La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 14 marzo 2017

La “cecità ” dei capitalisti e lo Stato “garante” dell’economia

di Sergio Ferrari
Nel libro “Il Capitalismo e lo Stato – Crisi e trasformazione delle strutture economiche” [1] Paolo Leon percorre la storia dell’economia dalla prima grande crisi degli anni ’30 sino ai giorni nostri, per far luce sulle logiche che determinano i comportamenti dei capitalisti e dello Stato all’interno del sistema capitalistico. La sua ricostruzione non parte da assunti precostituiti, ma è basata sull’analisi delle funzioni ricoperte dagli attori in questione nelle particolari situazioni economiche che in tale sistema si sono andate storicamente configurando. Appare subito evidente che si tratta di un approccio del tutto opposto rispetto alle posizioni correnti di marca neoliberista, che guardano al ruolo ed al comportamento dei medesimi attori in termini di ipotesi pregiudiziali, del tutto indimostrate e indimostrabili, nonché ampiamente smentite dai fatti ma che, purtuttavia, continuano ad andare per la maggiore.
Il perché questa contraddizione tra posizioni neoliberiste e smentite della realtà dei fatti sia andata oltre il lecito – almeno negli ultimi decenni – deve essere rinvenuto nella logica dei rapporti tra gli attori del sistema capitalistico, che non sono una costante, ma che traducono il quadro delle relazioni che si determina di volta in volta, e che nel caso in specie trova riscontro nella preminenza che i capitalisti hanno assunto rispetto allo Stato nella sfera delle decisioni politiche.
Ma il fatto che si produca uno squilibrio di questo tipo non è privo di conseguenze, poiché si riduce la capacità dello Stato di espletare quello che è il suo ruolo di “garante” degli andamenti macroeconomici, essendo questi per definizione al di fuori della portata della capacità del capitalista, che si esplica, invece, sui livelli microeconomici. D’altra parte la somma di decisioni prese su base microeconomica non necessariamente si risolve a livello macro in risposte coerenti, così che gli esiti positivi derivanti da scelte individuali possono dare luogo a risultati negativi a livello macroeconomico. Il singolo – sottolinea Leon – non ha la possibilità di conoscere gli effetti delle proprie azioni sull’economia nel suo complesso, mentre “lo Stato può, se il sistema politico glielo permette, conoscere gli effetti macroeconomici delle proprie scelte e di quelle dei capitalisti; può sbagliare, ma possiede gli strumenti per correggersi.” Per questo il prodursi di crisi e di squilibri più o meno intensi, alle volte anche molto gravi come nella situazione attuale, non è affatto il prodotto di circostanze eccezionali. Peraltro, il contrasto tra livello microeconomico e livello macroeconomico delle decisioni si presenta in tempi e modi storicamente specifici, e le soluzioni alle situazioni di crisi che possono scaturirne assumono talvolta connotati paradossali.
Ad esempio, il capitalista in casi particolari può essere indotto – essendo peraltro nota la sua flessibilità politica – a chiedere di essere salvato dai propri errori proprio da quell’attore – lo Stato – che nella sua visione dovrebbe essere per definizione ridotto al minimo.
Leon percorre così tutta una serie di situazioni dove si evidenziano non solo i tratti dei comportamenti dei diversi attori, ma anche e principalmente l’impossibilità che dalla somma delle decisioni individuali si possa trarre alcunché sui risultati che si esplicano a livello macroeconomico. E ci ricorda come già Keynes aveva indicato la necessità di un intervento dello Stato con investimenti pubblici – e di un coordinamento monetario a livello internazionale – allorquando lo sviluppo avesse segnalato momenti di difficoltà o peggio. I successivi ampliamenti dei mercati internazionali e l’emergere di contesti competitivi sempre più complessi, sono stati vissuti invece dai liberisti come opportunità per la degenerazione dell’economia finanziaria attraverso lo scambio profittevole di pezzi di carta con altri pezzi di carta. Nel contempo hanno ridotto la capacità di sviluppo e di creazione di occupazione nei paesi cosiddetti avanzati, hanno ridotto nel presente e ancor più in prospettiva lo stato sociale, hanno messo sul mercato beni ambientali e culturali essenziali e, come effetto conclusivo di quella presunta libera manifestazione delle libertà individuali, hanno fortemente peggiorato la distribuzione del reddito.
La terapia per la grave crisi che ne è conseguita potrebbe essere ancora quella proposta da Keynes, compresa la creazione della moneta globale, fatti salvi naturalmente gli aggiornamenti richiesti dal mutato quadro storico. E la precondizione dovrebbe essere che le varie assunzioni di marca liberista – tuttora preminenti in molti luoghi decisionali – che pretendono di intervenire nell’attuale crisi con i loro correttivi, si confrontassero con questa trattazione di Leon per contrapporre ragionamenti contrari ma altrettanto elaborati e dimostrati. Sino ad ora questo confronto è stato accuratamente evitato dalla “cultura” liberista, ma la dimensione dell’attuale crisi offre ormai scarsi margini temporali per situazioni dialettiche. E’ in ogni caso opportuno seguire le riflessioni conclusive di Leon che non danno ancora un’indicazione puntuale su quale potrebbe essere il nuovo equilibrio tra capitalisti e Stato, ma apre alcune ipotesi che sono altrettante porte aperte necessarie, se non si vuole attendere passivamente un nuovo squilibrio: “lo Stato deve mantenere una capacità di riconoscere le crisi prima che si manifestino e allora deve dotarsi di politiche economiche volte a questo scopo.”
Questo compito però deve essere affidato non solo a chi ha le competenze, ma anche a chi non crede nello Stato minimo. Le alternative hanno tutte un segno molto negativo.

[1] Paolo Leon, Il Capitalismo e lo Stato – Crisi e trasformazione delle strutture economiche ; Ed. Castelvecchi , gennaio 2014

Fonte: syloslabini.info

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