di Guido Michelone
Con l’immagine di un guerriero e di un tedoforo fascisti, circolano in rete due vecchie grafiche dell’Olimpiade Tokyo 1940, nella città che fra quattro anni ospiterà i Giochi estivi; anche osservando il celebre doppio film – Olympia: Fest der Völker e Olympia: Fest der Schönheit – che la regista Leni Riefensthal, su imperativo di Hitler, dedica a Berlino 1936, all’ultima giornata, in una sequenza finale, si vede un cartello cui campeggia la scritta «arrivederci a Tokyo 1940 e Londra 1944». Quelle due olimpiadi non si faranno mai, o meglio saranno spostate rispettivamente di 24 e di soli 4 anni, per motivi oggi chiarissimi e definibili «politici»: il Giappone è punito quale nemico, la Gran Bretagna invece ha vinto la guera.
Tokyo 1940 non è però il primo atto negativo, fra sport e politica, nelle moderne Olimpiadi, che, per De Coubertin, storico e pedagogista, dovrebbero riappropriarsi dell’antico spirito greco, quando, per i giochi quadriennali nei campi di Olimpia, si interrompono guerre terribili o faide fra polis, per dare luogo a una manifestazione cosmopolita, armoniosa, universalistica, elegante.
Dopo circa 2500 anni, l’intento pacifista e pacificatore – fra positivismo e belle époque – cessa già alla sesta Olimpiade prevista con Berlino 1916, ma annullata per la sciaguratissima Grande Guerra, primo conflitto mondiale combattuto per terra, per mare, per aria, con ogni mezzo (anche illecito), in cui periscono diversi giovani atleti chiamati alle armi. E per Anversa 1920 alle nazioni sconfitte i Giochi sono preclusi (lo stesso accadrà con Londra 1948),
La prima Olimpiade politicizzata ideologicamente è la citata Berlino 1936 in pieno nazismo, anche se decisa prima delle SS. Molte democrazie, pur sapendo del terrore razzista in tutta la Germania, decidono di scendere in campo: famosi i saluti romani, obtorto collo, con gli atleti che sfilano compatti durante il rito di apertura: perfino i francesi – all’epoca Front Populaire – alzano il braccio teso, mentre gli americani sfidano il protocollo togliendosi la paglietta in testa, a mo’ di vecchio galateo, davanti al palchetto delle autorità e alle bandiere con le croci uncinate. In quei Giochi, dove le camicie brune vogliono mostrare i muscoli in tutti sensi, sono gli statunitensi a brillare, oltre le medaglie, per il coraggio di talune azioni: la compagine a stelle-e-strisce schiera il campione nero Jesse Owens, che, pur conquistando tre ori, non viene salutato, come da prammatica, né dal Fuhrer né da Goebbels (responsabile dei Giochi) in quanto emblema di «razza inferiore». I tedeschi fanno addirittura pressione su un dirigente yankee per escludere dalla finale 4×100 maschili due atleti ebrei, fra l’altro gli stessi che in allenamento ostentano la stella di David in oro, facendo indispettire il servizio d’ordine; nonostante la formazione rimaneggiata la staffetta americana trionfa ugualmente sugli avversari teutonici.
E sono in fondo «politici» anche i Giochi di Londra 1948, quando vige ancora la tessera per il cibo razionato: non a caso verranno ricordate come Olimpiadi dell’austerity, per il trattamento riservato agli sportivi partecipanti: porzioni ridotte di pane e companatico alla mensa comune. Il 1948 è anche l’anno del primo boicottaggio: l’Unione Sovietica viene invitata per la prima volta dal Comitato Internazionale Olimpico, ma la risposta è negativa, ufficialmente per questioni organizzative. In realtà Stalin in persona crede moltissimo nel valore edificante della pratica sportiva: passano alla Storia i «suoi» Giochi alternativi – le Spartachiadi 1928-1956 – e la sequenza filmata dove lo si vede mentre applaude una sfilata di carri allegorici, sui quali, vengono inscenati tornei di calcio, basket, pugilato, atletica. L’«uomo d’acciaio» sguinzaglia alcuni stretti collaboratori in giro per l’Urss, per informarsi sulle potenzialità delle numerose squadre e dei singoli atleti in forma. Alla precisa domanda: «Quante medaglie possiamo vincere rispetto agli americani?», trovando una risposta deludente, l’«indomabile» decide di evitare figuracce. Tocca a Kruscev e successori imbastire una guerra fredda anche a livello olimpico, con sfide a distanza (tranne qualche memorabile match di pallacanestro), per ottenere i migliori piazzamenti: e in effetti Usa e Urss risultano insieme dominatori assoluti di nove edizioni olimpiche, trovando anche il modo di annullarsi a vicenda.
Dopo una tranquilla Helsinki 1952, con Melbourne 1956 appaiono i primi boicottaggi diplomatici con il ritiro delle squadre: Olanda, Svizzera, Spagna per i fatti d’Ungheria, mentre Egitto, Iraq, Libano, Cambogia per il Canale di Suez; solo dal 1992 il Cio, con il supporto dell’Onu, chiede di osservare la tregua olimpica alle nazioni in guerra, benché l’appello resti disatteso.
Politica, ma in senso «buono» è invece Roma 1960, considerata da storici e cronisti, la migliore Olimpiade moderna, nell’Italietta del boom, del governo Tambroni e delle rivolte contro lo strisciante neofascismo (i moti di Genova e i morti di Reggio Emilia). I Giochi capitolini sono però quelli della decolonizzazione con l’ingresso dei paesi africani indipendenti: e le riprese indimenticabili dell’etiope Abebe Bikila che, scalzo, taglia il traguardo della maratona resta forse l’emblema di un Terzo Mondo alla ricerca del riscatto.
Dopo Tokyo 1964, il precario equilibrio si spezza con una sempre maggiore intrusione mediatica (televisione in primis) che amplifica e spettacolarizza quanto avviene dentro e fuori i luoghi olimpici: fino a Tokyo le imprese degli sportivi restano «mito» nel senso antico della parola greca, leggende esaltate dal linguaggio fiorito dei giornalisti, immortalate dal bianco e nero dei fotografi (talvolta opere d’arte o simboli di un’epoca), restituite a posteriori nell’originaria bellezza plastica di gesti, record, movimenti dai film-maker che, per circa un trentennio, riusciranno a costruire un autentico genere cinematografico.
Dopo Tokyo 1964 (in differita), il passaggio dal grande al piccolo schermo mostra iperrealisticamente la violenza del mondo entrando nel vivo (e nei morti) dei Giochi. Sono dunque «politica» le immagini dei pacifici contestatori massacrati in piazza dalla polizia a Mexico 1968, dove vengono altresì inquadrati i duecentometristi Tommie Smith e John Carlos «stile Black Panthers» fra pugni chiusi e guanti neri sul podio con The Star-Spangled Banner. Peggio ancora il «bollettino di guerra» telegiornalistico per Monaco 1972 con atleti israeliani sequestrati da un commando di Settembre Nero. Da allora, per almeno tre edizioni, una politica meno violenta ma forse più subdola influenza il numero di nazionali ai Giochi: ranghi ridotti per Montréal 1976 (senza i paesi africani contro la tournée neozelandese del rugby bianco sudafricano), per Mosca 1980 (senza Usa e filoccidentali per l’invasione dell’Afghanistan), per Los Angeles 1984 (senza il blocco d’Oltrecortina per ritorsione contro il precedente atteggiamento).
Da Seul 1988 a Londra 2012 si ricomincia nel segno dell’abbondanza e dell’elefantiasi, fra tanti colpi bassi per accaparrarsi le sedi idonee, con patteggiamenti e strategie da pessimo Risiko: nel 1996, Atene, ideale per il centenario, viene scippata da Atlanta, a soli dodici anni da un’altra città americana, grazie al supporto di un’industria «locale», The Coca-Cola Company, già sponsor di megaeventi sportivi e mediatici.
Arriva Rio 2016 da poco conclusa (ora in attesa delle Paralimpiadi), l’unica svoltasi con un presidente commissariato e con problemi irrisolti già mesi prima dell’inizio: le reiterate proteste delle classi povere, esasperate per i miliardi pubblici spesi nonostante la crisi abbattutasi sulla giovane nazione, dovrebbero far riflettere, per l’ennesima volta, su politica e Olimpiadi alla luce del monito decoubertiano: «Un paese può dirsi davvero sportivo quando la maggioranza dei suoi abitanti sente lo sport come una necessità personale».
Fonte: Il manifesto
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