairo, su cui pochi da principio avrebbero scommesso, può essere letta come un segno dei tempi nuovi. Sì, perché per decenni il destino del “Corriere” era stato deciso nelle segrete stanze di pochi grandi azionisti. Il fatto è che la crisi finanziaria globale ha squarciato una volta per tutte la tela del capitalismo di relazione. “Chi ha i soldi vince”, recita la regola aurea del mercato. Ma per i campioni della finanza nostrana non è facile tenere il passo con la nuova realtà. Quella dei tassi d’interesse vicini allo zero, o addirittura negativi, che comprimono i margini di guadagno di banche e assicurazioni. E allora, nell’incertezza generale sugli esiti di una stagnazione economica che sembra non finire mai, i programmi a lungo termine appaiono un esercizio quanto mai aleatorio.
I piani industriali vengono scritti e riscritti, aggiornando di volta in volta gli obiettivi di profitto per gli anni a venire. E se questa è la gestione dell’ordinario, diventa più complicato, quasi impossibile, far tornare i conti di un piano di salvataggio, perché banchieri e consulenti sanno di camminare sul ghiaccio sottile di un ciclo economico ancora debolissimo nonostante il bombardamento di liquidità della Bce di Francoforte.
Insomma, nessuno si azzarda più a fare previsioni. E chi ci prova rischia grosso, come dimostra il caso del Monte dei Paschi. Il piano di salvataggio della banca senese, annunciato a fine luglio, rischia di naufragare. L’operazione ruota attorno alla cessione di sofferenze (i crediti a rischio più difficili da recuperare) per un valore di 9,7 miliardi accompagnata da un aumento di capitale per 5 miliardi. Una somma, quest’ultima, da raccogliere sul mercato grazie all’intervento di un consorzio di garanzia guidato dalla banca statunitense Jp Morgan.
Siamo daccapo: chi ci mette i soldi? Con l’aria che tira in Borsa, si fatica a capire quanti saranno gli investitori disposti a puntare sul rilancio del Monte. E infatti i primi sondaggi sul mercato non hanno dato risultati incoraggianti. Non per niente i consulenti riuniti al capezzale di Mps sono già alla ricerca di una soluzione alternativa. Si ipotizza di convertire in azioni una quota dei 3 miliardi di obbligazioni subordinate piazzate negli anni scorsi dall’istituto senese presso la clientela cosiddetta istituzionale, cioè grandi investitori come i fondi pensione e d’investimento.
I fondi così raccolti andrebbero a coprire almeno in parte l’importo complessivo dell’aumento di capitale, che diventerebbe così più facile da far digerire alla Borsa. Solo ipotesi per il momento, che tra l’altro dovranno obbligatoriamente ricevere il via libera della Vigilanza bancaria europea. E comunque non è detto che la manovra sulle obbligazioni subordinate sia sufficiente a chiudere il cerchio del salvataggio.
Il sistema arranca, ma d’altra parte non può permettersi di abbandonare al proprio destino il Monte dei Paschi. L’eventuale dissesto della terza banca italiana innescherebbe una reazione a catena con conseguenze imprevedibili per la stabilità finanziaria del Paese.
Solo qualche mese fa, la liquidazione forzata di quattro piccoli istituti (Etruria, BancaMarche, Carife e Carichieti) ha provocato una crisi di fiducia senza precedenti tra correntisti e investitori. E più di recente, per evitare guai ancora peggiori, la crisi delle Popolari del Nordest (Vicenza e VenetoBanca) è stata risolta solo grazie all’intervento del Fondo Atlante, sostenuto dai maggiori gruppi finanziari nazionali, a loro volta caldamente invitati a scendere in campo dal governo Renzi.
Per prendere il controllo delle due banche venete, Atlante ha investito circa 2,5 miliardi. Giusto la metà di quanto servirebbe per mettere in sicurezza Unicredit, che avrebbe bisogno, secondo gli analisti, di un aumento di capitale per rafforzare il patrimonio. Facile a dirsi, ma nessuno dei grandi soci dell’istituto, a cominciare dalla fondazioni di Torino e di Verona, può permettersi di far fronte a cuor leggero a un nuovo esborso di denaro.
Così, la banca italiana più importante d’Europa, l’unica con un respiro veramente globale, resta in mezzo al guado. Jean Pierre Mustier, il nuovo amministratore delegato in sella da luglio al posto di Federico Ghizzoni, promette per l’autunno un piano che scandirà le tappe della rimonta. Intanto, con l’obiettivo di far cassa, finiscono nella lista delle possibili cessioni anche pezzi pregiati del portafoglio del gruppo, come la banca polacca Pekao e una quota di Fineco vera macchina da soldi delle gestioni patrimoniali e del trading online.
La quotazione di Unicredit, che ha perso oltre il 60 per cento nell’arco degli ultimi 12 mesi, resta però in balia delle voci. Tanto che l’istituto di credito italiano potrebbe presto perdere il posto nell’Eurostoxx50, l’indice dei principali titoli della zona euro per valore di mercato. Sarebbe un brutto colpo. E non solo per motivi di prestigio. Infatti, i gestori dei grandi fondi internazionali fanno riferimento a questa lista di titoli a grande diffusione per decidere i loro acquisti.
Unicredit è in buona compagnia. Anche le Generalisono finite in zona retrocessione e al pari della banca guidata da Mustier rischiano l’esclusione dal club dei pesi massimi delle Borse europee. Le analogie non finiscono qui. Caso vuole che anche la compagnia di Trieste, così come Unicredit, abbia da poco cambiato il capoazienda. Al posto di Mario Greco, ora alla guida dell’elvetica Zurich, il gruppo del Leone si è affidato a Philippe Donnet, francese come Mustier e sponsorizzato dal solito Bolloré. Per questo, da settimane ormai, analisti e operatori di Borsa hanno cominciato a ipotizzare che questa “french connection” finirà per traghettareGenerali verso Axa, il colosso parigino delle assicurazioni su cui esercita ancora una forte influenza l’ottantenne finanziere Claude Bébéar, da sempre in ottimi rapporti con lo stesso Bolloré.
L’eventuale, ipotetica, fusione, avrebbe tutte le caratteristiche di un’annessione di marca francese, visto che Axa vale in Borsa più del doppio del concorrente italiano. Ed è quindi probabile che l’operazione verrebbe accompagnata da polemiche a non finire sulla campagna d’Italia delle aziende d’Oltralpe, reduci da acquisizioni in serie di marchi più o meno famosi, come Edison, Parmalat e Telecom Italia, per citare solo tre dei maggiori.
Alla fine il polverone dialettico finisce per nascondere il problema vero. E cioè la debolezza dei grandi gruppi nostrani nel contesto internazionale. È il caso di Generali, che negli ultimi anni ha perso terreno nei confronti di rivali come Allianz, Zurich e la stessa Axa. D’altra parte è difficile reggere il confronto se i maggiori azionisti italiani del gruppo del Leone, da Mediobanca a Leonardo del Vecchio fino a Francesco Gaetano Caltagirone non hanno mezzi sufficienti per finanziare la crescita della compagnia e sono preoccupati più che altro di difendere la loro posizione da ogni minaccia esterna. Capitalisti senza capitali. Poteri deboli.

Fonte: L'Espresso 

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