La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 18 novembre 2015

I confini? Sono stati innalzati per essere attraversati

di Paola Caridi e Lucia Sorbera
Non più un paese, ma una cultura. Non più l’Arabia Saudita, bensì la letteratura araba. Non più un criterio geopolitico, ma uno geoculturale. La decisione presa dal Salone Internazionale del Libro di Torino, lo scorso ottobre, rompe una tradizione consolidata negli anni: in ogni edizione, la più importante fiera del libro d’Italia (la seconda in Europa) sceglieva di concentrare l’attenzione su di un paese in particolare, in stretta collaborazione con le istituzioni, l’ambasciata, e laddove presente il ministero della cultura dello Stato indicato come ospite d’onore. La letteratura, dunque, veniva conchiusa nei limiti statuali, all’interno di confini ben delimitati.
6 ottobre 2015. A Sydney è scoccata la mezzanotte. Migliaia e migliaia di chilometri più a est, nell’entroterra agrigentino, a Sambuca di Sicilia, è invece pomeriggio. L’agenzia Ansa batte la notizia. “I vertici della Buchmesse, che nel 2016 non avrà un Paese ospite d’onore, hanno deciso così di passare da un criterio geopolitico ad un criterio geoculturale”.
Il lancio d’agenzia rispecchia in gran parte la lettera aperta che noi, Lucia Sorbera a Sydney e Paola Caridi in Sicilia, avevamo scritto appena qualche giorno prima, il 30 settembre, e pubblicato sul blog di Paola, invisiblearabs. Avevamo sfidato distanza e fuso orario, messo assieme le nostre idee grazie a uno sconfinamento virtuale, e nel giro di appena 48 ore eravamo riuscite a mobilitare circa duecento persone in tutto il mondo, dall’Italia all’Australia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti e il Medio Oriente.
A sostenere con entusiasmo il nostro appello, in un tam tam rapidissimo, si era infatti formato un gruppo di persone diversificato al proprio interno, composto di studiosi, attivisti e intellettuali di generazioni differenti, dislocati in paesi differenti, più o meno legati al mondo arabo. E a loro si erano uniti – elemento forse più significativo degli altri – coloro che rappresentano il pubblico più appropriato per eventi culturali di questo tipo: gli amanti della letteratura e gli appassionati di cultura, le cui professioni non hanno niente a che vedere con i mestieri dell’editoria e della scrittura.
Qualche nota a pie’ di pagina
L’antefatto risale a qualche mese prima, a maggio. Proprio alla conclusione del Salone del Libro di Torino edizione 2015. Gli organizzatori del Salone svelano il nome del paese ospite dell’edizione successiva: l’Arabia Saudita, appunto. Paola commenta subito sul suo blog la notizia, non senza una punta di ironia: “La vera notizia saranno gli scaffali dello stand (presumibilmente imponente) dell’Arabia Saudita, il paese ospite del prossimo Salone del Libro, edizione 2016. E cioè: ci saranno libri, su quegli scaffali? E quali tipi di libri? La domanda non è peregrina, visto che in Arabia Saudita vige la censura, soprattutto sulle opere d’arte”. Il commento circola ampiamente sui social media. La sua voce, però, rimane isolata e non coinvolge né accademici né gli opinionisti che vanno per la maggiore sulla stampa generalista.
Arriva l’estate, e le tragedie lungo le coste del Mediterraneo si susseguono, come una lunga catena di perle rosse. La situazione in Medio Oriente, già precaria, si deteriora ogni giorno di più: in particolare, l’operazione militare sferrata dall’Arabia Saudita contro lo Yemen si intensifica e, molto più a nord, la popolazione siriana è sottoposta ad attacchi provenienti dalle differenti forze in campo. A quattro anni dalle prime manifestazioni di piazza democratiche di Daraa del marzo 2011 e dalla repressione brutale a opera del regime di Damasco guidato da Bashar el Assad, la Siria è nel pieno di una guerra di tutti contro tutti, in cui le uniche vittime sono i civili. Daesh, il sedicente Stato Islamico continua a imperversare, mentre le operazioni militari in buona parte condotte da Stati Uniti e Russia stanno inasprendo una guerra per procura che ha come obiettivo l’egemonia geopolitica nella regione. A Gerusalemme, nel frattempo, una nuova intifada sta muovendo i primi passi, mentre in Egitto i più importanti attivisti che avevano guidato la Rivoluzione di piazza Tahrir rimangono in carcere, in esilio, oppure “graziati” in nome di una “democrazia militare” (Acconcia, 2014).
In un contesto così complesso e tragico, le preoccupazioni espresse da politici e amministratori locali sull’invito all’Arabia Saudita come paese ospite del Salone, espresse soprattutto nello scorso settembre, non hanno sorpreso più di tanto. La decisione di revocare l’invito non sembra, però, essere collegata al ruolo più che discutibile rivestito da Ryadh nelle questioni politiche e militari regionali. La revoca resa pubblica in maniera ufficiosa il 26 settembre da due membri del consiglio di amministrazione della Fondazione che gestisce il Salone, il sindaco di Torino Piero Fassino e il governatore della regione Piemonte Sergio Chiamparino, è apparsa semmai come una reazione alle continue violazioni dei diritti umani da parte del regime di Ryadh. La miccia è stata, in sostanza, accesa dalla campagna che le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani hanno lanciato a sostegno di Ali Mohammed Baqir al Nimr, il giovane saudita condannato a morte quando era ancora minorenne, all’età di 17 anni, per aver partecipato a una dimostrazione durante la timida rivolta scoppiata anche in Arabia Saudita nel 2011.
Cosa fare? Cosa proporre dopo la revoca dell’invito all’Arabia Saudita? L’idea è arrivata così, semplice. “Perché non invitare come paese-ospite la Letteratura Araba? Non un paese, ma una patria”, abbiamo chiesto nel nostro appello. “L’unica patria degli scrittori arabi, insomma, che non è piegata alle censure del regime di turno, e alle pressioni politiche e securitarie più o meno forti contro i singoli artisti. In un tempo così difficile e duro, in cui i paesi arabi arrivano sui teleschermi e nei giornali solo per le crisi, le guerre, le nefandezze, e la loro umanità dolente, il Salone del Libro si porrebbe in questo modo all’avanguardia nella cultura europea. Di fronte all’orrore e agli stereotipi, si può rispondere solo con la conoscenza e l’accoglienza”.
Come studiose della regione araba, la nostra prima preoccupazione è stata infatti che il nostro atteggiamento critico verso il regime saudita, così come verso altri regimi in Medio Oriente, sulla questione dei diritti umani e della democrazia, non si traducesse in una nuova chiusura. Nel mortificare e mettere sotto silenzio le voci arabe indipendenti, brillanti e creative. Non volevamo che il nostro appello potesse essere usato come un’arma culturale contro gli arabi e contro le nuove generazioni di arabo-italiani. Questo appello – è bene chiarirlo – si schiera con eguale peso contro due atteggiamenti: è contro la diffusione di stereotipi razzisti che vengono fecondati da visioni orientaliste e neo-orientaliste del mondo arabo; allo stesso tempo, è anche contro il soffocamento in corso delle voci arabe progressiste e democratiche. Sono proprio queste voci ad essere state messe a tacere due volte: sono state mortificate dai regimi autoritari arabi, che fanno ricorso con sempre maggiore veemenza alla repressione; e sono messe a tacere dall’indifferenza dell’Occidente, un Occidente che trascura e dunque rende invisibili le società civili arabe (Caridi, 2007).
Non volevamo, in sostanza, che la revoca dell’invito all’Arabia Saudita come paese ospite potesse trasformarsi in una opportunità negativa. L’ennesima occasione per promuovere l’idea orientalista dell’”arabo”, il cliché ossessivo di un uomo violento in groppa a un cammello che brandisce una scimitarra, immagine per nulla archiviata che – anzi – Hollywood ha perpetuato per decenni nella sua filmografia (McAlister, 2001). Abbiamo sentito, dunque, la responsabilità di “dire la verità al potere”, come scriveva Edward Said nel 1994.
Questa responsabilità ce la siamo assunta noi due, come scrittrici e accademiche che hanno speso così tanti anni in Medio Oriente. Ci sentiamo però, in questo caso, due all’interno di una diaspora sempre più numerosa di intellettuali italiani. Non è di conseguenza così sorprendente che il nostro appello a trascendere i confini nazionali abbia dato la stura a una discussione sul modo in cui guardare agli spazi non-istituzionali dove la letteratura viene prodotta, letta, analizzata. Abbiamo invitato una comunità più ampia di lettori, scrittori, artisti e intellettuali a esprimere le loro idee sui legami profondi tra cultura e politica. Il nostro appello, in fondo, è stato un nuovo modo di immaginare gli eventi culturali e di costruire reali scambi culturali oltre l’ambito-nazione.
Letteratura oltre i confini
Lo spostamento da un criterio geopolitico a un criterio geoculturale è senza dubbio tempestivo. Così come riteniamo che per il Salone Internazionale di Torino sia opportuno cominciare con la “letteratura araba” come primo tema, o per meglio dire come primo “argomento non-nazionale” assurto al rango di ospite d’onore. Nel mondo degli studiosi, la capacità delle istituzioni nazionali di affrontare le sfide della contemporaneità – migrazioni, guerre, cambiamenti climatici, povertà – è una questione ampiamente dibattuta. Ed è una questione che ha implicazioni molto profonde sul modo in cui interpretiamo le relazioni tra nazione e produzione culturale. Più in generale, ha implicazioni molto profonde sullo stesso concetto di “nazione”. Attraverso il nostro appello, in sostanza, abbiamo affermato che mentre le nazioni hanno bisogno della letteratura, la letteratura travalica e trascende i confini nazionali.
Un esempio semplice, banale quasi: la letteratura italiana è esistita ben prima che lo Stato italiano nascesse e, al giorno d’oggi, c’è un numero consistente di autori non-nazionali che stanno contribuendo a una sua nuova fioritura. I migranti italiani e i loro discendenti hanno influenzato la letteratura mondiale. E ora, nell’Italia del ventunesimo secolo, è la nuova generazione di scrittori italiani – come quella di Igiaba Scego e Amara Lakhous, per citare alcuni nomi – che sta dando nuovo vigore alla cultura italiana, producendo anche nuove narrazioni storiche e nuove visioni della letteratura italiana e delle sue relazioni con il mondo. La letteratura trascende, dunque, il canone nazionale, e in un tempo nel quale i confini rappresentano il problema, più che la soluzione alle crisi sociali e politiche, è importante mettere in risalto proprio le visioni e le narrazioni della storia che sono non-canoniche.
L’idea di travalicare il canone nazionale è estremamente pertinente quando si parla di cultura araba, nella misura in cui la lingua araba e la letteratura araba sono una vera e propria patria per gli intellettuali della dissidenza, dell’esilio e della migrazione. Come ha ben espresso l’autrice libanese Hanan al Sheykh: “Quando lasci il tuo paese diventi un nomade. Non appartieni mai del tutto al paese che hai adottato. Io non appartengo a questo posto, e allo stesso tempo non appartengo al Libano, e quindi io appartengo sia a questo posto sia all’altro”. Hanan al Sheykh va ben oltre: gli scrittori, “quando decidono di lasciare il loro ambiente, la loro cultura e il loro paese, creano un nuovo paese per se stessi. Ed è un paese che è nella loro scrittura. Questa è la mia stessa condizione: il mio paese è la mia scrittura, e così si sta bene in qualsiasi posto. Mi devo ritenere molto fortunata della mia condizione. Posso vivere dovunque” (in Palabra de Mujer, di Silvia Ponzoda, 2004). Certo, il concetto della scrittura come paese non è un tratto specifico solo del mondo arabo. Come Edward Said ci ricorda, è anche parte dell’esperienza europea (Said, 1984). Lo è specialmente del pensiero di Theodor Adorno, che è permeato dall’idea che la scrittura sia la casa per gli esuli.
Esilio, assenza, perdita, appartenenza sono inerenti alla condizione umana, e sono stati esplorati dagli scrittori e dagli intellettuali arabi in discussioni pubbliche su temi collegati, come le riflessioni nelle quali si è tracciato il legame tra la migrazione (così come espressa nell’idea della “doppia assenza” formulata da Abdelmalek Sayyad, 1999) e l’esilio politico. La visione di Edward Said rompe la dialettica tra nazionalismo ed esilio, e suggerisce di concepire l’esilio non come un privilegio, ma come un’alternativa alle istituzioni di massa che dominano la vita moderna. Nel suo lavoro artistico, un’altra palestinese, l’artista Mona Hatoum sviluppa ulteriormente il concetto del “mondo intero come una terra straniera” e descrive la condizione mentale dell’esule come di qualcuno che è costantemente nella condizione di un senzatetto: “Mi sono divertita a entrare e uscire da una cultura all’altra”, ha detto Mona Hatoum in Measures of Distance (1988). Come da una casa all’altra alla quale si appartiene solo in parte, nella sua funzione e non nella sua iconicità.
L’idea di Said, del movimento come una forma di piacere intellettuale, continua a essere significativa nel dispiegamento delle rivolte del 2011. La scrittrice egiziano-canadese May Telmissany lega l’interpretazione di Said alla nozione metaforica di nomadismo elaborata da Deleuze e Guattari (Deleuze e Guattari, 1980), per descrivere le azioni e le forme di appartenenza pubblica degli intellettuali transnazionali. Nell’elaborazione di May Telmissany, i cittadini nomadi sono gli intellettuali che sfidano il potere assoluto della maggioranza e sono in costante movimento attraverso i confini. E se necessario, i cittadini nomadi sono capaci anche di porsi contro il loro stesso gruppo.
In un intervento pubblico all’università di Sydney nell’aprile del 2015, May Telmissany si è pronunciata a favore di una riformulazione delle relazioni tra i cittadini e lo Stato-nazione. Suggerendo nuove formule per le idee di diaspora, migrazione ed esilio, la scrittrice ha delineato il concetto di una cittadinanza nomade come forma di resistenza. Per quanto ci riguarda, consideriamo il nomadismo di May Telmissany e il suo richiamo a trascendere i confini riflessioni molto utili per comprendere sia la sfera culturale araba dei nostri giorni, sia i modi in cui entra in relazione con le sfide globali della contemporaneità.
Il nostro appello, che mira a superare i confini nazionali per comprendere la storia della letteratura, è partito dalla ricerca di un terreno comune o, per meglio dire, usando le parole di Ahdaf Soueif, di una “mezzaterra… come un luogo d’incontro spazioso, con ampi viali che arrivano al ricco entroterra delle tradizioni” (Soueif, 2004). È una ricerca che permea la letteratura araba e che fa comprendere meglio la condizione umana. L’elemento transnazionale travalica, in sostanza, il nazionale ed è il linguaggio del nostro tempo, se è vero che le persone affrontano ogni giorno le loro identità multiple e guardano al mondo in ogni momento da molteplici prospettive. E sono proprio queste intersezioni, questi punti d’incontro che vogliamo esplorare. Noi non consideriamo “il mondo arabo” come un monolite oppure come un’entità a-storica. Siamo, piuttosto, interessate alle trame, agli intrecci tra il mondo arabo e il resto del mondo, per comprendere il dispiegarsi della Storia. Anzi. Il nostro approccio implica un ripensamento della periodizzazione della storia. E alla base di questa riconsiderazione ci sono le contro-narrazioni sempre più frequenti, che ambiscono a superare altri confini, i confini tra le discipline.
La letteratura araba: a chi appartiene questa patria?
Superare i confini è un gesto ormai banale per le èlite neo-cosmopolite. La cronaca quotidiana, però, ci risveglia da questo abbaglio, mostrandoci che l’attraversamento dei confini continua a essere una sfida con la morte per i rifugiati politici ed economici. In un contesto nel quale la forbice della diseguaglianza è sempre più aperta, l’appello a trascendere i confini nazionali attraverso la letteratura e ad adottare i modelli di interpretazione degli intellettuali nomadi e transnazionali può apparire elitario e utopico. Non pensiamo che sia così. Stanno emergendo nuove figure che sono ormai diventate soggetti chiave della sfera culturale transnazionale, e le loro microstorie producono quotidianamente dei racconti, delle narrazioni alternative degli eventi storici. Questi cambiamenti in atto, dunque, ci impongono di rispondere in modo diverso e più complesso a due domande: quali sono i confini che si possono superare attraverso la letteratura? E quali sono gli attori, i soggetti che possono superarli, oggi?
Sono domande determinanti: implicano una discussione approfondita sullo spostamento in atto, nel mondo arabo, della funzione della cultura e del ruolo dell’intellettuale. Nella sua ricerca, la studiosa egiziana Randa Abu Bakr ha analizzato il cambiamento in atto della figura dell’intellettuale da una concezione canonica – sia moderna sia postcoloniale – a una concezione non-tradizionale e non-convenzionale. Randa Abu Bakr sottolinea che la definizione tradizionale degli intellettuali, in particolare di quelli impegnati, era profondamente legata all’esistenzialismo francese. Un legame fondato anche sull’impronta storico-cronologica di una concezione di questo genere, che si è sviluppata non a caso nel mondo arabo negli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo. La funzione tradizionale dell’intellettuale doveva essere quella di rendere consapevole il popolo ed educarlo (Jacquemond, 2002). Un ruolo che imbrigliava, peraltro, l’intellettuale in una condizione paradossale: un attore culturale che lottava per la decolonizzazione e che era, allo stesso tempo, parte del sistema educativo coloniale. Oltretutto, la gran parte degli intellettuali affermatisi negli anni Cinquanta e Sessanta facevano parte delle istituzioni statali. Erano contemporaneamente scribi e scrittori (Jacquemond, 2002), e con il tempo sono diventanti i rappresentanti di un sistema gerarchico e dell’egemonia dello Stato sulla cultura.
Il profondo cambiamento in atto negli anni più recenti, rispetto alla funzione classica dell’intellettuale arabo, è quello colto da Randa Abu Bakr. La generazione emergente di artisti, produttori di cultura, creativi, in sostanza la generazione divenuta visibile soprattutto dopo le rivolte del 2011, rappresenta una “nuova corrente di intellettuali” che mette in discussione proprio la concezione moderna e post-coloniale del ruolo dell’intellettuale (Abu Bakr, 2015). È una generazione certamente più coinvolta nelle fatiche, nelle lotte quotidiane delle diverse popolazioni. Utilizza un linguaggio più colloquiale, reale, lavora su un terreno culturale più egalitario, e soprattutto non esercita la propria funzione di artista e intellettuale all’interno dell’egemonia dello Stato.
Sono queste le figure che ci piacerebbe coinvolgere in una conversazione pubblica sulle sfide attuali che affronta la società civile non solo nel mondo arabo, ma sul piano globale. Crediamo che questa nuova corrente di intellettuali arabi, emergente sin dall’esperienza delle rivolte del 2011, si trovi in una posizione a suo modo privilegiata. Può, infatti, fornire visioni nuove e innovative sulle sfide che il mondo deve affrontare. Sappiamo, però, che sarebbe impossibile incontrare loro e interrogarci sulle loro chiavi di lettura se non fossimo disposte a trascendere i confini che le istituzioni statali impongono a entrambi. A loro e a noi.
“I nostri cuori sono più grandi dei confini”, ha detto recentemente il regista palestinese-italiano Khaled Soliman al Nassiry alla prima a Sydney, lo scorso ottobre, della docu-fiction Io sto con la sposa (di Del Grande, Agugliaro e Nassiry, uscito nel 2014). Le sue parole fanno parte di una conversazione in corso da tempo sulla necessità di “cambiare l’estetica della frontiera” (Del Grande, 2014). Si tratta di un processo culturale ampio che travalica i confini delle singole discipline, e ingloba, assieme alla letteratura, nuove riflessioni teoriche. Stiamo assistendo alla produzione di una nuova cultura, che è innovativa e che si pone allo stesso tempo nel filone post-coloniale e post- globalizzazione. L’arte e la cultura della generazione che è scaturita dalle rivolte del 2011 dovrebbero essere esibite in Italia e in Europa per poter assicurare una profonda comprensione del lungo processo storico in cui le stesse rivolte del 2011 sono inscritte. È in corso una rivoluzione, ed è in corso nella letteratura, nella grafica contemporanea, nella musica, nell’arte visiva, nelle espressioni multimediali. I legami e gli intrecci tra questi spazi artistici meritano sia l’attenzione degli studiosi sia quella di un pubblico più ampio.
La storia dell’umanità ci ha mostrato, ieri e oggi, che i confini sono stati innalzati per essere superati. La decisione di attraversarli spiegando la vela della “letteratura araba”, il rifugio di coloro che hanno scelto di non avere una patria, potrebbe porre il Salone del Libro di Torino alla testa di un modo nuovo di concepire gli eventi culturali.

Lista delle citazioni

Abu Bakr Randa, “The Egyptian colloquial poet as popular intellectual. A Differentiated Manifestation of Committment”, in Friederike Pannewick and Georges Khalil together with Yvonne Albers (eds.),Commitment and Beyond. Reflections on/of the Political in Arabic Literature since the 1940s. Riechert Verlag Wiesbaden, 2015

Acconcia Giuseppe, Egitto democrazia militare, Exòrma, 2014

Caridi Paola, Arabi Invisibili, Feltrinelli, Milano, 2007

Del Grande Gabriele, Augugliaro Nicola, Al-Nassiry Khaled, Io sto con la sposa, Italia, 2014

Deleuze Gilles and Guattari Felix, A Thousand Plateaus, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1987

Hatoum Mona, Measures of distance, MOMA, NY, 1988

Jacquemond Richard, Entre Scribes et écrivains: le champ litteraire dans l’Egypte contemporaine, Sindbad, Paris, 2003

McAlister Melani, Epic Encounters: Culture, Media, and U.S. Interests, California University Press, Berkeley and Los Angeles, 2001

Ponzoda, Silvia, Palabra de Mujer, Women Make Movies, Spain/Egypt/Lebanon?Morocco, 2004

Said, Edward, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995 (orig. 1994)

Sayad, Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alla sofferenza dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano, 2002 (orig. 1999)

Sueif Ahdaf, Mezzaterra. Fragments from the Common Ground, Bloomsbory, London, 2004

Questo intervento di Paola Caridi e Lucia Sorbera è uscito su Jadaliyya. Ringraziamo la testata e le autrici, che hanno tradotto il testo per minima&moralia 

Fonte: minimaetmoralia.it

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