La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 12 marzo 2017

La guerra in Iraq è…

di Alessandro Graziadei
Il recente lancio dell’offensiva militare per riprendere Mosul va avanti lentamente con una “bonifica” quartiere per quartiere, tra civili, cecchini ed edifici minati dall’Isis. Dopo la riconquista nelle scorse settimane dell’aeroporto e del ponte della Libertà, il secondo tornato in mano ai governativi sui cinque che scavalcano il Tigri, i soldati di Bagdad, assistiti dai caccia della Coalizione a guida americana e dalle forze speciali occidentali in veste di “consiglieri”, hanno liberato la zona di Dawasa con i palazzi del governo, il Museo nazionale e la banca centrale, saccheggiata dai miliziani dell’Isis dopo la conquista della città nel 2014, come un edificio che era stato adibito a tribunale per l’applicazione della sharia dal sedicente Stato islamico.
Intanto, mentre nei giorni scorsi è stato denunciato dalla Croce Rossa Internazionale l’uso di armi chimiche (forse iprite), in città rimangono ancora circa 750 mila civili e altri 40 mila hanno lasciato Mosul e i villaggi limitrofi nelle scorse settimane.
Per il momento circa 30.000 persone vivono in campi a Hassansham e Khazer, a circa 35 chilometri a est di Mosul. Per Bilal Budair, responsabile del progetto di salute mentale di Medici Senza Frontiere (MSF) si tratta di profughi che “Hanno subito due anni di occupazione della loro città e dei loro villaggi da parte del cosiddetto Stato Islamico (IS) e attacchi aerei delle forze irachene che combattevano l’IS. Sono fuggiti per salvarsi la vita e adesso vivono in un campo sfollati”. In queste condizioni per la ong è indispensabile curare, oltre che le ferite fisiche, anche quelle psicologiche generate da questi mesi di guerra. “Le nostre équipe di salute mentale visitano circa 45 pazienti al giorno. Includono uno psichiatra, uno psicologo e un promotore della salute, lavoravano con i rifugiati siriani nel nord dell’Iraq dal 2013. Dal 2014 hanno iniziato ad assistere sfollati iracheni fuggiti da Mosul quando l’IS ha preso il controllo della regione. Nel 2016, con l’aumento degli sfollati nel governatorato di Ninewa e l’inizio della battaglia di Mosul a metà ottobre, le nostre équipe hanno visto pazienti in condizioni sempre peggiori”. 
Da novembre, infatti, i pazienti che consultano i servizi di supporto psicologico di MSF sono decisamente più gravi. Se dopo diverse settimane la maggior parte degli sfollati inizia ad abituarsi alla vita nei campi, altri finiscono col sviluppare disturbi più duraturi. “Pensano che le loro vite siano finite e vogliono morire. Per questo dobbiamo intervenire rapidamente e offrire loro le cure di uno psicologo o di uno psichiatra” ha fatto notare MSF. “Molti ci raccontano che sono stati testimoni di esecuzioni pubbliche al mercato e hanno visto cadaveri impiccati e lasciati per giorni sui ponti sopra il fiume. Morti procurate per decapitazione, lapidazioni, torture e punizioni fisiche, una violenza tale da lasciare molte persone profondamente traumatizzate”. Quasi tutti sono stati testimoni oculari dei combattimenti nei propri villaggi e nei quartieri di Mosul e hanno visto morire amici e parenti. “Una donna è arrivata da noi con il figlio di 10 anni - ha raccontato Budair - La figlia di una sua amica è morta quando un colpo di mortaio ha colpito la loro casa. Lei e suo figlio hanno visto il cadavere della bambina, erano amici”. In un altro caso "un genitore è stato costretto da alcuni miliziani armati dell’IS ad uccidere il proprio figlio perché aveva detto una parolaccia". Per molte persone le conseguenze di tutti questi traumi sono depressione grave, ansia, panico, stress acuto, disturbi del sonno e disordini da stress post-traumatico. 
Se MSF a Mosul è l’unica organizzazione a fornire anche cure psichiatriche, nel Kurdistan iracheno la Jiyan Foundation for Human Rights ha offerto negli ultimi anni a più di 13.000 profughi interni e siriani fuggiti dalla guerra un sostegno medico, psicologico e sociale. Molti sono vittime di violenze a sfondo religioso, della tratta di schiavi o sono passati ad anni di violazioni dei diritti umani. Particolarmente grave è la situazione degli Yezidi e dei Cristiani, minoranze sopravvissute a mirate campagne di persecuzione fin dal tempo del regime di Saddam Hussein. “Dovete sapere che quello che fate per noi a Halabja è davvero unico. Soffriamo da più di vent’anni e voi siete i primi che ci aiutano a mitigare il dolore. Prego per voi ogni giorno” ha raccontato un superstite agli attacchi con gas nervini al fondatore e presidente della Jiyan Foundation Salah Ahmad, un terapeuta per l’infanzia e l’adolescenza formatosi in Germania. Negli anni ‘80 Ahmad ha dovuto a sua volta fuggire dall’Iraq, ma nel 2005, alla caduta del regime di Saddam Hussein, è tornato nella sua città natale Kirkuk nel Kurdistan iracheno, dove ha aperto il primo centro di cure in Iraq per le vittime di tortura e violenza di guerra e per questo nel 2015 è stato insignito dell’Ordine al merito della Repubblica Federale Tedesca. 
Nel 2016 l’Ufficio Affari di gabinetto della Provincia Autonoma di Bolzano ha finanziato un progetto della Jiyan Foundation per la formazione di 20 terapeuti post-trauma nel nord dell’Iraq. Lo scopo del progetto era quello di formare personale locale che potesse garantire l’assistenza a lungo termine nel Kurdistan iracheno. Grazie al progetto adesso ci sono 20 terapeuti che con l’art-therapy sostengono e aiutano persone traumatizzate dalla guerra e dalla violenza a ritrovare il proprio equilibrio psicologico ed emotivo. Oggi il sostegno psicologico è una delle componenti fondamentali degli interventi in contesti bellici e non dovrebbe interessare solo i civili. Il “Post traumatic stress disorder”, infatti, è una vera e propria patologia anche tra i soldati al rientro dai teatri di guerra. Negli Stati Uniti i militari che ne sono vittima oscillano, secondo le stime, tra il 20 e il 40% dei reduci. In Olanda e Norvegia attorno al 5%. Nel Regno Unito attorno al 3.5%. In Italia invece le Forze armate impegnate in teatri di guerra e “missioni di pace” ammettono l’esistenza di due al massimo tre casi all’anno, di fatto lo 0%. Sarà vero? 

Fonte: unimondo.org 

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