La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 16 agosto 2015

Mari italiani, lo stupro nascosto

di Carmie Gazzanni
Siamo a Castel Volturno, patria dei Casalesi e della cosiddetta “Terra dei Fuochi”. Ma anche di un mare fortemente inquinato, specie in prossimità della foce dei cosiddetti Regi Lagni, il reticolo di canali artificiali che, dopo aver attraversato gran parte della Campania, sfocia nel litorale casertano. Qui si registra oltre il doppio dei valori limite microbiologici previsti dalla normativa sulle acque di balneazione vigente in Italia. Peccato però che nessuno lo sappia, semplicemente perché qui non c’è alcun controllo da parte del ministero dell’Ambiente. E così, nonostante il mare inquinato, ci si può tranquillamente tuffare in acqua, sguazzando felici e spensierati.
Un paradosso, questo, che accomuna tante realtà italiane, secondo perlomeno quanto emerge dai dati raccolti daLegambiente che, con la campagna Goletta Verde, monitora ogni anno lo stato dei mari italiani, analizzando il carico batterico che arriva in mare, soprattutto attenzionando punti critici come foci di fiumi, canali o scarichi non depurati.
Esattamente quei punti che non controlla il ministero dell’Ambiente. E così, considerando tutta la Campania, scopriamo che dalle analisi condotte da Legambiente, su 30 punti monitorati lungo le coste regionali, 14 presentano un carico batterico oltre il consentito e per 13 di questi, come nel caso di Castel Volturno, si supera il doppio dei valori limite.
Insomma, un disastro. Un disastro che, ovviamente, costa e non poco. Specie per quanto riguarda gli agglomerati depurativi che, essendo assolutamente inefficienti, scaricano in mare di tutto. Basti questo: secondo i dati consultati da Linkiesta, su 151 agglomerati regionali, 108 risultano non conformi ai dettami della direttiva comunitaria sulla depurazione. Si era cercato di correre ai ripari, anche sfruttando i fondi europei. Ma niente da fare: era stato stimato e previsto un intervento di ben 214 milioni di euro per far fronte al problema depurativo, ma per ora sono state sbloccate solo 3 opere per circa 38 milioni. Il resto è, come spesso accade, tutto fermo per ragioni di cassa o per cavilli burocratici.
Dal Veneto alla Sicilia, da Nord a Sud, lo Stivale è immerso in un mare di rifiuti. Eppure, come detto, non si direbbe se leggessimo i dati del ministero dell’Ambientesulla balneazione e sulla qualità delle acque. Secondo l’ultimo rapporto, scrive il ministero, «si evidenzia un aumento delle acque di qualità eccellenti in Italia, con una percentuale pari all’87,2% sul totale delle acque di balneazione italiane, rispetto all’85,1% dell’anno precedente». Ma c’è di più: per le acque marine si passa da una percentuale di acque di balneazione di classe eccellente dell’86,3% nel 2012 ad una dell’88,5% nel 2013. Insomma, un successone quest’anno. Tanto che, sempre stando ai dati ufficiali, le acque di balneazione di qualità scarsa rappresentano una percentuale solo del 2,5% sul totale nazionale (più bassa di altri Stati europei come la Francia, 3%, e la Spagna, 3,3%). Peccato però che i controlli ministeriali e regionali non siano così granitici, semplicemente per il fatto che, come detto, scarichi, foci e sbocchi di canali non vengono minimamente analizzati.
E allora ecco che, mentre dal ministero guidato daGian Luca Galletti sono certi dell’ottima qualità delle acque di balneazione,l’Italia accumula multe europee proprio per il grave deficit del sistema depurativo. Siamo, oggi, a quota tre. Nell’ultimo anno, infatti, si è aperta la terza procedura d’infrazione (la numero 2014/2059), per il mancato rispetto della direttiva europea 91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue urbane. Scioccante il parere motivato del 26 marzo 2015 secondo cui nel nostro Paese vige «una situazione estremamente preoccupante di non conformità generalizzata e persistente». C’è da stupirsi? Purtroppo, come detto, no. Prima dell’avvio di questa procedura d’infrazione, il nostro Paese aveva già ricevuto due sentenze di condanna proprio per il mancato adempimento della direttiva 91/271/CE. L’ultima sentenza di condanna (relativa a una procedura aperta nel 2009) è stata emessa il 10 aprile 2014 e riguarda decine di agglomerati, dalla Sicilia alla Lombardia. Prima di questa lo Stato Italiano era già stato condannato con la sentenza del 19 luglio 2012 (per una procedura aperta addirittura nel 2004). Il danno, ovviamente, non è solo ambientale e sanitario, ma anche economico: stando alla simulazione fatta dall’unità di missione del governo “Italia Sicura”, le tre procedure potrebbero costare, a partire dal 2016 e fino al completamento degli interventi richiesti, qualcosa come 480 milioni di euro all’anno.


La tabella con le condanne e le procedure di infrazione europee contro l’Italia per deficit del sistema depurativo
Il dato è, dunque, decisamente preoccupante. Specie per alcune regioni dove si registrano picchi incredibili. Prendiamo laCalabria. Tra le tre procedure d’infrazionesono coinvolti ben 148 agglomerati urbani su un totale regionale di 239. In altre parole, oltre il 60% dei sistemi depurativi calabresi non è in regola. Ed ecco allora che in mare finisce di tutto. Andiamo nella splendida provincia vibonese, con la perla di Tropea e il gioiello diCapo Vaticano. Ad un passo da questi tesori unici c’è Ricadi, altro posto che fino a poco tempo fa era popolato da turisti e che, invece,quest’anno sono letteralmente scappati per via di un mare schiumoso in cui si trova di tutto.
Stessa sorte anche per un’altra meta vibonese come Nicotera. Non è un caso, d’altronde, che il direttore del dipartimento Prevenzione dell’Azienda sanitaria provinciale di Vibo Valentia, Cesare Pasqua, abbia lanciato un allarme devastante: l’acqua di tutto il territorio vibonese non è potabile, appunto per le carenze del sistema depurativo. Una situazione al collasso, confermata anche dai controlli effettuati da Goletta Verde: 17 campionamenti sui 25 complessivi fatti lungo le coste calabresi, presentano una carica batterica elevata. Per 15 di questi punti, il giudizio è di «fortemente inquinato». Eppure si sarebbe potuto già da tempo fare qualcosa. Dei 480 milioni di euro all’anno stimati per le sanzioni europee, 38 riguarderebbero solo i ritardi calabresi. Già dopo la prima condanna del 2012, si era pensato di intervenire prontamente con un investimento, tra fondi comunitari, nazionali e regionali, di 243 milioni di euro. Peccato, però, che sono state sbloccate solo otto opere (per 104 milioni). Linkiesta ha chiesto conto direttamente alla Regione Calabria. «Mancano i progetti – ci dicono sconsolati – e dunque, pur disponendo di fondi, non possiamo utilizzarli per alcun investimento».
Non ci sono, però, solo Calabria e Campania. Andiamo al Nord. In Friuli, ad esempio, due degli otto campionamenti effettuati hanno fatto registrare una carica batterica maggiore del consentito: a Lignano Sabbiadoro e a Muggia, nel triestino. Due punti, ancora una volta, che non vengono campionati invece dalle autorità competenti, nonostante – specie nel caso di Lignano – parliamo di importanti centri turistici friuliani. Non va meglio in Veneto dove, nonostante una maggiore qualità delle acque, l’attenzione resta alta, specie per le politiche adottate dal presidente dell’autorità portuale di Venezia, Paolo Costa, che ancora consente il passaggio delle Grandi navi in città, nonostante le promesse di intervento fatte nei mesi scorsi. Un passaggio, quello delle Grandi navi, certamente suggestivo ma molto pericoloso, mette in guardia il Consorzio Obbligatorio degli Oli Usati (Coou): «quattro chili di olio usato (in pratica il cambio di un’auto, ndr) se versati in acqua inquinano una superficie grande come sei piscine olimpiche. A contatto con l’acqua, l’olio lubrificante usato crea una patina sottile che impedisce alla flora e alla fauna sottostante di respirare».
Scendendo giù per lo Stivale, però, la situazione peggiora. E proprio in quelle località che, visto il periodo turistico, dovrebbero essere maggiormente attenzionate. Prendiamo il litorale romagnolo nella zona di Rimini. Nessun problema stando ai dati ministeriali: secondo quanto risulta dal sito istituzionale che monitora le acque nazionali di balneazione, non c’è di che preoccuparsi, visto che la zona registra una qualità dell’acqua «eccellente». Eppure, secondo i dati di Legambiente visionati da Linkiesta, su quattro campionamenti nella zona riminese, in due casi i risultati parlano di acqua inquinata (in un caso, nella zona turistica di Igea Marina, il giudizio è di «fortemente inquinato»).
Ma continuiamo nella nostra discesa lungo l’Adriatico. Abruzzo e Marche, infatti, fanno registrare dati ancora più allarmanti. Nella regione marchigiana, su 12 campionamenti, solo in due casi i dati sono stati accettabili. E, per quanto riguarda i restanti dieci, in otto è stata registrata una carica batterica che doppia il limite consentito dalla legge. E, anche in questo caso, la responsabilità cadrebbe principalmente su un sistema depurativo inefficiente, tanto che, secondo i dati della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico regionale, la multa in arrivo per le Marche sarà di circa 11 milioni di euro pari a 7,1 euro per ogni cittadino. Una vera e propria tassa aggiuntiva. Né va meglio, come detto, in Abruzzo dove su nove campionamenti, due registrano dati accettabili, ma gli altri sette collezionano un giudizio di «fortemente inquinato». Dati preoccupanti specie per la provincia di Chieti, dove i prelievi effettuati nelle zone turistiche di Vasto, Ortona e Francavilla non lasciano spazio ad alcun sospiro di sollievo.
Continuiamo col nostro viaggio lungo le coste adriatiche ed eccoci in Puglia. Qui la situazione non è affatto diversa, specie nella zona del brindisino e del foggiano: in entrambi i casi, infatti, oltre la metà dei tratti campionati è risultato inquinato. Da Ostuni a Brindisi stessa, fino ad arrivare a Manfredonia. Ma non è finita. Perché dinanzi ad un mare schiumoso, le spiagge vengono pian piano erose da una cementificazione selvaggia che, negli ultimi 20 anni, ha totalmente cancellato ben 80 km di paesaggi costieri. In totale, parliamo di 454 chilometri (il 56%) di costa ormai urbanizzata e trasformata irrimediabilmente da interventi umani, legali e abusivi.
Esattamente come in Campania, seconda regione in Italia per la cementificazione selvaggia e illegale lungo la costa, con 388 infrazioni accertate (il 16,5% sul totale nazionale), 465 persone denunciate e 213 sequestri effettuati. Emblema di tale scempio, l’isola di Ischia. Qui, nonostante i soli 63mila abitanti, si contano oltre 600 immobili colpiti da ordine di demolizione, mentre sono circa 27mila le pratiche da esaminare dopo i tre condoni che, dall’85 al 2003, hanno permesso una simile devastazione.
Non va certamente meglio spostandoci sul litorale tirrenico. Prendiamo il Lazio. Dei 24 punti monitorati lungo le coste laziali da Goletta Verde, 15 presentano una carica batterica superiore ai limiti consentiti dalla legge. Nella provincia di Roma, addirittura, sono addirittura 10 i punti che hanno registrato un giudizio di «fortemente inquinato» (su 14 campionamenti). Stesso dicasi in aree del litorale latino come Gaeta, Formia o Minturno. Insomma, un disastro. Ma qui, nel Lazio, il vero problema, accanto a scarichi abusivi e, anche qui, a un deficit depurativo, è l’occupazione selvaggia da parte dei privati delle spiagge. Il tutto in barba alla legge regionale (n. 8/2015) secondo la quale ogni comune dovrà riservare una quota di spiaggia libera almeno del 50% dell’arenile di propria competenza. Un obbligo non rispettato da tutti. A cominciare dalla capitale, Roma, che lascia libero solo il 45% del litorale.
Né, risalendo, le cose migliorano. Lungo le coste liguri sono stati scovati 9 punti, rispetto ai 23 totali, che presentano cariche batteriche elevate. Per sette di questi arriva addirittura un giudizio di fortemente inquinato. Nel mirino finiscono ancora una volta foci di fiumi e canali, nei quali confluiscono evidentemente scarichi non depurati o scarichi illegali che non risparmiano nemmeno il territorio delle Cinque Terre, né il litorale genovese dove su 4 campionamenti, sono risultati inquinati i tratti della spiaggia dei Cavalinni a Rapallo e della foce del fiume Entella tra Chiavari e Lavagna. Una realtà che purtroppo, anche in questo caso, non sorprende dato che, secondo il governo, l’inadeguatezza del sistema depurativo costerà alla Liguria 18 milioni di euro all’anno a partire dall’anno prossimo.
Spostiamoci, infine, inSicilia. Qui la situazione è, se si vuole, ancora peggio: su 26 campionamenti eseguiti, 18 presentano una carica batterica elevata. Dati fortemente preoccupanti specie nell’agrigentino e nelsiracusano (qui nessun’analisi ha dato risultati positivi) e nel palermitano (su sei prelievi, soltanto uno ha registrato valori entro i limiti). Eppure, anche qui, non c’è da sorprendersi. Nella regione siciliana, la multa in arrivo, secondo le stime governative, sarà la più alta in assoluto: 185 milioni di euro, pari a 37 euro per ogni cittadino, a fronte della media nazionale di 8,1 euro. D’altronde tra agglomerati in infrazione o già condannati dall’Europa, in Sicilia se ne contano 244 (anche in questo caso, il numero più alto in assoluto).
Ed ora, avverte Legambiente, le cose potrebbero anche peggiorare. «A causa della scellerata politica ambientale ed energetica portata avanti dal governo italiano – dicono infatti dall’associazione – si stanno letteralmente svendendo i nostri mari, senza tenere in alcun conto le preoccupazioni e le opposizioni delle comunità locali». Non è un caso che l’associazione ambientalista ha simbolicamente consegnato la bandiera nera al premier Matteo Renzi, appunto per la deriva petrolifera assunta dal suo esecutivo. Specie se si prende in considerazione, appunto, il canale di Sicilia: qui sono oltre 12mila i chilometri quadrati messi sotto scacco di fatto dalle compagnie petrolifere, col beneplacito del governo Renzi. Ed ora le cose potrebbero anche peggiorare: secondo i dati raccolti ancora da Legambiente, solo nel basso e medio Adriatico, nel mar Ionio e nel Canale di Sicilia sono stati rilasciati 15 permessi di ricerca (5.424 kmq), 44 richieste avanzate dalle compagnie per la ricerca (26.060 kmq) e 8 per la prospezione (97.275 kmq), oltre le 5 richieste di concessione per l’estrazione di petrolio (558,7 kmq). Le lobby dell’oro nero ringraziano. Turisti e bagnanti un po’ meno.

Fonte: Linkiesta

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