La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 14 marzo 2017

Kaczynski vs Tusk, è scontro tra le due destre polacche

di Daniele Stasi
Ventisette a uno, questo è il risultato con il quale la quasi totalità degli Stati membri dell’Unione Europea, a fronte del solo voto contrario della Polonia, ha riconfermato Donald Tusk Presidente del Consiglio Europeo fino al 2019. Solo due anni e mezzo or sono, in occasione della sua prima elezione a una delle massime cariche dell’UE, Donald Tusk aveva visto il suo arcirivale Jaroslaw Kaczynski avvicinarglisi in Parlamento e congratularsi con lui per il risultato raggiunto. Il bel gesto di Kaczynski sembrava mettere fine ai duri scontri del passato e annunciare finalmente l’inizio di un rapporto disteso tra le due anime della destra in Polonia che i deputati presenti nel Sejm non avevano mancato di sottolineare con un lungo applauso.
Le velate, e soprattutto infondate, accuse dei mesi precedenti da parte di Kaczynski a Tusk di essere corresponsabile della morte di suo fratello gemello nella tragedia di Smolensk del 2010 sembravano essere diventate, come le rozze parole proferite dall’eurodeputato Korwin-Mikke diversi giorni addietro sulle donne, parte di una retorica politica grossolana e populista cui il leader di una moderna forza di governo come Kaczynski sembrava alla fine aver rinunciato. 
Il voto di giovedì scorso nondimeno costituisce una nuova puntata dello scontro al vertice della politica polacca trapiantato forzatamente nel consesso europeo. Il motivo ufficiale del mancato sostegno da parte del governo di Diritto e Giustizia (PIS) alla rielezione del proprio connazionale sarebbe l’attivazione della procedura da parte dell’UE, prevista dall’articolo sette del Trattato Europeo, nei confronti della Polonia al fine di verificare se nel Paese sulla Vistola non via sia il rischio di violazione grave dei principi di libertà e democrazia. 
Dal 2004, data dell’ingresso della Polonia nell’Unione Europea, i rapporti tra Varsavia e Bruxelles non erano stati mai così tesi. Dalla vittoria di Diritto e Giustizia alle ultime politiche nel 2015 si assistito a un continuo braccio di ferro tra le istituzioni europee e il governo polacco. Il partito di Kaczynski e Szydlo e la stampa conservatrice ed euroscettica non avevano risparmiato accuse nei confronti di Tusk, Presidente del Consiglio Europeo in carica, definito “traditore”, “servo della Germania”, “amico di Putin” e via di questo passo. Il voto di giovedì scorso, dall’esito inequivocabile e verosimilmente inaspettato per la destra al potere in Polonia, ha costituito un duro colpo per Kaczynski e i suoi sodali che avevano provato a rimandare la votazione e cercare di minare, sostenendo un candidato diverso, il largo fronte su cui si basava la maggioranza a favore di Tusk. Lo spazio di manovra su cui Kaczynski, nel suo tentativo di impedire la rielezione di Tusk, nasceva da due considerazioni: l’elezione di Antonio Tajani alla carica di Presidente del Parlamento Europeo, per cui si poteva sostenere che una carica così importante come quella di Presidente del Consiglio europeo non potesse spettare a un altro membro del Partito Popolare, e la solidarietà dei Paesi del gruppo di Visegràd, in particolare dell’Ungheria. 
Il tiepido ottimismo e le valutazioni di Kaczynski si sono tuttavia rivelate del tutto ingiustificate ed erronee al momento della votazione, quando la delegazione polacca si è trovata completamente isolata e inascoltate sono rimaste le sue recriminazioni e proposte, anche da parte dell’amico Orban che non ha esitato a definire la manovra tentata da Kaczynski inconcepibile rispetto alle regole della diplomazia e delle consuetudini che contraddistinguono le relazioni tra gli Stati membri. La debacle da cui è stato travolto il governo polacco è figlia di una valutazione superficiale delle forze in campo, inammissibile per un politico di lungo corso come Kaczynski il quale avrebbe dovuto, per mettere sul serio a repentaglio la rielezione del suo connazionale, muovergli gravi e fondate accuse, quali ad esempio quella di corruzione, o critiche motivate rispetto allo svolgimento del mandato di Presidente del Consiglio Europeo che, guardando al risultato di giovedì, deve essere considerato per lo meno in armonia con le aspettative dell’insieme degli Stati membri dell’UE pressoché nella loro interezza.
Di fronte ad una sconfitta diplomatica tanto clamorosa, uno dei leaders dei partiti dell’opposizione nel Parlamento polacco, Ryszard Petru ha chiesto, nella seduta del Sejm di venerdì scorso, le immediate dimissioni del gabinetto presieduto da Beata Szydlo. Kaczynski e Diritto e Giustizia non solo hanno respinto la richiesta di dimissioni ma hanno affermato che quanto accaduto giovedì rappresenta una vittoria morale nei confronti di chi “non vuol fare gli interessi della nostra nazione, ma delle altre. Di chi ha danneggiato e danneggia la Polonia”. La bolsa retorica e le finte manifestazioni di giubilo nei confronti di una sconcertata Beata Szydlo al suo ritorno in patria, non rendono meno amara la sconfitta politica e meno sonora la bocciatura dell’atteggiamento provocatorio e palesemente scorretto da parte del governo polacco nelle sedi europee. 
Il discredito nei confronti delle istituzioni dell’UE da parte dei rappresentanti di Diritto e Giustizia, definite talvolta un potere simile a quello sovietico talaltra quali assemblee d’interessi contrastanti quelli degli Stati sovrani; l’ostentato spirito antieuropeo di cui simbolo è la scomparsa delle bandiere europee dagli uffici delle massime cariche dello Stato; il rifiuto di accogliere i profughi secondo le quote concordate nei consessi internazionali e, soprattutto, l’ambizione da parte di Kaczynski di diventare, come in Polonia, l’uomo, che avvalendosi di una sorta di liberum veto fuori tempo massimo, vuole dettare in base al proprio arbitrio le regole del gioco per tutti gli Stati membri, hanno consolidato lo stereotipo che vuole la Polonia comportarsi, per riportare un’immagine popolare, come la fidanzata al primo incontro a casa dei suoceri: invitata a pranzo, vuole decidere il menu, il colore della tovaglia, i posti a tavola, i temi su cui intrattenersi e avere sempre l’ultima parola. 
Non solo l’Europa, ma molti polacchi oggi si contrappongono a un atteggiamento arrogante, dettato da un evidente complesso di inferiorità più che da un reale, fondato calcolo politico da parte di Kaczynski e il presidente della repubblica Duda che giovedì sera ha inviato un messaggio a Tusk nel quale si è congratulato per “avere ottenuto il sostegno della maggioranza degli Stati membri nella sua rielezione”. 
In un sondaggio delle ultime ore il 79% dei polacchi ritiene che la Polonia debba far parte del gruppo di testa dell’UE. Il 63% è soddisfatto della presenza della Polonia nell’organizzazione sovranazionale europea. Donald Tusk è la speranza di questa Polonia. Il politico di Danzica, passato nel corso del suo lungo apprendistato parlamentare e politico da un ruolo marginale, se non addirittura subalterno, nei confronti della classe politica di Varsavia a ruoli di assoluto prestigio, quale quelli di premier prima e di Presidente del Consiglio dell’Unione oggi, è consapevole, almeno quanto la maggioranza dei suoi connazionali, che l’Unione Europea costituisce per la Polonia l’occasione più importante nella sua travagliata storia, non solo per gli ingenti fondi strutturali, pari fin ora a circa trecento miliardi di euro per il quinquennio 2015-2020, ma anche, per usare parole sue, in ragione “dell’ulteriore salto di civiltà” che l’Unione può far compiere a quella che con generosità è considerata la sesta potenza del Continente. 
La Polonia, da Stato debole e periferico, è divenuta negli ultimi anni un attore fondamentale nell’attuale contesto geopolitico. Contro la speranza di Tusk e della maggior parte dei polacchi Jaroslaw Kaczynski ha voluto scatenare una dura battaglia che lo ha visto malamente soccombere. Avrebbe desiderato, come ha detto un parlamentare svedese: “Far tornare Tusk in Polonia su un asino malandato invece che sul destriero bianco sul quale probabilmente si ripresenterà”. Nel voto di giovedì la posta in gioco era la definizione del ruolo dell’attuale governo polacco nello scacchiere europeo e i rapporti di forza in vista delle prossime elezioni presidenziali e politiche nel Paese sulla Vistola, rispetto alle quali Tusk rappresenta una risorsa di indiscutibile valore e oramai dal consolidato prestigio internazionale. L’oggetto dello scontro per la destra al governo era, a conferma del sostanziale disprezzo per l’Unione, i suoi principi e i suoi valori, squisitamente di politica interna.
Nell’Europa a due velocità di cui si sta parlando a Strasburgo in queste ore si gioca anche il prossimo futuro della Polonia. Se l’Unione continuerà a essere considerata dalla maggioranza dei polacchi la chance per chiudere con il proprio passato postcomunista e sedersi nello scompartimento di prima classe delle potenze europee, la svolta filoccidentale ed europeista, frenata temporaneamente dal risultato delle ultime elezioni presidenziali e dalla vittoria di Diritto e Giustizia, riperderà vigore e consentirà ai Paesi europei di avere ai propri confini orientali un partner affidabile, che sta compiendo passi da gigante dal punto di vista economico e che cerca una propria identità sul difficile terreno della democrazia e dell’affermazione delle libertà e dei diritti civili. La sfida tra i duellanti Kaczynski e Tusk è tutt’altro che conclusa. Essa rappresenta le grandi scelte che la nazione polacca si trova a dover compiere tra il suo passato di nazione prostrata dai duri rovesci della storia e il possibile futuro di potenza europea. Tra il passato e il futuro della Polonia un esile filo, tenuto in mano da un’Europa mai così debole. 

Fonte: MicroMega online 

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