La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 18 agosto 2015

Più scienziati, meno umanisti? Ma quelli che abbiamo li mandiamo via...


di Luigi Farrauto  
Sono stato molto colpito dal dibattito sulle carriere universitarie, se studiare ciò che si ama o seguire le indicazioni del mercato. Nel mio piccolo, da italiano da poco residente all’estero, mi pare che ancora una volta si discuta un problema senza centrarlo davvero. Accanirsi sulle scelte personali è così importante? Per quel che mi riguarda, io ho studiato ciò che amavo, e ho approfondito le mie passioni per riuscire a distinguermi in qualche modo. Ma in Italia questo essere ‘specializzati’, e dunque cercare di puntare diretti a occupare una fetta di mercato inesistente, non aiuta granché. Anzi. La mia esperienza – parziale e limitata, ma uguale a tantissime altre – mi dice l’opposto, che da noi il seguire un percorso specifico è solo uno scomodo intralcio. 
Ho studiato Graphic Design al Politecnico di Milano. Un corso di studi né scientifico né letterario, ma che apparentemente offre molti sbocchi, specie in un paese come l’Italia. Feltri approverebbe, forse. Ho dunque una laurea, e anche un dottorato, con un’esperienza di ricerca al MIT di Boston.
Sulla carta, curricularmente, molto forte si direbbe. Sono però diventato uno dei cosiddetti ‘iper specializzati’. Ho lavorato molto all’estero, perché solo lì questo era percepito come un valore e non un limite, e nella mia lunga ricerca di un lavoro in Italia ho incontrato parecchie frustrazioni: il sempreverde “non ci sono soldi”, seguito da “han tagliato i fondi”, l’ipocrita “meriti molto di più”, il sadico “ti dovremmo pagare troppo”, e persino il diabolico “dovresti togliere dal curriculum che hai un dottorato, sennò spaventi i datori di lavoro”. 
Questa è stata la realtà lavorativa che mi son trovato davanti, sia nel settore pubblico che in quello privato. Visto il mio cursus honorum, l’insegnamento mi pareva una strada credibile. Dopo vari anni a insegnare a contratto in diverse università italiane, nel 2013 è arrivato il concorso per l’abilitazione scientifica del Miur. Sapevo di non avere troppe speranze. Sapevo anche che allo stesso concorso avrebbero partecipato personaggi quotatissimi, con centinaia di pubblicazioni, in attesa da decenni di una cattedra e ben più meritevoli di me. E sapevo bene di non essere mai entrato nel circuito di relazioni e contesti che sottendono un posto in accademia. Ma ci ho provato. L’esito è stato più che scontato, negativo. 
Le motivazioni dei membri della commissione sono state però mortificanti. Erano argomentate accuratamente, persona per persona. Perché -seppur nella loro leggerezza, avranno giudicato migliaia di CV – parevano scritte con un generatore automatico di giudizi. Le mie erano, cito testualmente: “Curriculum complessivo limitato e insufficiente per una posizione di professore di seconda fascia”, “Complessivamente il CV non raggiunge quei parametri quali-quantitativi necessari, né risulta compiuto il percorso scientifico accademico”, e “Il curriculum non presenta elementi significativi”. Non capivo cosa volesse dire, pensavo di aver compiuto il percorso accademico con il dottorato. Mi sarei aspettato una “mancanza di pubblicazioni”, non certo questo. Allora mi domando se il problema della disoccupazione sia l’ennesima colpa di noi giovani “sognatori”, che ci ostiniamo a voler fare ciò che amiamo, se sia una perversa miopia del sistema, che non fa nulla per valorizzarci, o l’ostinazione di chi occupa le poltrone a rimanere seduti a vita. Mi domando se la crescita del nostro paese non dovrà necessariamente partire da una rivalutazione dell’università come fulcro della cultura e della crescita (scientifica o umanistica che sia), perché la futura classe dirigente ne possa cogliere l’importanza. Ma prima di cercare risposte, di elaborare il perché di tutti quei tagli o il perché l’Italia sia fanalino di coda nelle classifiche degli investimenti nell’istruzione, degli stipendi dei docenti, del numero di laureati e così via, da quel giorno ho deciso che la carriera universitaria non facesse per me e ho appeso la cattedra al chiodo, senza troppa sofferenza a dirla tutta. Ma mi è dispiaciuto, perché avrei voluto ‘restituire’ qualcosa al mio paese, in termini di istruzione. 
Eravamo in tanti nella stessa situazione, ma nel mal comune non c’era gaudio per nessuno. Così ho proseguito da solo, con le mie forze, ho tirato dritto continuando a fare ciò che amo, perché conosco l’importanza della passione. Sono uno dei tantissimi caduti nella trappola della partita Iva, quel sottobosco invisibile che si sviluppa nella crepa della precarietà, di cui nessuno parla mai però, e che si diffonde sempre di più. Altro che articolo 18, questioni contrattuali o statuto dei lavoratori. Chi ha la partita Iva per lo Stato quasi non esiste. Deve fare da sé. Parlo di giovani specializzati nei più diversi ambiti, costretti a improvvisarsi liberi professionisti solo perché qualunque altra strada contrattuale è blindata. In ogni ambito. E a guadagnarci sono solo i commercialisti. Ora, dieci anni dopo la mia laurea, vivo in Qatar, dove proprio per le mie competenze specifiche, il mio percorso formativo e la mia esperienza nel settore, sono stato assunto da una grande azienda, con una posizione importante e che mi valorizza parecchio. Mi gratifica. E la soddisfazione più grande è stato il chiudere la partita iva, anche se ha comportato lasciare il mio paese e tutti i miei affetti. Qui non sono circondato da persone che pontificano su argomenti che ignorano, sento addirittura discorsi del tipo: “sei tu l’esperto, io non metto bocca” e l’essere giovane non è certo una colpa. 
L’avere un dottorato mi ha addirittura dato accesso a uno stipendio maggiore. All’estero questo è “normale”. In Italia mi dicono di nasconderlo. La mia è la storia di un’emigrazione soft. Non mi sento un vero emigrato, tantomeno un cervello in fuga, voglio tornare in Italia al più presto, ma non nascondo che ho molta paura, paura di essermi scavato la fossa da solo, che la trappola dell’iper-specializzazione da noi non ripagherà, che sarò costretto a restare in giro per il mondo per sentirmi valorizzato, o semplicemente per lavorare. Sono sempre stato molto orgoglioso del mio paese. E, come tanti giovani come me, per anni ho inseguito l’illusione di poter contribuire a renderlo un posto migliore. Ma nel labirinto del Belpaese il filo d’Arianna è un volo di sola andata, il più lontano possibile dalla frontiera. Sono in molti a lasciare l’Italia, parecchi non tornano più. Punti di fuga per chi è privo di prospettive.

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