di Enrico Galavotti
Se John Zerzan avesse ragione, dovremmo dire che della vita non abbiamo capito niente. Per fortuna però che è un anarchico e che, come tutti gli anarchici, presenta dei lati estremistici che lo rendono poco credibile. Ciò senza nulla togliere al fatto che molte delle sue idee "primitiviste" siano tutt'altro che assurde. Il suo estremismo, d'altra parte, è comprensibile. Come può non esserlo un uomo nato negli Stati Uniti del XX secolo? Questa nazione è una costola dell'Europa borghese nata nel XVI secolo, quel secolo in cui Marx fa decollare il moderno capitalismo.
Ed è una costola puritana, cioè calvinista, quel ramo del protestantesimo che meglio s'è adattato e che, nel contempo, meglio ha favorito lo sviluppo del capitalismo manifatturiero.
Ed è una costola puritana, cioè calvinista, quel ramo del protestantesimo che meglio s'è adattato e che, nel contempo, meglio ha favorito lo sviluppo del capitalismo manifatturiero.
Il cittadino medio americano risente profondamente di questa cultura, soprattutto se è di origine europea. Ne sono stati condizionati anche i neri provenienti dall'Africa, in quanto, dopo la loro liberazione giuridica dalla schiavitù, non sono mai riusciti a creare un'alternativa al capitalismo, neppure teorica. E ne sono condizionati oggi gli immigrati provenienti dal Sudamerica o dalla Cina o da qualunque altro paese, che sono convinti di trovare negli Usa una sicura possibilità di riscatto. Chi mette in discussione il valore del free marketrischia di porsi appunto come un estremista, uno che non accetta l'idea di vivere nel paese più "democratico" del mondo, l'unico autorizzato a esportare ovunque, anche con la forza delle armi, la propria idea di "libertà".
Le uniche in grado di contestare il capitalismo in maniera "naturale" avrebbero potuto essere le 500 tribù o nazioni indiane, anteriori alla colonizzazione europea, ma oggi i sopravvissuti vivono relegati nelle riserve, in procinto di scomparire definitivamente. Soltanto con quei nativi si può parlare, a buon diritto, in quel continente, di una tradizione pacifica, ambientalistica, priva di conflitti di classe o di irriducibili antagonismi sociali (cosa che non si può certo fare con gli Inca, i Maya e gli Aztechi). Una qualunque opposizione al capitalismo che non tenesse conto della loro plurimillenaria tradizione, non potrebbe non cadere in atteggiamenti estremistici.
Ecco perché John Zerzan è inevitabilmente un estremista. Non può sapere, per esperienza, che cosa sia "naturale" e che cosa no: lo deve imparare, facendo inevitabilmente degli errori, come tutti noi europei. A suo merito va il fatto che comunque ci sta provando, prendendo le cose seriamente. Un americano, che presume d'avere la consapevolezza della necessità inderogabile di superare i limiti strutturali del capitalismo, non può far leva su una memoria perduta (neppure quando osanna il paleolitico superiore), ma soltanto su un desiderio represso. Zerzan vuole essere se stesso in una società che fa di tutto per impedirglielo, in maniera diretta o indiretta.
Ora però vediamo quali sono gli aspetti ch'egli, nel primo capitolo del testo in oggetto, sottopone a una critica così radicale che un qualunque compromesso con le sue idee risulta impossibile. Generalmente egli si sforza di trovare una risposta a questa domanda fondamentale: "esiste un criterio oggettivo per stabilire quando un'azione umana può essere considerata naturale?". La risposta ch'egli dà è sempre la stessa: "è la natura che deve deciderlo". Sulla base di questa risposta egli avvicina l'uomo al mondo animale. Ciò significa che il meglio di sé l'uomo lo dà quando si affida all'istinto, ai sensi, al rapporto diretto, personale, con le cose, con l'ambiente, senza mediazioni artificiose di alcun genere. Di qui il rifiuto dei linguaggi simbolici, delle astrazioni, delle misurazioni matematiche e persino delle rappresentazioni artistiche.
Zerzan non rifiuta soltanto - come tutti gli anarchici - l'organizzazione statuale (che implica gerarchia e burocrazia) e le concezioni religiose o metafisiche dell'esistenza, ma anche tutto quanto ha caratterizzato il sorgere della civiltà, ivi inclusa l'agricoltura e la domesticazione degli animali. In questo sembra essere particolarmente radicale, salvo poi contraddirsi quando decide di scrivere libri su libri, nei quali, peraltro, esprime sempre gli stessi concetti.
L'errore di fondo, nella sua impostazione generale dell'alternativa che propone, sta proprio nel non rendersi conto che l'essere umano non è esattamente un "ente di natura". L'essere umano rappresenta la natura che ha preso consapevolezza di sé. Sotto questo aspetto è impossibile paragonarlo strettamente agli animali. Nell'essere umano vi è qualcosa che in nessun animale si può riscontrare: è la libertà di coscienza. Per tutto il resto si può parlare di differenze di forme, di grado, d'intensità, soprattutto in relazione all'uso dei sensi, dell'intelligenza, del linguaggio, dell'affettività, ecc.
Tuttavia, quando l'uomo esercita la libertà di coscienza, tutte le differenze di tipo quantitativo si trasformano immediatamente in differenze di tipo qualitativo e diventano abissali. Se si accetta l'idea che, in nome della libertà di coscienza, le differenze tra mondo umano e mondo naturale possono diventare incolmabili, non è più possibile affidare alla sola natura il compito esclusivo di decidere quale sia il criterio oggettivo per stabilire quando un'azione umana è naturale. L'unico criterio possibile può essere stabilito, in ultima istanza, soltanto dallo stesso essere umano. Al massimo si può aggiungere: in maniera conforme alle esigenze riproduttive della natura.
Detto altrimenti: la capacità autonoma che l'uomo ha di gestire l'ambiente non può porsi in un'insanabile contrasto con le esigenze della natura, ma non può neppure lasciarsi determinare completamente da queste esigenze. La natura infatti è un ambiente dal quale noi non possiamo prescindere, e non tanto perché ci precede nel tempo, quanto perché essa è parte organica dell'essere umano. Ci è strutturale fin nel più profondo di noi stessi. Ma questo non significa che si sia costretti a fare ciò che è stato da essa prestabilito. In maniera aprioristica (cioè indipendentemente da qualunque considerazione), all'uomo non si può rifiutare alcuna esperienza. Non esistono cose che in sé non si possono fare. Semplicemente l'uomo deve chiedersi, nel mentre decide di farle, se esse sono compatibili con le esigenze o le leggi della natura.
La natura può offrire un criterio oggettivo con cui stabilire se un'azione sia giusta o sbagliata, ma, in ultima istanza, è l'uomo che deve deciderlo, appunto perché è dotato di libertà di coscienza. L'uomo è tenuto a prendere delle decisioni, mentre negli animali si tratta semplicemente di adattarsi alla mutevolezza delle circostanze. La loro intelligenza si basa unicamente sugli istinti e sull'uso delle percezioni sensibili. Non si pongono mai il problema di come modificare l'ambiente.
Negli esseri umani l'adattamento è sicuramente una componente fondamentale della loro personalità, ma in loro è presente anche il desiderio di modificare la realtà. L'essere umano sa di poterlo fare, quindi, in ultima istanza, egli deve rendere conto solo a se stesso di ciò che fa. Infatti è una sua specifica responsabilità (che non può appartenere a nessun altro) se dalle sue azioni si ricavano conseguenze dannose per l'ambiente.
Tutto questo per dire che porre la nascita delle civiltà, cioè l'inizio dell'involuzione dell'umanità, in un periodo in cui l'essere umano scopriva l'agricoltura e l'allevamento, è sbagliato. Opporre i cacciatori-raccoglitori agli agricoltori e allevatori non ha alcun senso se l'opposizione viene presa in sé e per sé. Anche perché gli stessi cacciatori potrebbero essere visti in opposizione ai raccoglitori.
L'atto della "produzione" è connaturato all'uomo e, se vogliamo, alla stessa natura. Non si può demonizzarlo solo perché, ad un certo punto della storia umana, esso ha comportato la devastazione dell'ambiente e la creazione di rapporti sociali innaturali. L'uomo deve semplicemente capire quando la sua "produzione" entra in conflitto con se stesso e con le esigenze riproduttive della natura.
Negare all'uomo il diritto alla "produzione" significa ridurlo automaticamente al livello dell'animale. La genuinità o autenticità della natura umana non sta tanto nel mantenersi integra, così com'era ai primordi dell'umanità, secondo le leggi di natura, che pur hanno indubbiamente un carattere di universalità e di necessità, ma sta nello svilupparsi rispettando le condizioni della propria umanità, che non possono certo essere contraddittorie con le leggi della natura. La coscienza umana ha l'obbligo di conformarsi alle leggi di natura, ma ha pure il privilegio di sentirsi superiore a queste stesse leggi, in quanto appunto ne rappresenta il livello di autoconsapevolezza.
Là dove c'è sviluppo o progresso nella consapevolezza di sé, non può mancare la memoria, altra fondamentale facoltà umana, la cui utilità è però recisamente negata da Zerzan. Egli infatti, come se vivesse in un mondo animale, accetta solo il presente, senza rendersi conto che, se esistesse solo il presente, il pensiero sarebbe poverissimo, avendo una memoria molto corta. Tutto sarebbe funzionale alla soddisfazione di bisogni immediati, irriflessi. Di nuovo ricadremmo nell'istintività animalesca, la cui memoria assomiglia alla RAM dei computer, la quale serve, in maniera provvisoria, per far funzionare al meglio il sistema operativo e i vari programmi, e di cui noi ci lamentiamo sempre, perché sembra non bastare mai, soprattutto quando si vogliono usare più programmi contemporaneamente.
La memoria degli animali è in funzione delle percezioni sensoriali che si attivano in un dato momento. Non è una memoria su cui si possono fare dei ragionamenti in assenza di un determinato contesto spazio-temporale. Argo, il cane di Ulisse, che lo riconobbe dopo vent'anni di assenza e che, al rivederlo, per l'emozione morì, aveva conservato, in un angolo remoto della sua memoria, il ricordo percettivo del suo padrone, ma per vent'anni questo ricordo non l'aveva affatto usato, semplicemente perché non ne avvertiva il bisogno. Ecco perché la differenza tra essere umano e animale è abissale. Anche Penelope non vedeva Ulisse da un ventennio, ma la sua ansia, la sua angoscia, il suo struggimento interiore erano di ben altra natura. Semmai si potrebbe discutere se Ulisse provasse gli stessi sentimenti della moglie, preso com'era ad affermare il proprio egocentrismo guerrafondaio, nemico mortale dei Troiani e sprezzante di tutte le tradizioni pre-schiavistiche.
L'analisi di Zerzan è superficiale anche per questo motivo: tutto quello che nega (agricoltura, allevamento, linguaggio, simboli, tempo, arte, religione, numero, proprietà privata, divisione del lavoro, ecc.) non viene da lui differenziato nel suo sviluppo storico. Tutto viene infilato in un unico sacco, come se ogni singola cosa si fosse sviluppata contemporaneamente alle altre. E inevitabilmente le rende intercambiabili, sovrapponibili, come se un elemento potesse essere causa immediata dell'altro e viceversa. Contrappone il paleolitico al neolitico senza rendersi conto che la civiltà schiavistica è nata soltanto con la scoperta dei metalli, cioè alla fine del neolitico.
Si legga ora questa frase, per rendersi conto di quanto sia difficoltosa l'analisi storica di Zerzan: "solo con l'emergere della ricchezza sotto forma di granaglie immagazzinabili presero forma le divisioni in gradi della manodopera e delle classi sociali" (p. 25). In realtà non sarebbe stata possibile una produzione urbana finalizzata, in maniera precipua, all'accumulo di eccedenze in assenza di una determinata stratificazione sociale. In ambito urbano la raccolta delle eccedenze non apparteneva mai ai produttori, bensì alle autorità, siano esse religiose o civili.
La civiltà non nasce con l'eccedenza, poiché è del tutto naturale pensare a una scorta di viveri da utilizzare nei momenti di magra, altrimenti dovremmo dire che la cicala è più saggia della formica. La civiltà nasce quando questa scorta viene gestita da chi non l'ha prodotta, soprattutto con intenzioni minacciose o ricattatorie nei confronti dei produttori, al fine di aumentare il proprio potere; il tutto avvolto in giustificazioni ideologiche (per lo più mistiche) di cui il potere si serve per autolegittimarsi. Atteggiamenti di questo genere si riscontrano all'interno di contesti urbanizzati, cioè là dove è possibile costruire i palazzi o i templi del potere.
La cultura cattolica ha portato Zerzan a credere che l'unico momento felice dell'uomo sia stato quello edenico, cioè quando viveva come raccoglitore (non certo però come cacciatore!) all'interno delle foreste, senza conoscere ancora la fatica del lavoro. Ora, indubbiamente la fuoriuscita dalle foreste e l'accesso alle savane deve aver reso la vita più difficile (non foss'altro perché - questa volta sì! - il raccoglitore doveva diventare anche cacciatore), ma non si può far coincidere l'inizio della proprietà privata o quello dell'agricoltura con la rinuncia (forzata o voluta) alla vita arboricola. Prima che il cacciatore avvertisse il raccoglitore come un rivale; prima che il cacciatore si trasformasse in allevatore e il raccoglitore in agricoltore; prima che allevatori e agricoltori cominciassero a odiarsi spassionatamente per motivi di proprietà, devono essere passate varie migliaia di anni. Non si può demonizzare l'agricoltura in sé.
Se per questo non si può neppure considerare la caccia meno "violenta" dell'agricoltura. Finché si cacciano insetti o animali acquatici, il cui cervello non è particolarmente sviluppato, si può anche pensare di non compiere alcuna violenza, ma quando si cominciano a cacciare dei mammiferi, l'uomo non può non chiedersi se non sarebbe il caso di cercare delle alternative. Gli indiani del Nord America quando cacciavano i bisonti provavano sensi di colpa, certamente superiori alle tribù che praticavano l'agricoltura, anche se non avrebbero mai accettato l'idea di ferire madre natura, cioè la terra, con un aratro.
La vita in sé del cacciatore non è più "naturale" di quella dell'agricoltore. L'unica vita davvero naturale è stata quella del raccoglitore di frutti selvatici prodotti dalla natura. L'uomo infatti può servirsi degli animali per il proprio nutrimento, senza bisogno di ucciderli (p. es. il latte dei bovini, il miele delle api, le uova degli uccelli, ecc.), ma quando arriva al punto da ritenere necessario, per la propria sopravvivenza, uccidere taluni animali, non può non arrivare a chiedersi se non sarebbe meglio diventare agricoltori. A meno che non si voglia sostenere il diritto di cibarsi di un animale soltanto quando è alla fine naturale dei suoi giorni.
La caccia, come sistema di vita, può essere nata solo per necessità, vivendo in ambienti dove la raccolta dei frutti spontanei della terra era particolarmente difficile; ed è nata osservando che taluni animali si cibavano di altri animali. È difficile comunque pensare che, a parità di condizioni, potendo scegliere tranquillamente tra caccia e agricoltura, l'uomo avrebbe preferito uccidere. È evidente che se per migliaia di anni egli è stato cacciatore, significa che per lui quella era l'unica vera chance che aveva per sopravvivere con relativa sicurezza. Nelle civiltà schiavistiche l'uccisione di taluni animali, a scopi religiosi, era così importante che veniva considerata obbligatoria, a testimonianza che questo rito era il massimo possibile da poter offrire a una divinità, cioè si esercitava una violenza sull'animale sperando di non riceverla da parte dei propri simili, sperando cioè di essere protetti da parte di qualche dio.
Il fatto che l'agricoltura non sia nata in concomitanza con la caccia probabilmente dipese da circostanze contingenti e involontarie. L'agricoltura presuppone una certa abilità, una buona dose di conoscenze della natura, di osservazione diretta e costante di taluni fenomeni e quindi di una presenza sufficientemente stabile in un determinato territorio. È facile pensare che l'agricoltura sia emersa per venire incontro alle difficoltà della caccia. In ogni caso la nascita dell'agricoltura non puòdi per sé coincidere con la nascita della proprietà privata. Quando le due cose marciano insieme si è già in presenza delle prime civiltà fluviali, sorte là dove i territori erano impervi a causa delle periodiche esondazioni dei fiumi, le cui acque, per renderle produttive sul piano agricolo, dovevano essere incanalate e bonificate, altrimenti restavano soltanto paludi infestate da insetti, assai poco vivibili.
La civiltà schiavistica non è emersa intorno al villaggio anatolico di Çatal Hüyük o alla città di Gerico, di 9-10.000 anni fa: quelle sono state eccezioni che non hanno fatto testo. Le civiltà schiavistiche vere e proprie sono nate nei luoghi più impervi del pianeta, com'era naturale che fosse, e quindi circa 6.000 anni fa. Inizialmente l'agricoltura, previa bonifica delle paludi e canalizzazione delle acque per l'irrigazione, non ha affatto devastato l'ambiente, ma anzi l'ha migliorato. Le devastazioni sono venute successivamente, quando il potere istituzionale e le classi proprietarie non si accontentavano più di eccedenze minime. Caino non uccide il pastore Abele perché era agricoltore, ma perché si era imposta la proprietà privata; e il mito di Romolo e Remo va spiegato nello stesso modo.
Se si sostiene che "l'agricoltura emerse simultaneamente ai concetti di tempo, linguaggio, numero e arte", senza precisare a quale contesto agricolo ci si riferisce, si esprime soltanto un pensiero astratto, che storicamente non vuol dir nulla. Una simultaneità del genere è infatti tipica delle civiltà fluviali di 6.000 anni fa. Zerzan parla continuamente di un'agricoltura di 10.000 anni fa, ma a quel tempo non esisteva ancora la proprietà privata, e quindi non poteva esistere, p. es., il numero.
Qui non si vuole contestare il fatto che l'agricoltura delle civiltà fluviali, fondamentalmente basate sulla proprietà privata o statalizzata, comportasse necessariamente un modo diverso, alienato o illusorio, di vivere il tempo, l'arte, il numero, ecc. Qui si vuole semplicemente precisare che tali modi alienati o illusori di vivere certe espressioni dell'intelligenza umana erano determinati non tanto dall'agricoltura in sé quanto piuttosto dalla presenza della proprietà privata. Cioè a partire dal momento in cui si era soltanto raccoglitori di frutti spontanei della foresta sino al momento in cui si è diventati agricoltori coatti, deve essere trascorso un periodo abbastanza lungo, in cui qualunque attività produttiva, in assenza di proprietà privata, veniva tranquillamente tollerata.
Dire che l'agricoltura, in sé, è "l'atto di nascita della produzione", senza specificare a quale tipo di agricoltura ci si riferisce, è dire cosa senza senso. Tutte le attività umane sono "produttive", anche quando si raccolgono frutti spontanei della foresta: infatti si devono costruire dei rifugi, ci si deve proteggere da taluni animali, si è in competizione con loro per la raccolta del cibo, ci si deve chiedere quanto tempo occorra perché un determinato cibo si riproduca, se sia davvero commestibile, se possa essere associato ad altri cibi, quanto sia nutriente, e cose del genere.
Anche la caccia è una forma di "produzione di cibo". Il raccoglitore "produce" cibo sfruttando la riproduzione vegetale della natura, mentre il cacciatore sfrutta quella sessuale degli animali. Entrambi "producono" cibo nel senso che lo "trasformano". Tutte le cose, in natura, vanno trattate, manipolate, per essere facilmente consumate, digerite, metabolizzate. Si pensi solo all'importanza che ha avuto, ai fini dell'alimentazione, il fuoco. Persino alcuni animali devono preoccuparsi di questa lavorazione (p. es. le api). Se noi mangiassimo come mangia la stragrande maggioranza degli animali, cioè senza rielaborare il cibo che trova, probabilmente avremmo una vita molto più breve.
Quando il raccoglitore si trasforma in agricoltore e il cacciatore in allevatore si assiste soltanto a un'evoluzione nel modo di produrre: non si è ancora in presenza di un dramma, quello appunto della proprietà privata. L'agricoltore non fa che imitare la natura in maniera sistematica, secondo un certo ordine, una certa razionalità. Sono intelligenze diverse, quelle dell'agricoltore e del cacciatore, che non è possibile vedere in alternativa. Quanto meno Zerzan avrebbe dovuto porre una distinzione tra un'agricoltura finalizzata all'autoconsumo e una invece interessata a produrre eccedenze da vendere sul mercato. Anche un'agricoltura intensiva e una estensiva non sono la stessa cosa. Una terra fertilizzata col concime organico e una invece col concime chimico sono completamente diverse. Inoltre non è affatto da escludere che il passaggio epocale non sia stato tanto quello da raccoglitore ad agricoltore quanto piuttosto quello da raccoglitore a cacciatore e, successivamente, quello da cacciatore ad agricoltore e allevatore. Lo stesso raccoglitore può essere diventato cacciatore stando dentro la foresta, anch'egli per necessità, e potrebbe avere iniziato la domesticazione di taluni animali continuando a restare nella foresta. Le transizioni da uno stile di vita a un altro sono state sicuramente molteplici.
L'allevatore è forse un cacciatore sedentario? No, perché le mandrie di bovini e ovini hanno bisogno di pascoli, per cui si deve per forza essere nomadi, perlomeno in momenti particolari dell'anno. L'allevatore è abituato a uccidere animali esattamente come il cacciatore: la differenza sta nel fatto che l'uno si affida alla riproduzione spontanea degli animali; l'altro invece la vuole controllare. Zerzan è assolutamente contrario alla domesticazione degli animali, ma non si rende conto che una vita da raccoglitore è possibile soltanto in una foresta ben fornita, mentre quella del cacciatore presuppone una selvaggina abbondante, che non è certo possibile senza foreste. Peraltro sia dentro che fuori dalle foreste si ha bisogno di un collettivo che faccia da supporto: non sono mai esistiti raccoglitori o cacciatori individuali e tanto meno agricoltori o allevatori individuali.
Quando scrive i suoi libri sembra che Zerzan non abbia nessuno dietro di sé, parla con entusiasmo di cose che non può aver mai visto, usa spesso i racconti degli antropologi, i quali però descrivono esperienze primitive lontanissime dalla sua, anche in senso geografico o temporale. Nel profilo biografico delineato dal curatore del libro è scritto che nella sua vita Zerzan ha fatto i lavori più svariati, per un certo periodo è stato un alcolista, prendeva il sussidio di disoccupazione, vendeva il proprio sangue per campare, e oggi vive in una casa occupata, fa il baby-sitter e talvolta il giardiniere, naturalmente leggendo e scrivendo molto. Una vita del genere cos'ha a che fare con quella dei cacciatori o dei raccoglitori? Non vuole essere "produttivo", né schiavo di nessuno, ma per vivere ha bisogno della "produzione" altrui. È questo il modo migliore di opporsi al capitalismo. È forse questo l'esempio migliore che ha da offrire l'anarco-primitivismo?
La mentalità anarchica è superficiale proprio per questa ragione: temendo l'abuso della libertà di coscienza, ne vorrebbe ridurre al minimo l'uso. Paradossalmente la mentalità anarchica viene a configurarsi, seppur in forma rovesciata, come quella autoritaria, che pur dice di voler combattere. Probabilmente Zerzan non ha le idee chiare proprio perché fa coincidere "civiltà" con "divisione del lavoro" e non anzitutto e soprattutto con "proprietà privata". Quest'ultima, per lui, è solo un fenomeno correlato all'altro, quando, in realtà la divisione del lavoro, di per sé, non implica affatto la presenza della proprietà privata. Infatti è la natura stessa che, per ottenere maggiore efficienza, s'incarica di suddividere ruoli e funzioni.
Può forse essere considerato un caso che la riproduzione della specie umana sia un compito più femminile che maschile? Perché tale funzione non è stata resa intercambiabile? Evidentemente la natura voleva attribuire al maschio compiti diversi, più legati alla forza muscolare, alla difesa del territorio, alla protezione della famiglia, alla caccia di animali pericolosi o di una certa stazza e cose del genere. Le donne non andavano a cacciare forse perché erano meno intelligenti o meno astute degli uomini? Non era certo per questo motivo. A parte il fatto che anche le donne cacciavano animali di piccole dimensioni e che, molto probabilmente, sono state proprio loro a "inventare" agricoltura e allevamento (per non parlare della tessitura, della fitoterapia, ecc.), chiediamoci: non è forse vero che se in una battuta di caccia morissero delle donne, il danno sarebbe di molto superiore per la riproduzione fisica della comunità? Comunque sia, è evidente che mentre gli uomini andavano a caccia, qualcuno doveva tenere sotto controllo il villaggio e la prole.
La divisione del lavoro è un fatto del tutto naturale; semmai è innaturale che, in nome di essa, si rivendichino dei diritti ingiustificati, cioè dei privilegi. Cosa, appunto, che gli uomini iniziarono a fare a partire dall'introduzione, nel collettivo di appartenenza, della proprietà privata. La divisione del lavoro esiste anche tra gli animali e nessuno la mette in discussione: basta vedere, ad es., come generalmente sono le leonesse in gruppo, e non i leoni, a cacciare.
L'analisi di Zerzan sull'agricoltura comincia a diventare interessante soltanto quando appare riferita espressamente alle civiltà schiavistiche. È vero che lui fa di tutta l'erba un fascio, paragonando, nell'essenza, le prime civiltà fluviali schiavistiche alle società neolitiche, ma è anche vero che se le sue osservazioni vengono applicate alle sole civiltà schiavistiche, acquistano molta della loro fondatezza, benché fino a un certo punto. Zerzan infatti a partire dal momento in cui è nata l'agricoltura ad oggi vede solo un continuo regresso, peraltro sempre più grave, in ragione della maggiore potenza distruttiva dei mezzi produttivi.
Egli è un estremista e, come tutti gli estremisti, non vede alcuna dialettica nel processo storico. Cioè non vede che dal tempo dello schiavismo ad oggi vi sono state anche delle lotte per ottenere una libertà sempre più significativa. Siccome per lui queste lotte non hanno conseguito un risultato definitivo, vanno considerate, in ultima istanza, del tutto inutili. Così ragiona l'estremista: o tutto o niente. Un ragionamento che si trova anche nel nichilista e in tutti gli individualisti irrazionalistici: non a caso egli apprezza molto Freud e Nietzsche.
Qual è invece il criterio per poter parlare di un'agricoltura ecologicamente sostenibile? Ne esistono almeno quattro.
Si deve produrre anzitutto per l'autoconsumo e non per il mercato. Le eccedenze che si ricavano non devono essere accumulate per essere vendute sul mercato. Naturalmente non si può impedire il baratto delle eccedenze.
La terra va concimata in maniera organica (p.es. col letame), non chimica. Non è indispensabile rovesciare in profondità le zolle, in quanto anche le erbacce tagliate (o soffocate dalla neve) costituiscono un concime.
La lotta integrata contro gli insetti nocivi (erbivori) va fatta con altri insetti (carnivori) o con l'uso di sostanze non chimiche.
Bisogna praticare la rotazione delle colture, diversificandole periodicamente. In particolare bisogna non adibire il terreno a una specifica monocultura ma a più colture, che tra loro stanno in un rapporto sinergico (di difesa reciproca), in quanto fisicamente prossime.
Forse l'agricoltura può non essere sufficiente per la sopravvivenza di una comunità; forse può aiutare anche la raccolta di frutti selvatici in boschi e foreste (se ancora ve ne sono); forse può risultare indispensabile praticare anche l'allevamento o la caccia: di sicuro sappiamo che senza agricoltura oggi la vita è impossibile.
Fonte: sinistrainrete.info
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